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Giustizia (e ingiustizia) e stelle e strisce

19 maggio 2009

 

Di Massimo Cavallini

 

Il timore di uno Stato troppo forte – o forte quanto basta per opprimere la libertà individuale – è, notoriamente, parte del DNA della democrazia americana. Ed è con questo timore che i “padri fondatori” concepirono, originalmente, un potere giudiziario, non solo debole, ma “più debole”. O, volendo ripetere le parole che Alexander Hamilton usò in uno dei suoi Federalist Papers (gli 85 editoriali che – scritti da lui, James Madison e John Jay tra il 1787 ed il 1788 – della democrazia americana costituiscono, per molti aspetti, la base filosofica), come di gran lunga “il meno pericoloso dei tre rami del governo”. Tanto “meno pericoloso” che, in effetti, non doveva, nella visione di Hamilton, avere “alcuna influenza né sulla spada, né sulla borsa”. Anzi: non doveva “avere alcuna FORZA (il maiuscolo è di Hamilton n.d.r.), né alcuna VOLONTÀ, ma soltanto giudizio”. E fu di certo con questo in mente – ovvero: pensando ad una magistratura che facesse il minor danno possibile – che la Costituzione dell’87 affidò ad un molto scarno (ed assai vago) articolo, il III, la definizione di un  “Judicial Power of the United States”, da attribuire “ad una Corte Suprema ed a corti inferiori tali quali il Congresso di volta in volta decida di ordinare e stabilire”. Insomma: volendo un po’ forzosamente parafrasare il celebre motto orwelliano della “Fattoria degli animali”, la democrazia americana si formava dividendo se stessa in tre separati rami di potere. Tutti eguali tra loro e tutti egualmente capaci di controllarsi e limitarsi a vicenda. Anche se, tra loro, uno – quello giudiziario – risultava, in realtà, “meno uguale” (o meno pericoloso) degli altri.

Così doveva essere. E così per qualche anno davvero fu. Al punto che il primo Chief Justice della Corte Suprema – John Jay, quello dei Federalist Papers di cui sopra  – disperato per la mancanza di peso specifico dell’istituzione che dirigeva (e che, in buona misura, lui stesso aveva concepito) finì per dimettersi, optando (nel 1795) per la posizione di governatore dello Stato di New York. Poi però, come nella celebre favola, le sorti di questa Cenerentola del potere radicalmente cambiarono. Ed il ballo a palazzo che operò la repentina  trasformazione fu, appena sei anni dopo le dimissioni di Jay, il “Marbury v Madison”. Ovvero: il primo dei grandi casi che, nel 1803, giunse sui tavoli d’una Corte destinata a diventare “pericolosa” oltre ogni immaginazione. William Marbury era un giudice di pace del Distretto di Columbia, nominato – insieme a molti altri giudici – dal presidente John Adams, poco prima di cedere il  potere a Thomas Jefferson, il rivale vittorioso nelle elezioni del 1800. Jefferson si era – attraverso il suo segretario di Stato, James Madison, rifiutato di confermare la nomina. Ed il caso era finito di fronte alla Corte Suprema, allora guidata dal giudice John Marshall.

Impossibile è, in un articolo di giornale, illustrare i molti e spesso contradditori dettagli d’un processo sul quale sono stati scritti interi trattati. Ma questo è il punto che davvero conta. Nel considerare la validità della nomina di Marbury (validità confermata), la Corte s’arrogò il diritto di considerare (negandola) la costituzionalità del “Judiciary Act del 1789”, una legge voluta da Adams e approvata dal Congresso. Ovvero: stabilì il principio – da allora rimasto in vigore – del cosiddetto “judicial review power”, il potere di revisione costituzionale (non previsto dalla medesima Costituzione) di tutte le leggi e di tutti i provvedimenti legislativi, in questo modo riservando a se stessa, nel complesso di sistema di “checks and balances” sul quale si regge la democrazia americana,quella che il senso comune chiama l’ultima parola. E questo, tanto sulla base, per l’appunto, del “judicial review power”, quanto su quella del cosiddetto “statutory construction power” (il potere di interpretare, o reinterpretare, tutte le leggi emesse a livello federale o statale).

Da allora (cioè praticamente da sempre), impossibile è ripercorrere, nel bene o nel male, la storia degli Stati Uniti d’America senza considerare le più importanti tra le molte decisioni prese, senza possibilità d’appello (soltanto la Corte Suprema può cambiare una sentenza della Corte Suprema), da questi nove “sovrani assoluti” (così molti li chiamano) nominati a vita dal presidente (con l’approvazione del Senato) e dipendenti esclusivamente dalle proprie idee e dai propri umori (viene in mente una celebre vignetta di Jules Feiffer, nella quale uno dei nove giudici, evidentemente di malumore, chiede agli altri: ” Non vi è mai capitata una di quelle giornatacce in cui vi svegliate la mattina e tutto vi sembra incostituzionale?”). Dalla malfamata Dred Scott v Sanford (1857), che aprì le porte alla Guerra civile dichiarando “anticostituzionale” la proibizione della schiavitù (perché privava cittadini della loro proprietà), alla Plessy v Fergusson (1896) che dette base legale alla segregazione razziale, alla Brown v Board of Education (1954) che, al contrario, decretò la incostituzionalità della segregazione nelle scuole, fino alla Roe v Wade (1973) che sancì il diritto all’interruzione della gravidanza, ed alla decisione che (ancor duole il ricordo) nell’anno 2000 consegnò a George W. Bush, per 5 voti contro 4, la vittoria nella corsa presidenziale.

