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Frank Wilkinson e Hugh Thompson, due eroi da ricordare

12 febbraio 2006

 

di Massimo Cavallini

 

Nei giorni scorsi, in America, se ne sono andati due eroi veri. Veri ed entrambi – per ragioni molto diverse e, insieme molto simili – assai tardivamente celebrati. Il primo, deceduto la notte del 3 gennaio alla venerabile età di anni 91, si chiamava Frank Wilkinson; ed il suo nome era di prepotenza entrato, nel lontano 1955, nella storia tenebrosa del maccartismo. O meglio: era apparso, come un improvviso bagliore di dignità, nel buio morale che faceva da sfondo agli ultimi, feroci colpi di coda della “Red Scare”, la caccia alle streghe comuniste che, lungo tutti gli anni ’50, aveva avvelenato la vita della democrazia americana. Proprio lui, infatti, chiamato a testimoniare sotto giuramento di fronte al famigerato Un-American Activities Committee diretto dal senatore Joseph McCarthy, era stato il primo a rifiutarsi di rispondere alla fatidica domanda – “È mai stato membro del partito comunista?” – senza cercare la protezione del quinto emendamento della Costituzione (quello che concede ad ogni imputato il diritto di non rispondere a domande che potrebbero risolversi in un’auto-accusa), bensì apertamente sventolando la bandiera del primo emendamento (quello che difende la libertà d’espressione). E proprio a lui era, per questo, toccato l’assai dubbio onore d’essere – tre anni dopo, nel 1958 – una delle ultime persone a finire in carcere per un “oltraggio alla corte”, consumato di fronte a quello che, già allora, cominciava ad essere considerato uno dei più oltraggiosi tribunali mai allestiti negli Stati Uniti d’America.

Frank Wilkinson ricopriva, prima di diventare una delle molte vittime della frenesia anticomunista – e prima d’essere, per questa medesima ragione, licenziato insieme a tutti i suoi più stretti collaboratori – la carica di capo della Housing Authority della città di Los Angeles. Ed era, in quanto tale, alla testa d’un progetto d’edilizia popolare che, destinato ad un’immensa aerea verde chiamata Chavez Ravine, aveva la pretesa – giudicata dalle lobby delle grandi imprese di costruzione un’intollerabile forma di socialismo – di dare una soluzione ai problemi abitativi della parte più povera della popolazione. Oggi la Chavez Ravine ospita – oltre al monumentale Dodger Stadium – una miriade di villette che, dall’alto della collina, rimirano, oltre una delle molte freeway che solcano la città, le miserie del South Central (uno dei più violenti ghetti urbani d’America). E tra i più recenti ricordi della lunga e bella vita di Wilkinson (che mai ha rinunciato alla sua battaglia a favore dei più indigenti), spiccano le parole con le quali, dieci anni fa (quaranta dopo il suo licenziamento e la sua condanna penale), il consiglio municipale di Los Angeles (che mai lo ha riassunto) lo ha infine premiato “per una vita dedicata alla difesa delle libertà civili ed alla creazione d’una città più vivibile…”.

Il secondo eroe, ucciso dal cancro a 62 anni nella notte di venerdì, si chiamava invece Hugh Thompson. Ed appena un anno fa, in una delle rarissime interviste da lui concesse (alla Associated Press in questo caso), così aveva commentato il senso della storia che lo aveva, suo malgrado, reso famoso: “Quando fai una cosa giusta, falla, semplicemente, perché è la cosa giusta da fare. La ricompensa potrebbe non arrivare mai…”. Per lui, quella ricompensa, è infine arrivata, ma con trenta anni quasi esatti di ritardo. Più esattamente: il 6 marzo del 1998, quando l’esercito lo ha decorato con la Soldier’s Medal, il più alto riconoscimento militare per episodi d’eroismo che non riguardano scontri armati con il nemico. Non c’era, infatti, traccia di nemico alcuno quando, il 16 marzo del 1968, l’allora Chief Warrant Officer Hugh Thompson, comandante d’un elicottero da ricognizione, aveva sorvolato, insieme al mitragliere Lawrence Colburn ed al capo equipaggio Glenn Andreotta (caduto in combattimento appena tre settimane più tardi), un villaggio chiamato My Lai, nel distretto di My Son, non molto lontano dall’antica capitale di Hué. C’erano, invece, soltanto gli “amici” – i riconoscibilissimi amici – della compagnia Charlie, parte del primo battaglione della 11esima brigata della divisione Americal dell’esercito degli Stati Uniti d’America. E c’erano, soprattutto, sparsi ovunque, i morti che il fuoco amico della Charlie, al comando del capitano Ernest Medina, aveva lasciato sul terreno. Nessuno è mai riuscito a contarli tutti. Qualcuno sostiene che fossero 347, altri 504 (e tanti sono i nomi finiti sulla lapide che, a My Lai, ricorda quel giorno). Di certo c’è però questo: quei morti – in grandissima prevalenza vecchi, donne e bambini – erano tutti disarmati. E sarebbero probabilmente stati molti di più, se Hugh Thomas non avesse, d’impulso, fatto “la cosa giusta”. Ovvero: se non fosse atterrato con il suo elicottero, frapponendosi tra gli uomini della Charlie ed un bunker dove avevano trovato rifugio alcune decine di sopravvissuti. “Per fermare quella mattanza – avrebbe due anni più tardi testimoniato Thompson di fronte alla commissione d’inchiesta – dovetti dare al mitragliere Colburn l’ordine di puntare l’arma contro i nostri soldati…Perché sia accaduto quel che è accaduto, non lo so. Quel che so è che, quel giorno, avrei voluto salvare più vite umane…”.

