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Wednesday, October 9, 2024
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I democratici vincono. Perde Biden

“It was the best of times, it was the worst of times…“, era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi, era l’età della saggezza, era l’età della stoltezza, era l’epoca della fede, era l’epoca dello scetticismo, era la stagione della luce, era la stagione delle tenebre, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione….”. Con queste parole, nel 1859, Charles Dickens lapidariamente apriva “A Tale of Two Cities”, uno dei più celebrati dei suoi romanzi. E con queste stesse parole si potrebbe oggi tranquillamente cominciare – mutatis mutandis e, ovviamente, fatte le debite proporzioni – un articolo di cronaca politica scritto negli Stati Uniti d’America, con lo sguardo rivolto alle presidenziali del novembre 2024.

Tra “la primavera della speranza e l’inverno della disperazione”.

Inevitabile domanda: cosa mai può accumunare le due cose? Il “Racconto di due città” ha notoriamente per sottofondo, a cavallo tra Londra e Parigi, gli anni che, nel tramonto del diciottesimo secolo, precedettero, marcarono e infine seguirono la Rivoluzione francese. Anni terribili, tragici e splendidi al tempo stesso. Anni difficili e contradditori, così come contradditori e tragici – sia pur nella trumpiana versione della tragica farsa e, di certo, per nulla splendidi – sono, a modo loro, i fatti che di questi tempi, negli Usa, vanno scandendo le fasi preliminari della prossima corsa alla Cas Bianca, nonché quella che, cosa in prospettiva ancor più rilevante, si profila come un’epocale crisi della più antica e, per molti, paradigmatica democrazia del mondo. Tutto, anche in questo caso, sembra giocarsi, nell’inestricabile groviglio di sovrapposti paradossi, in una terra di nessuno perduta tra la luce e le tenebre, tra “la primavera della speranza e l’inverno della disperazione”.

Altra inevitabile domanda: quali sono – oltre ogni sempre opinabile metafora letteraria – questi sovrapposti paradossi? Quali sono queste contraddizioni? Per quanto molte e molto complesse, queste contraddizioni possono essere riassunte in questa semplice equazione: negli Usa, le forze dell’antidemocrazia – quelle, per intenderci, che, da Donald Trump ispirate, furono la forza motrice dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 – continuano a perdere nelle urne. Ed apparentemente escono o, meglio, paradossalmente escono rafforzate da ogni sconfitta.  Le forze della democrazia continuano a vincere nelle urne, ma, al contrario ogni loro vittoria non sembra che il preludio d’una finale sconfitta.

Donald Trump: una sconfitta dietro l’altra

Più in concreto: le cronache politiche degli ultimi sette anni, quelli seguiti alla sorprendente vittoria di Donald Trump nel novembre del 2016, sono stati per il vincitore – che comunque anche in quell’occasione perse il voto popolare per quasi tre milioni di voti – anni di ripetute e piuttosto sonore batoste elettorali. L’ultima quella – di ridotta entità numerica e territoriale, ma politicamente piuttosto significativa – subita martedì scorso in Virginia, nel Kentucky, in Ohio ed in altri Stati. Poca roba, formalmente. Roba locale, ma facilmente, anzi, inevitabilmente leggibile, in chiave nazionale, come la continuazione ed il rafforzamento di una tendenza.

In Virginia, gli elettori – sordi agli appelli del governatore repubblicano Glenn Youngkin, personaggio di primo piano da molti considerato, nel suo partito, come una possibile alternativa a Donald Trump – hanno regalato la maggioranza tanto alla Camera quanto nel Senato. In Kentucky – uno Stato che, nel 2020, Donald Trump aveva stravisto con 26 punti di vantaggio, il democratico Andy Beshear ha agevolmente conquistato, anzi, riconquistato la poltrona di governatore. Ed in Ohio il “sì” ha vinto per ampio margine un referendum che reclamava l’introduzione di un incondizionato diritto alla interruzione della maternità nella Costituzione dello Stato, replicando, in ancor più ampi termini, la vittoria che i difensori del “diritto di scelta della donna” avevano marcato mesi fa in Michigan ed in altre parti d’America, alcune delle quali di tradizionale e strettissima fede repubblicana.

