12 agosto 2006
Di Gabriella Saba
L’aymara Kostantina ha pianto per otto mesi quando il marito l’ha lasciata per un’altra, un anno fa, una cholita diciottenne (“Bella, la ragazza?”. Kostantina alza le spalle: “E cosa importa, se è bella? Aveva diciotto anni”. Kostantina ne ha 68 e ne dimostra cento).
Poi, si è comprata una gallina. L’ha chiamata Kostantina, come lei. La porta con sé ovunque. “De compania”, spiega. “Le galline sono più affettuose delle pecore, pues”.
La gallina comincia ad agitarsi una mezz’ora dopo La Paz, sulla strada per Cochabamba. Non sapevo ancora della sua esistenza quando ho visto la pollera di Kostantina gonfiarsi e ondeggiare dal di dentro come se una corrente sotterranea la agitasse dal fondo dell’autobus. Per un momento, la testina della gallina si è affacciata tra uno strato e l’altro della gigantesca gonna.
Kostantina l’ha ricacciata indietro, con tenerezza. Le ho detto: “Signora Kostantina, è impazzita? Se la beccano….”. Sugli autobus boliviani è permesso andare a 170, di notte e con la pioggia, guidare ubriachi e strafatti di foglia di coca, ma è vietatissimo portare con sé gli animali.
Mi ha guardato con aria colpevole. “Non posso lasciarla sola, si immalinconisce pues”.
E’ a quel punto che mi ha raccontato la storia del marito che se ne era andato con la ragazzina.
“Dopo cinquant’anni insieme”, ha detto piano. “Che ci avrà trovato, la chola. Neanche bello, era. Neanche ricco. Povero era, pues. Un povero campesino”. Si è asciugata una lacrina con un bordo della gonna, ha sorriso. “Adesso c’è la gallina”, ha detto.
Per un po’ abbiamo guardato le Ande fuori, in silenzio. I rilievi rossicci delle montagne si rincorrevano sotto di noi per poi scontrarsi nel fondo della valli grigie, verdi o bianche.
“Che bei paesaggi”, non potevo evitare di dire, ogni due minuti.
Kostantina annuiva, in silenzio. Aveva la faccia larga e piatta, come una matrioska, e piccoli occhi scuri che brillavano in mezzo alle rughe.
“Soffre ancora, Kostantina? Non ha figli, Kostantina?”.
“I figli ci sono, si, ma sono lontani. I nipotini sono lontani pues”.
Mi ha toccato il gomito. “L’Italia, bella deve essere. Portaci con te. Io ti faccio le pulizie e Kostantina fa le uova”. Ha riso come una bambina, io ho riso con lei, ho detto no no, l’Italia è triste Kostantina, e dove vivo io è più triste ancora.
Dopo tre ore si è alzata raccogliendo le gonne, ha detto “Io abito qui”. Ho guardato fuori ma non c’era nulla. Solo campi rasi, distese di patate, e all’orizzonte montagne. “Questo è il mio paese, si chiama XXXXXXX”, un nome incomprensibile.
Si è accomodata la sporta, mi ha teso la mano, ha sorriso. “Que le vaya bien, senora”. La gonna ha ripreso ad agitarsi come un mare in burrasca. Kostantina ha assestato un colpo a quel movimento. “Basta, adesso. Siamo arrivate, corazon, siamo arrivate”.