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“Effetto Bradley”, ultima spiaggia di McCain

A questo punto, il candidato repubblicano può solo sperare che, il prossimo 4 novembre si ripeta quel che accadde nel 1982 in California…

di Massimo Cavallini

 

27 ottobre, 2008

In campagna elettorale, è cosa nota, le bugie raccontano molte più cose vere delle più immacolate verità. E l’ultima delle bugie di John McCain non può, in alcun modo, essere considerata un’eccezione. “Si dice – ha sostenuto due giorni fa il candidato repubblicano, parlando di fronte ad una piccola folla, in una cittadina della Pennsylvania – che Obama già abbia dato disposizione ai suoi collaboratori per una prima stesura del suo discorso inaugurale. Orbene, amici miei, è bene che il mio rivale tenga da conto quella bozza per consegnarla, dopo il 4 novembre, allo Smithsonian (il museo che, a Washington D.C., raccoglie i cimeli della storia patria n.d.r.). Il quale a sua volta provvederà ad esporlo accanto alla copia del Chicago Tribune che, il 3 novembre del 1948, annunciava la vittoria di Thomas Dewey su Harry Truman…”.

Mentiva John McCain. O meglio: andava, come si dice, inventandosi cose di sana pianta, visto che nulla (ivi compresa la più elementare logica formale) induce a credere che gli uomini di Obama – in queste ore impegnati soprattutto ad evitare le trappole del trionfalismo – già abbiano cominciato a pensare ad un discorso che dovrà essere pronunciato il prossimo 20 di gennaio. E, proprio per questo, nel teatrino della politica, le sue parole hanno finito per riflettere, con mendace ma inappuntabile obiettività, la realtà delle cose. Barack Obama ha oggi, nei sondaggi, un vantaggio che sembra non lasciar via di scampo al suo rivale. Se non quella, per l’appunto, di fantasticare una replica della sorprendente rimonta che, nel primo dopoguerra, regalò a Truman un secondo mandato ed al più diffuso quotidiano di Chicago una brutta figura passata alla storia.

Quando al voto non manca ormai che una settimana, dicono le cifre, Barack Obama sta conducendo la corsa con ampio margine (dai sette agli 11 punti, secondo i sondaggi). Ed ancor più incolmabile appare il suo vantaggio, se – com’è giusto, considerata la natura del sistema elettorale made in Usa – le previsioni di voto vengono scomposte per Stato. Ormai da una decina di giorni, i sondaggisti di Cnn, armati di mappe elettroniche e di giganteschi “touch screen” che muovono numeri e frontiere al semplice tocco d’un dito, vanno ripetendo quella che sembra essere diventata una consolidata verità. Consolidata e, per i repubblicani, non propriamente lusinghiera. Vincendo negli Stati dove oggi vanta una solida o, addirittura, inattaccabile maggioranza, Obama ha già nel suo carniere 277 voti elettorali, sette in più di quelli che gli servono per conquistare la Casa Bianca. Ergo: per vincere, John McCain deve trionfare in tutti i cosiddetti “toss-up States” – ovvero: in tutti i sette (o giù di lí) Stati che, nei sondaggi, rimangono all’interno dei margini d’errore –; e, quindi, strappare al rivale almeno una preda di grosse dimensioni, quasi sempre indicata nella Pennsylvania. Perché la Pennsylvania? Per tre motivi: perché lo stato di Pittsburgh e di Filadelfia vanta un numero di voti elettorali alto quanto basta, perché il vantaggio di Obama non è, da quelle parti, del tutto irrimontabile e, soprattutto, perché è proprio qui, nel pieno della “rust belt”, che, nel corso della campagna elettorale, il candidato democratico ha rivelato più chiaramente la precarietà dei suoi rapporti con i “blue collar” di razza bianca. O – per riprendere l’ultima e forse più disperata trovata di McCain e soci – con i molti “Joe the Plumber”, Joe l’idraulico, che tra una settimana andranno alle urne.

Ce la può fare, John McCain? La matematica parrebbe concedergli ben poco. E l’incoerente goffaggine con cui il candidato repubblicano continua a muoversi sul campo di battaglia sembra destinata a sottrargli anche molto di quel poco. Ma la matematica spesso non è, in campagna elettorale, che un’opinione. E, nel caso specifico, un’opinione contrapposta alla molto obiettiva realtà del colore della pelle del rivale di John McCain.