Le chiavi della House of Representatives nelle mani dell’odiatissima Nancy Pelosi

Nessuna sorpresa, nessuna novità. Le cronache ci raccontano, infatti, come Donald Trump – vincitore nel 2016 grazie anche alle obsolete contorsioni del sistema dei collegi elettorali – abbia da allora perduto ogni confronto elettorale. Già nel 2018, quando gli Usa erano andati alle urne per le tradizionali elezioni di metà mandato, i repubblicani avevano registrato perdite storiche, consegnando le chiavi della House of Representatives all’odiatissima Nancy Pelosi, per l’occasione circondata, lei quasi ottantenne, da un’allegra banda di giovani e molto progressiste deputate donne, che meglio non avrebbero potuto rappresentare l’emergente ondata di anti-trumpismo. Ed appena è il caso di ricordare come, nel 2020, Donald Trump avesse poi in primissima persona perso – prima nelle urne e poi nella vergogna dell’assalto a Capitol Hill – tanto la sua battaglia contro Joe Biden, quanto quel poco di democratica dignità che ancora gli restava.

Ultima tappa di questo filotto di batoste elettorali: le lezioni di metà mandato del 2022, da Trump e dai repubblicani giocate in quello che pareva – e di fatto era – un contesto di assoluto vantaggio. Tutto – la logica del cosiddetto “ciclo politico”, un’economia marcata da un’arrembante inflazione ed un quadro politico dominato da un crescente malessere all’ombra d’un presidente molto impopolare – sembrava preannunciare uno “tsunami rosso” (perché rosso è negli USA il colore del G.O.P.). Tutto, tranne l’effettivo risultato delle urne, che, contati i voti, garantì al Partito Democratico il controllo del Senato, regalando al Partito Repubblicano il proverbiale “topolino” –partorito, nel caso, non dalla montagna, ma da quella che s’era preannunciata come una gigantesca ondata – d’una risicatissima e condizionatissima maggioranza nella House of Representatives.

Le tre “D” che affondano Trump e il Partito Repubblicano

Molto efficacemente, alcuni analisti politici avevano un anno fa indicato in tre “d” le cause di quella sconfitta. “D” come Dobbs, ovvero come la sentenza della Corte Suprema (Dobbs vs Jackson) che nello stesso anno del “midterm”, grazie ai tre giudici per vie traverse nominati da Trump, aveva cancellato – in questo caso sollevando davvero un’imponente ondata, quella dell’indignazione dell’elettorato femminile – la Roe vs. Wade, che costituzionalmente aveva garantito, dal 1973, il diritto di scelta delle donne in materia di interruzione della maternità. “D”, ovviamente, come Donald Trump. E, infine, “d” come “democracy”. Ovvero: come risposta ad un ex presidente e ad un partito che avevano sigillato, nelle parole e nei fatti – con l’assalto al Congresso e con la reiterazione di“the Big Lie”, la grande menzogna d’una frode elettorale mai provata perché mai esistita – il proprio divorzio dalla democrazia.

Rispolverando una vecchia metafora tratta da un’antica ballata – “The Rime of the Ancient Mariner” di Samuel Taylor Coleridge – molti avevano concluso, dopo il “midterm”, che Donald Trump era ormai un albatros – una zavorra o, peggio, una maledizione, un presagio di sventura – attorno al collo del Partito Repubblicano. “Davvero il G.O.P. vuole confermare alla propria guida l’unico candidato che i democratici sono sicuri di battere?”. Questo, con disperati accenti, s’era in quei giorni chiesto un editoriale del Wall Street Journal, paludato – e fino al giorno prima disciplinatamente trumpista – segmento dell’impero mediatico di Rupert Murdoch.

La “trumpizzazione” del G.O.P.