Quel che è accaduto a My Lai il 16 marzo del 1968 la storia lo ha, in realtà, spiegato con dovizia di macabri dettagli. E, contrariamente a Thompson, ha anche immancabilmente individuato i perché d’una strage che, in effetti, fu solo la punta d’un iceberg. O, più esattamente: la parte più visibile (e più esaminata) d’una strategia militare – quella detta del “search and destroy” – che era in sé (e che in effetti fu) la ricetta d’un massacro annunciato (e continuato). Perché questa era, in sostanza, la sua filosofia: una volta individuata la presenza dei vietcong in un villaggio occorreva “distruggerlo per salvarlo”. E, per salvarlo, occorreva cancellare – si trattasse di rastrellamenti, o di bombardamenti al napalm – ogni distinzione tra guerriglieri ed abitanti. A My Lai il capitano Medina (che venne poi assolto con formula piena dai tribunali militari) non fece, in fondo, che applicare con qualche feroce eccesso di zelo questo principio definito in alto loco. Ed il tenente William Calley – condannato in un primo tempo all’ergastolo, ma perdonato da Nixon dopo appena tre anni di permanenza nella comoda reclusione della scuola militare di Fort Benning – altro non fece che interpretare con personale e sadico furore (prima facendo scendere in pre-scavate fosse comuni, e poi mitragliando le vittime che doveva salvare dall’avanzata comunista) i dettami d’una consolidata strategia antiguerriglia. Paradossale dettaglio: fu proprio grazie alla decisione di cancellare la popolazione civile dalle mappe delle campagne del Sud Vietnam, che i conti del generale William Westmoreland (comandante del corpo di spedizione americano tra il ’64 ed il ’68), alla fine, non tornarono affatto. Stando al suo famoso “body count” – poi ridicolizzato dagli eventi – nel 1968 (anno dell’offensiva del Tet) la forza dei vietcong doveva, infatti, essere ormai ridotta ad un ormai insignificante numero di combattenti. Ma così non era, perché i “nemici morti” da lui contati erano in realtà, in gran parte, come a My Lai, vecchi, donne e bambini…

Qualcuno potrebbe a questo punto sottolineare come, per quanto tardive, le celebrazioni di Wilkinson e Thompson, siano la testimonianza della vitalità d’una democrazia che, contrariamente a quanto accade nei regimi totalitari, è comunque capace di riconoscere, nel tempo, i suoi errori. E di emendarli. Ma non sarebbe, questa, che una parte della verità. La parte più comoda o, se si preferisce, l’alibi che, sotto il belletto, nasconde il senso più profondo della storia, l’aspetto più autentico ed attuale degli avvenimenti. Il punto vero, la morale del racconto, se vogliamo, è che la guerra in Vietnam è – come, la caccia alle streghe alla quale Wilkinson si ribellò mezzo secolo fa – parte d’una storia con la quale l’America non ha mai davvero fatto i conti. Meglio ancora: è parte d’una storia con la quale l’America fa i conti ogni giorno, nello scontro irrisolto (e forse irrisolvibile) tra due parti della sua anima. Nella sua intervista alla Associated Press, Hugh Thmpson ha raccontato quali fossero stati, prima che l’esercito gli conferisse la Soldier’s Medal, i premi ricevuti per il suo tentativo di “salvare l’onore” del paese sotto le cui bandiere stava combattendo: telefonate di minaccia nel cuore della notte, gatti morti ritrovati sulla veranda di casa, petizioni in Congresso perché fosse lui – e non Calley, o Medina – a finire di fronte alla Corte Marziale. E freschissimo – vecchio di poco più d’un anno, in effetti – è il ricordo della martellante campagna condotta contro il candidato democratico John Kerry – peraltro timidissimo nella difesa della parte migliore della sua biografia politica – accusato di “tradimento” per esser stato, in anni lontani, tra coloro che denunciarono le atrocità commesse nel corso d’una guerra che è, nel tempo, diventata la metafora del conflitto tra due distinte visioni dei “valori americani”. E che, in quanto tale, mai è davvero finita. Le ultime denunce degli orrori del Vietnam – i massacri di civili commessi dall’unità d’elite “Tiger Force” nel delta del Mekong – sono valse al quotidiano Toledo Blade, nel 2004, due premi Pultizer ed un fiume di velenose rampogne da parte della destra…

Basta, del resto, alzare gli occhi per vedere ovunque, nell’America d’oggi, i segni della battaglia in corso. Basta leggere le cronache di Abu Ghraib e dei bombardamenti di Falluja. Basta ascoltare il presidente in carica – che a suo tempo evitò la guerra vera rifugiandosi, grazie ai buoni auspici paterni, tra i comodi guanciali della Guardia Nazionale – reclamare il suo diritto a torturare (i “nemici combattenti”) ed a spiare senza controlli, nel nome della guerra al terrore, tutti i suoi concittadini. Basta ascoltare un qualunque discorso del vice-presidente (o vero-presidente) Dick Cheney, per capire quanto sfortunato sia di questi tempi – per parafrasare una celebre battuta del Galileo di Brecht – il più poderoso paese del pianeta (o l’ “indispensabile potenza”, come ebbe a definirlo l’ex segretario di Stato Madeleine Albright). Gli Stati uniti hanno oggi, più che mai, bisogno di eroi veri che, come Frank Wilkinson e Hugh Thompson “fanno la cosa giusta semplicemente perché è la cosa giusta da fare”. Ed è per questo che, oggi più che mai, vale la pena ricordarli.

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