Tra il serio ed il faceto, un commentatore ha di recente sostenuto che, se un centesimo di dollaro venisse consegnato al Tesoro per ogni volta che, nel dibattito politico, viene nominato il “Bradley effect”, ogni problema di liquidità del sistema bancario – e, di conseguenza, la crisi finanziaria che minaccia il pianeta – potrebbe essere all’istante risolto. Che cos’è l’ “effetto Bradley”? La risposta è ormai stranota e, per l’appunto, si riallaccia al caso del sindaco nero di Los Angeles, Tom Bradley, battuto da George Deukmejian nella corsa per la poltrona di governatore della California (correva l’anno 1982) nonostante i sondaggi gli attribuissero un netto vantaggio. Il tutto a dimostrazione del fatto che, per l’antico retaggio del razzismo, molti bianchi ribaltano nel segreto dell’urna, in presenza d’un candidato nero, le scelte elettorali palesate nelle inchieste.

Può ripetersi la storia? Molti pensano di sì e, nel pensarlo, vanno rielencando i molti casi di candidati neri (perdenti o vincitori) prima esaltati dai sondaggi e, poi, puniti nell’urna. Harold Washington nella corsa per il posto di sindaco di Chicago nel 1983 (vinse per un punto contro i 15 punti pronosticati), Douglas Wilder nel 1989 (corsa per il governatorato della Virginia, 12 punti di vantaggio nei sondaggi, 0,5 nelle urne), David Dinkins, in quel medesimo 1989 (corsa per il sindaco di New Yor City, 13 punti nei sondaggi, due nelle urne), Harold Ford nel 2006 (corsa per la poltrona di senatore del Tennessee, 5 punti di vantaggio nei sondaggi, sconfitto per 6 punti nelle urne). Ed il professor Daniel J. Hopkins, dell’università di Harvard, è addirittura arrivato a quantificare in percentuale – ci si passi la ripetizione – gli effetti dell’effetto: il tre per cento, fatta la media tra tutte le elezioni con candidati neri tra il 1996 ed il 2006. Il che, oggi, spinge alcuni politologi a definire “fragile” ogni vantaggio che non collochi Obama ben al di sopra del 50 per cento. Il candidato democratico vanta oggi, a seconda dei sondaggi, tra il 48 ed il 53 per cento delle preferenze: troppo poco in una situazione che, volendo credere alla vigenza del “Bradley effect”, vedrà muoversi verso le sponde repubblicane gran parte degli indecisi.

Giusto? Sbagliato? Solo il 5 di novembre si saprà quanto forte resti, in America, l’eco di questa tutt’altro che remota rimembranza. Ma, nel frattempo, il presente già dice – e con tutta obiettività – alcune cose. La prima delle quali è sicuramente questa: dovesse McCain – cosa improbabile, ma non impossibile – arrivare alla Casa Bianca, ci arriverebbe in quasi surreale solitudine, sospinto più dalla deriva del passato e dai suoi detriti che dal vento del futuro. Perché la realtà delle cose – gli otto anni di George W. Bush, le sue guerre infinite e l’epocale crisi economica che va presentando i conti della deregulation reaganiana – ha già toccato il partito repubblicano. E lo ha distrutto. O meglio: lo ha diviso in molte parti, nessuna della quali, oggi, si riconosce nel suo candidato.

Due giorni fa, in un editoriale aperto pubblicato dal Washington Post, David Frum – l’ex “speechwriter” di Goerge W. Bush al quale si attribuisce l’invenzione dell’espressione “asse del male” – è stato brutalmente esplicito. Ormai – ha scritto in sostanza – John Mccain ha perso. Ed ha perso grazie ad una campagna al tempo stesso aggressiva e balbettante, ricca d’insulti, ma povera di idee. Sicché a questo punto altro non resta che salvare il salvabile. Ovvero: dirottare i fondi del partito dalla corsa per la Casa Bianca a quella per quei seggi congressuali che, ancora, possono impedire un totale collasso del movimento conservatore. E forse proprio questo è il vero paradosso di quest’ultima settimana pre-elettorale: il capitano del Titanic (la campagna elettorale repubblicana) può ancora, forse, arrivare in porto. Ma il transatlantico è già affondato. John McCain può sperare di rimontare il suo avversario come Truman. E come Truman dovrà in effetti, suo malgrado, governare. Vinca Obama (come è più che probabile) o vinca McCain (come’è più che improbabile), il nuovo presidente americano dovrà comunque nuotare nelle acque di un nuovo New Deal. O affonderà con tutta la nave.

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