Qualcuno potrebbe a questo punto chiedersi: dove sta la contraddizione? Non è forse tutto questo l’indicazione d’un Paese che si sta, voto dopo voto, lasciando alle spalle l’esperienza, insieme tragica e farsesca, del trumpismo? Per rispondere vale la pena partire proprio dalla domanda – molto meno retorica di quel che sembra – posta dall’editoriale del Wall Street Journal. Perché due cose, al di là del semplice computo dei voti, ci raccontano le cronache. La prima è che, sì, il Partito Repubblicano davvero vuole confermare (anzi, di fatto già ha confermato e riconfermato) alla propria guida “l’unico candidato che i democratici sono sicuri di battere”. Ad ogni sconfitta e ad ogni nuovo problema giudiziario – l’ex presidente è oggi sotto processo per un fardello di ben 91 reati penali, più una serie di casi civili – il controllo di Donald Trump sul G.O.P. si è esteso e rafforzato, al punto che la “grande menzogna” e l’attacco al sistema democratico sono ormai, come veri e propri atti di fede, parte integrante, strutturale, d’un partito in tutto e per tutto trumpizzato. Come ampiamente dimostrato, non più di qualche settimana fa, dalle vicende che hanno portato alla caduta dello Speaker della House of Representatives, Kevin McCarthy, poi rimpiazzato, al termine di una caotica e grottesca serie di votazioni, da Mike Johnson, deputato della Louisiana dal molto oscuro curriculum, ma dalla molto luminosa fede trumpiana. E come da tempo confermato – ormai al di là d’ogni ragionevole dubbio – dall’andamento delle primarie repubblicane. Trump gode oggi – a dispetto delle sconfitte e dei processi o, forse proprio in virtù delle sconfitte e dei processi – del 56 per cento dei consensi della base votante. Solo un miracolo o un cataclisma potrebbe, a questo punto, privarlo della “nomination”.

Più democratici salgono, più Joe Biden scende….

La seconda (e ancor più importante) cosa che ci raccontano le cronache è che, no, i democratici (intesi come membri dell’omonimo partito e come semplici sostenitori della democrazia) non sono affatto sicuri di battere Donald Trump nel novembre del 2024. Giusto un paio di giorni prima di quest’ultima e molto parziale tornata elettorale, il New York Times aveva pubblicato i risultati di un’inchiesta commissionata alla Siena College, un’impresa specializzata in sondaggi. E questo è quel che le cifre hanno rivelato. Donald Trump batte Joe Biden – in qualche caso ben al di là di quello che i sondaggisti chiamano “margine d’errore” – in ben cinque di sei Stati considerati “in bilico”. Ovvero: in quegli Stati – nel caso specifico l’Arizona, la Georgia, il Michigan, il Nevada, la Pennsylvania ed il Wisconsin – che, a prescindere dal voto popolare, davvero decidono chi si installerà alla Casa Bianca. Giusto per rinfrescare la memoria: nel 2016 Trump prese tre milioni di voti meno di Hillary Clinton, ma vinse grazie ad un margine di meno di 80mila voti i tre di questi Stati. E nel 2020 pur ottenendo, a livello nazionale, sette milioni di voti più di Trump, Joe Biden avrebbe potuto perdere la corsa se, in Pennsylvania, Georgia e Arizona, appena 45mila voti avessero cambiato colore.

Ed anche altre ed ancor più sconcertanti cose rivela il sondaggio. Su tutte: l’emorragia di consensi che il presidente ed inevitabile prossimo candidato democratico Joe Biden registra in quelli che, fino a ieri, erano considerati i suoi più inattaccabili bastioni, gli stessi che, nel 2020 erano stati alla base della sua vittoria: gli afro-americani, gli ispani, le minoranze in genere, le donne, i giovani. L’America viene, qualcuno l’aveva chiamata. Una cifra per dare il senso delle dimensioni del problema. Stando ai risultati della ricerca di Siena College, Donald Trump, il presidente che, negli ultimi 100 anni, più si è identificato con la causa della “supremazia bianca”, gode oggi, in quei sei Stati del consenso del 22 per cento dell’elettorato afro-americano (era meno dell’8 per cento nel 2020) e di quasi la metà (era meno del 30 per cento) dell’elettorato ispano.

