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E Sarah prese il fucile

Con il suo osannato intervento alla Convention, Sarah Palin suggella la definitiva resa del “maverick” John McCain di fronte allo “zoccolo duro” del Partito Repubblicano – L’America profonda, fondamentalista e intollerante, annuncia, tramite la governatrice dell’Aalaska, l’inizio della sua marcia contro la capitale “liberal” e corrotta. Dove proprio loro hanno, con l’ormai quasi-invisibile George Bush, governato negli ultimi otto anni. Funzionerà?

 

13 agosto 2008

di Massimo Cavallini

John Sidney McCain III ha accettato stamane – con “gratitudine ed umiltà”, come vuole il cerimoniale – la nomina a candidato presidenziale repubblicano. O meglio: ha firmato – lui l’eroe senza macchia e senza paura che, come vuole il più ripetuto tra i ritornelli di questa Convention, “ha fatto fronte ai suoi torturatori vietnamiti” – una sorta di “trionfale” resa incondizionata con lo “zoccolo duro” del partito che rappresenta. Chi scrive queste brevi note, non ha ovviamente avuto – per ineludibili ragioni di fuso orario – la possibilità d’ascoltare il discorso con il quale McCain ha chiuso la grande assemblea di St. Paul. Ma può tranquillamente affermare – senza rischiare brutte figure – che tutto ciò che il senatore dell’Arizona ha detto, è stato, in effetti, irrilevante, una semplice coda protocollare (da protocollare entusiasmo prevedibilmente accolta) di qualcosa che già s’era completamente consumato nei giorni precedenti. Come in un armistizio, per l’appunto. Un armistizio che sancisce la fine d’una guerra che, nei fatti, già è stata vinta, o perduta.

Nel caso di John McCain (e della Convention appena conclusa), naturalmente, le cose sono un po’ più complesse che in un tradizionale conflitto bellico. Perché qui tutti, a cominciare dal candidato, hanno in realtà vinto e, al tempo stesso, perso qualcosa. McCain, infatti, ha certamente vinto la nomination che aveva inutilmente inseguito nell’anno 2000. Ma ha anche, per così dire, perduto se stesso. Più in concreto: ha consegnato se stesso, la propria immagine, la propria storia personale, la propria fama di “maverick”, di animale politico libero dalle catene di qualsivoglia ortodossia di partito, a quelli che, in tempi migliori (o peggiori, dipende dai punti di vista) aveva definito “agenti d’intolleranza”. La parola “maverick”, ovviamente, resta scritta a caratteri cubitali sulle bandiere che McCain s’appresta a sventolare nel corso della battaglia presidenziale. E la sua storia di prigioniero di guerra nell’Hanoi Hilton continuerà ad essere l’assordante (e, a questo punto, piuttosto noiosa) colonna sonora della sua marcia. Ma l’una e l’altra cosa appaiono, ormai, come un classico bottino di guerra nelle mani degli ex-nemici, il prezzo della sua sconfitta e, insieme, della sua vittoria. Il McCain che levava la sua voce contro il fondamentalismo religioso, contro le brutture delle campagne negative (di cui era stato, nel 2000, una delle più illustri vittime) e contro lo strapotere delle lobby, semplicemente, non esiste più. Forse non è mai esistito. E, se è esistito, vuole oggi, con ogni mezzo, far dimenticare se stesso. O trasformare se stesso nella caricatura di quel che fu.

Il discorso di chiusura di John McCain è stato irrilevante perché, di fatto, la Convention repubblicana già s’era chiusa la sera prima con l’attesissima apparizione, sul monumentale palco della Convention,di Sarah Palin, la giovane e pimpante governatrice dell’Alaska, sorprendentemente (ma non troppo) prescelta per la posizione di vicepresidente. I proverbiali fiumi d’inchiostro erano corsi, prima del suo intervento, per analizzare il senso e la saggezza di quella nomina. Molti avevano parlato di “azzardo”, sottolineando come quella scelta gettasse un’indelebile ombra sul quell’elogio dell’esperienza che era fin lì stato il cardine della campagna anti-Obama di McCain. E, a conferma di questi dubbi, era giunta quasi subito la notizia che Bristol, la figlia 17enne di Sarah – la quale è, manco a dirlo,una fiera nemica d’ogni forma di rapporto sessuale prematrimoniale, d’ogni sorta di educazione sessuale e, Dio ci guardi, d’ogni tecnica anticoncezionale – era incinta di cinque mesi. Quante altre “novità” si celavano dietro quella semisconosciuta governatrice, già sindaco di Wassila, una cittadina con meno di 8.000 abitanti? Quanti altri scheletri sarebbero usciti dal suo armadio?