Al di sotto di questa ultima istanza – divenuta, a dispetto della volontà dei founding fathers , “più uguale degli altri” – si muove un sistema di corti federali  (o constitutional courts, perché, per l’appunto espressamente previste dalla Costituzione). Anch’esse sono composte da magistrati nominati dal presidente con l’approvazione del Senato, e divise in 94 distretti di primo grado (le cosiddette trial courts, o petit courts, forti di 645 giudici) ed in 13 “circuiti” d’appello (o appellate courts, con 167 giudici) dei quali 12 a base territoriale ed uno, il 13esimo, specializzato in cause che coinvolgono direttamente il governo Usa. A queste corti tocca giudicare le dispute civili o i reati – non molti, ma, in genere, di grande rilievo – di natura federale. I processi possono risolversi in aula al termine di un regolare dibattimento di fronte ad una giuria popolare che può decidere solo all’unanimità, oppure – come avviene nella maggioranza dei casi – attraverso il cosiddetto “plea bargain”. Ossia, attraverso la previa ammissione di colpa del reo e la contrattazione extragiudiziaria della pena. Gli appelli non sono automatici. E possono essere negati se la corte non ritiene che siano emersi elementi  nuovi (prove non esaminate in primo grado o errori di procedura che hanno danneggiato l’imputato).

Ma è ovviamente a livello statale che, negli Usa, si svolge – almeno dal punto quantitativo – la più rilevante parte del lavoro giudiziario. Ed è qui, nel labirinto di 50 sistemi legali tra loro simili, ma assolutamente indipendenti, che spessissimo – più esattamente, in 39 dei 50 stati dell’Unione- ci si imbatte in un altro fenomeno tipicamente americano: quello della eleggibilità dei giudici. Con tutto il carico di dubbi e di domande che  il sistema inevitabilmente comporta.

È giusto – o, se si preferisce, è davvero democratico – eleggere i giudici? Per rispondere, occorre partire da alcuni concatenati dati di fatto. Il primo: alle elezioni per le cariche giudiziarie, non partecipa, di norma, più del 10-15 per cento degli aventi diritto. Il secondo: per disputarsi questa molto ristretta base elettorale, occorre fare campagna. Il terzo: per fare campagna elettorale, bisogna raccogliere fondi. Il quarto: i fondi in questione in massima parte provengono dalle lobby che, per una o per l’atra ragione, sono interessate al prevalere d’una, o dell’altra, filosofia giudiziaria. Il quinto: per tutte le ragioni di cui sopra, grazie al sistema elettivo, frequentissimi – il 65% secondo uno studio elaborato nel 1998 dall’Università dell’Illinois – sono i casi in cui i giudici sono chiamati a prendere decisioni che riguardano persone o enti che hanno finanziariamente contributo alla loro campagna elettorale.

Naturalmente i sostenitori della democraticità del sistema negano ogni “conflitto di interesse”, semplicemente ribaltando l’ordine dei fattori. Ovvero: sostenendo che non è che un giudice definisca la sua filosofia giudiziaria (e e sue sentenze) in base ai contributi di campagna, bensì sono i contributi di campagna che si muovono in base alla filosofia giudiziaria del giudice. Resta però, oltre questi sofismi, il fatto che la eleggibilità inevitabilmente porta, nelle aule di giustizia, tutti i peggiori vizi (e forse nessuna delle virtù) della politica. Le campagne elettorali “sporche”  si sono andate moltiplicando al punto da interessare, ormai, il 91 per cento delle corse per la Corte Suprema dei singoli Stati. Lo scorso anno in Wisconsin, il vincitore, Michael Gableman, finanziato dalla Wisconsin Manufacturers and Commerce (la confindustria locale, che il giudice ha poi favorito appoggiando sentenze molto “business friendly”) ha bombardato le reti statali con spot nei quali, del tutto gratuitamente, accusava il rivale, Luis Butler, di essere “soft on pedophiles and illegal immigrants”, troppo buono con i pedofili e con i clandestini. Ed è certo che, ovunque, con l’approssimarsi delle elezioni, aumenta la severità delle pene comminate. Uno studio della Università Internazionale della Florida, relativo agli anni tra l’85 ed il ’95, dimostra come, negli anni elettorali, negli Stati del Texas, della Florida, della California, della Pennsylvania e dell’Ohio, la percentuale delle sentenze capitali approvate dalla Corte Suprema regolarmente passi, da una media del 63 al 95 per cento. E come, in quegli stessi anni elettorali, sistematicamente si registri un surplus di quasi 3000 anni di carcere comminati.

Soltanto una “zona d’ombra della democrazia”? O, piuttosto, qualcosa che, della democrazia (e della giustizia), tende ad essere la negazione? Il dibattito sulla natura del sistema giudiziario americano – racchiuso tra i due estremi dei nove “sovrani assoluti” della Corte Suprema, e “l’estrema democrazia”, dei giudici elettivi – dura da oltre due secoli. Ed almeno altrettanti, è facile immaginare, è destinato a continuare.

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