Il “fattore età”, una zavorra senza rimedio

La ragione di tutto questo? Difficile delinearla a 360 gradi. Ma fin troppo facile è identificarne la parte più ovvia e visibile: la permanente, pertinace impopolarità di Joe Biden. Anche il partito democratico ha il suo albatros intorno al collo. Colpa, di certo, dell’età avanzata e d’una sempre più diffusa percezione di senile debolezza che, per molti aspetti, sovrasta – come una sorta di maledizione, per l’appunto – la realtà dei fatti. Biden è certamente anziano e certamente dimostra, nei gesti e nelle parole, gli 82 anni che avrà compiuto il giorno in cui, dovesse vincere, inaugurerebbe il suo secondo mandato. Ma, dati alla mano, i suoi tre anni di presidenza non sono affatto stati senilmente “sonnolenti”. Biden è riuscito, in condizioni politiche molto difficili, a far passare un piano di pubblici investimenti in infrastrutture – un vero e proprio colpo di maglio contro le persistenti illusioni liberiste – storicamente paragonabile, se non al New Deal di Franklin Delano Roosevelt, quantomeno a quello lanciato da Ike Eisenhower negli anni ’50. Ed è soprattutto in virtù di questi provvedimenti che gli Stati Uniti hanno superato meglio e più rapidamente di altre economie avanzate la crisi indotta dalla pandemia del Covid.

L’economia Usa sta bene, dicono, sia pur con diverse sfumature, pressoché tutte le analisi degli esperti in materia. Sta bene al punto che la prospettiva di una recessione – da molti giudicata inevitabile – sembra ormai cancellata. La disoccupazione è ai suoi minimi storici e l’inflazione, un tempo galoppante, appare sotto controllo senza il ricorso, come molti prevedevano o auspicavano, a drastiche misure d’austerità. Il problema è che la gente legge i prezzi della merce esposta nei supermercati e le cifre marcate dai distributori di benzina all’ora del pieno, non le relazioni degli economisti. E certo è che la narrativa dei successi della “bidenomics” ancora non è diventata senso comune, né presumibilmente lo diventerà – suggeriscono i sondaggi – per il novembre del 2024.

Quanto affidabili sono i sondaggi?

Molti analisti politici suggeriscono – con molto buone argomentazioni – di non prendere troppo alla lettera i risultati dell’inchiesta di Siena College. Un anno, in tempi elettorali, può essere, dicono, una eternità lungo la quale tutto cambia e ricambia. Basta per questo dare un’occhiata a quel che i sondaggi dicevano a proposito di Obama e della sua ormai “fatale” impopolarità nel novembre del 2011, a un anno dalle sua trionfale conquista, contro Mitt Romney, del suo secondo mandato. Tutto vero, tutto giusto. I sondaggi non sono voti e, a dispetto di tutto, i voti hanno fin qui – come di nuovo accaduto martedì scorso – dato ragione alla democrazia. Ma certo è che oggi, ignara delle analisi e dei dati, l’America sembra percorsa da un malessere che, per molti aspetti – seppur in un molto diverso contesto – ricorda, per la sua insondabile pertinacia, quello che, nei tardi anni ’70, un famoso e bellissimo film, “Network”, sintetizzò nella frase che il protagonista, Howard Beale, un anchorman televisivo impazzito (e proprio per questo diventato popolarissimo) ripeteva nel corso delle sue deliranti filippiche dal piccolo schermo: “I’m as mad as hell, and I’m not gonna take this anymore”. Sono furioso è non sopporterò più a lungo tutto questo…

Tutto questo potrebbe, tra un anno – anzi è molto probabile che sia come è oggi – proprio lui: Joe Biden. Lui e la percezione d’insicurezza che, in una speculare rappresentazione dello status quo, a dispetto di dati e fatti, l’82enne presidente in carica continua ad emanare. E tutto potrebbe nuovamente ridursi, al momento del voto a quello che i politologhi chiamano l’effetto “better off”. Ovvero: alla domanda che, il 28 ottobre del 1980, nell’ultimo dei suoi dibattiti televisivi con Jimmy Carter, presidente democratico in carica, Ronald Reagan rivolse al paese nelle sue conclusioni: “Are you better off today, than you were four years ago?”. State meglio oggi di quanto stavate, quattro anni fa, quando Carter ascese alla presodenza?

La risposta a questa domanda segnò agli inizi degli anni ’80 – all’insegna dell’ottimismo liberista del “Morning in America” – la nascita del reaganismo. E potrebbe, tra un anno, riportare alla presidenza Donald Trump. All’insegna, questa volta, della vendetta e della distruzione del “Deep State. O, più concretamente, della democrazia. Con imprevedibili – anche se prevedibilmente catastrofiche – conseguenze. Per l’America e per il mondo intero.

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