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La follia d’una strage della follia

(11/1/2011) Sherlock Holmes usava partire, per sciogliere il mistero d’ogni omicidio, dal primo degli elementi a disposizione: l’arma del delitto. Ed assai utile (elementare Watson) è seguire questa basilare linea di condotta anche nel caso del massacro nel  Tuscany Village di Tucson, Arizona. Non, ovviamente, per scoprire un assassino il cui allucinato sorriso, ormai da giorni, ci fulmina dalle prime pagine dei giornali, ma per cogliere la più cruda ed essenziale tra le molte verità che l’attacco armato contro la deputata Gabrielle Giffords racconta dell’America ed all’America.

Le cronache della strage ci hanno fin dal primo istante detto, a tal proposito, due cose. La prima: che quell’arma – la stessa usata, il 16 aprile del 2007, nel massacro del Virginia Tech, 32 morti ammazzati – era una Glock 19, pistola semiautomatica per l’occasione alimentata da uno speciale caricatore che le ha consentito, o meglio, che ha consentito all’omicida, di sparare, in rapidissima successione, 31 colpi. E – seconda cosa – che quell’arma era stata dall’omicida acquistata lo scorso 30 di novembre in un negozio all’ingrosso, lo Sportsman’s Warehouse di Tucson, con la stessa facilità con cui avrebbe potuto comprare un paio di scarpe.

La storia è, in fondo, tutta qui.  Come, in una classica testimonianza di coda di paglia, la destra americana – indignata per i tentativi di “strumentalizzare il caso per fini politici” – va da giorni ossessivamente ripetendo, Jared Lee Loughner non era che un pazzo, uno squilibrato, una mente allucinata che già aveva dato diverse prove del suo stato di alienazione. Indiscutibile. Così come indiscutibile è il fatto che quel pazzo, quella mente allucinata che, un anno fa, non aveva passato i test psichici necessari per entrare nell’esercito, quello squilibrato che, mesi or sono, era stato espulso da scuola perché considerato pericoloso da professori e compagni, non ha, lungo il cammino che lo separava dalla strage del Tuscany Village, incontrato alcuna forma di istituzione, di solidarietà o di “socialized medicine” (come l’America conservatrice suole spregiativamente chiamare ogni forma di assistenza pubblica) in grado di curarlo o, almeno, di metterlo in condizioni di non nuocere. Ha, invece, incontrato un’arma letale (un modello di pistola già usato in altre ed analoghe stragi) con la quale ha, da par suo ucciso 6 persone, ferendone in modo grave altre 14, tra le quali (vero obiettivo dell’attacco) una deputata democratica della House of Representatives, un giudice federale ed una bambina di nove anni che assisteva all’incontro di Gabrielle Giffords con i suoi elettori  come parte d’un corso di educazione civica (tema: come funziona la democrazia).

Welcome to the United States of America. O meglio: benvenuti nelle viscere di quell’America armata e violenta che la NRA (National Rifle Association, poderosa lobby dei fabbricanti e dei possessori di armi da fuoco, nonché riconosciuto bastione dell’ideologia conservatrice) è riuscita in questi anni a modellare a propria immagine e somiglianza. Nel 1994 la Glock 19 era stata – nella versione alimentata da caricatore a 31 colpi ed insieme ad altre armi da guerra – messa al bando dall’Amministrazione Clinton. Ma 10 anni dopo, alla scadenza del bando, era regolarmente – e, come si è visto, con grande successo – tornata sul mercato, grazie soprattutto alle pressioni della NRA, all’appassionata campagna di pressoché tutta la destra americana ed alla resa preventiva (e pressoché incondizionata) di tutti gli altri. Perché quella resa? I politologi sono soliti attribuirla a due fattori – la disfatta democratica nelle elezioni di mezzo termine del ’94 e la sconfitta di Al Gore nel Tennessee, suo Stato d’origine, nelle presidenziali del 2000 – che hanno a loro dire inoculato, tra i democratici più “pragmatici” (Obama incluso), l’idea che la battaglia per il controllo della diffusione di armi sia (come vuole una notissima poesia di Coleridge) un mortifero albatros, una classica causa persa, una zavorra capace di affondare ogni campagna.

Il massacro è, a tutti gli effetti, figlio di questa vittoria (della NRA) e di quella resa. Una resa totale che in nessun luogo è oggi più evidente che in Arizona (dove nel 2008 la nuova governatrice, la repubblicana Jan Brewer, ha aperto al libero porto d’armi anche bar, ristoranti e campus universitari). E che si è, nell’ultimo decennio, immancabilmente tradotta, pressoché ovunque, in senso comune.  Nel 1994, più del 70 per cento degli americani appoggiava una più rigida regolamentazione, a livello federale, della vendita delle armi da fuoco. Oggi – in un paese che, pure, da Colombine alla Virginia Tech, ha conosciuto decine di altre “stragi della follia” – soltanto il 44 per cento degli americani crede nella necessità, o nell’efficacia, di una politica di “gun control”. Ed il trionfo dell’America conservatrice- della sua cultura e della sua versione di “libertà” – è misurabile, oggi, lungo tutto l’arco della storia di questa ennesima mattanza. Nessuno – in un paese dove, nel nome della libertà, la salute è considerata una merce – ha curato Jared Lee Loughner. E proprio perché nessuno lo ha mai curato, Jared ha potuto tranquillamente passare, entrato nell’emporio d’armi dello Sportsman’s Warehouse, gli ormai farseschi rimasugli dei controlli stabiliti da una legge – sempre quella approvata nel ’94, regnante Clinton – che impone la verifica dei precedenti psichici e criminali dei compratori.

La destra americana ha, dunque, perfettamente ragione. Il massacro di Tucson è l’opera di un pazzo perduto dietro fantasmi che nulla hanno a che fare con la battaglia delle idee. Per loro Jared Lee Loughner va considerato un figlio di nessuno. O, al massimo, figlio di quel “Manifesto del Partito Comunista” che – insieme al Mein Kampf, ad “Alice nel paese della meraviglie”, alle opere di Ayn Rand ed alla “Fattoria degli animali” – era, a quanto pare, nella lista delle sue letture preferite. Resta da stabilire di chi sia figlio, invece, l’annuncio con il quale il molto sano di mente Jesse Kelly – ovvero, ii candidato repubblicano (e del Tea Party) che, lo scorso novembre, per due soli punti perse la corsa per il seggio congressuale occupato da Gabrielle Giffords – invitò i “liberi cittadini” della Pima County all’atto finale della sua campagna elettorale. “Targeting Victory”, mirando alla vittoria, recitava l’invito. E spiegava come tutti i partecipanti avrebbero potuto prender parte ad un gara di tiro al bersaglio con il fucile mitragliatore M16. Quale bersaglio? La stessa Giffords, naturalmente, Obama, la riforma sanitaria di Obama che la Giffords aveva avuto la sfrontatezza di appoggiato…E che Dio benedica l’America.

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