Con il suo attesissimo intervento di mercoledì notte, riemersa uno stato d’isolamento assoluto trascorso in compagnia di tutti i più grandi forgiatori d’immagine del partito repubblicano, Sarah Palin ha risposto in maniera più che soddisfacente a tutti questi quesiti. O meglio: ha fatto senza equivoci capire come tutti quei quesiti avessero lo stesso peso del prossimo discorso di McCain. Ovvero: nessuno. Le voci e le rivelazioni, presumibilmente, continueranno. Il suo record politico continuerà ad essere esaminato. Forse, altri scheletri verranno alla luce e, di certo, alla luce (quella accecante dei riflettori di campagna) sono destinati a restare la povera Bristol ed il suo promesso sposo Levi, che ieri (a riprova di quel che mamma Sarah intendesse quando chiedeva ai media di rispettare la loro “privacy”) hanno dovuto ascoltare, mano nella mano, ben in vista tra la folla di St. Paul, l’intera esibizione dell’aspirante vicepresidente. Ma, parlando di fronte ad un’adorante platea, Sarah Palin ha subito reso chiaro – con un discorso che, per la sua eloquente aggressività, ha chiaramente illustrato le ragioni per le quali, in Alaska, la chiamano “barracuda” – quale, al di là dei pettegolezzi, fosse il vero senso della sua nomina.

Lei, Sarah Palin, era lì per rappresentare i valori della “America profonda” . Quegli stessi valori che il candidato democratico Obama ha irriso e vilipeso nel corso della sua campagna. I valori di chi, alla periferia del potere, “is clinging to his gun and his religion”, resta aggrappato al suo fucile ed alla sua religione. La frase era studiatamente ripresa da un discorso tenuto a febbraio da Obama in quel di San Francisco (capitale dell’America più peccaminosamente liberal) ed a suo tempo ampiamente sfruttata da Hillary per dimostrare l‘ “elitism”, la natura elitaria dell’ondata obamista. Scopo della citazione era non tanto quello di fare appello alle elettrici orfane della Clinton (la quale, a dispetto d’ogni miracolo, continua ad essere, per la platea del Xel Energy Center, una creatura del demonio) quanto quello di ravvivare lo spirito “antiestablishment” che – con discutibile logica, ma con molta forza – anima la convention. Il discorso di Sarah Palin è stato, nella sostanza, una riedizione, in chiave ultraconservatrice, del famoso “Mr. Smith goes to Washington” di Frank Capra, la riproposizione della metafora dell’uomo – in questo caso della donna – della strada che affronta a viso aperta la capitale politica e le sue élite “liberal” (le élite sono, per i repubblicani, sempre liberal) per riaffermare, non i valori della democrazia e gli interessi del cittadino qualunque come nel film, ma i valori della “vera America”. Dio Patria e Famiglia (famiglia, ovviamente, eterosessuale). Più armi e meno tasse, niente aborto. Un’America implacabile con i suoi nemici. Un’America che non si lascia intenerire dalle campagne antitortura. Un’America che non ha paura di cominciare una guerra e che una guerra finisce solo quando l’ha vinta. L’America dello “zoccolo duro” repubblicano, per l’appunto. L’America degli “agenti d’intolleranza” contro la quale, tempo fa, tuonava un membro dell’elite washintoniana di nome John McCain…

Lo stesso John McCain che ieri, in cerca della vittoria, ha firmato la sua resa. Funzionerà? Chi può dirlo. Per lanciare questo attacco finale – un attacco che vede la sua punta diamante in Sarah Palin, una sorta di Calamity Jane glaciale, non priva di fascino – la Convenzione repubblicana ha dovuto (con la complicità dell’uragano Gustav) “nascondere” il presidente in carica e con lui, la realtà degli otto anni consumati nel potere. Il che – come oggi sottolineava un editoriale del New York Times – significa che, correndo contro Washington, i repubblicani stanno, in effetti, correndo “contro se stessi”. Ineccepibile osservazione. Ma attenti: anche il New York Times e la logica formale sono notoriamente, per l’America di Sarah Palin (e di quel che resta di McCain), parte della élite liberal che avvelena il paese. Ed in politica, si sa, sono spesso proprio le più surreali menzogne quelle che portano alla vittoria…

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