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E Dick prese il fucile…

…impallinando per errore un compagno di caccia (78 anni di età, professione avvocato) – Come sempre quando il riso è l’unica alternativa alla disperazione, l’episodio ha fatto la felicità dei “comedians” – Era dal 1804 (quando Aaron Burr uccise in duello Alexander Hamilton) che un cittadino non veniva raggiunto da pallottole sparate da un vice-presidente – Sempre più stretto l’intreccio tra caccia e politica

4 giugno 2006

 

di Gabriella Saba

 

“Strong and powerfull”, forte e potente. Così George W. Bush ha infine definito la “spiegazione degli eventi” che il suo vice – o, come non pochi sostengono, il suo primo ispiratore, o il più duro tra i duri del suo governo – ha infine presentato nel corso di un’assai addomesticata intervista con Brit Hume di Fox News (la più solidamente conservatrice delle reti televisive americane). Ma la realtà è che, in questi giorni, in America, l’unica cosa davvero forte e potente è stata la collettiva risata che, prima dell’apparizione di Cheney sui piccoli schermi, aveva fatto seguito agli “eventi” in questione. I quali sono riassumibili in questo modo. Venerdì scorso, nel corso d’una battuta alla quaglia organizzata in un ranch del Texas, Dick Cheney ha accidentalmente ferito – colpendolo alla faccia ed al petto – ad uno dei suoi compagni di caccia, il 78enne Henry Whittington, un avvocato repubblicano (questi i dettagli di cronaca). Ed ha poi – come un editoriale del New York Times ha fatto puntualmente notare – cercato di nascondere la cosa con la medesima protervia (ma senza l’ingenuità) che, di norma, spinge “un teen-ager a tacere sperando che il padre non s’accorga dell’ammaccatura sulla porta dell’auto”. Per tutti i “comedians” televisivi (e non) s’è trattato d’una manna tanto insperata e generosa che, nel riferire il fatto, Jon Stewart – il conduttore del popolarissimo Daily Show, dedicato alle “false notizie” – non ha esitato a simulare un orgasmo in diretta…

 

Le battute si sono sprecate. Ed a noi non resta che segnalare ai nostri lettori una collezione delle vignette pubblicate in questi giorni dai giornali Usa , nonché un riassunto, compilato dal Wall Street Journal, delle migliori gags sul tema. La nostra preferita: quella con la quale Rob Corddry – da Jon Stewart presentato come “analista specializzato in incidenti con armi da fuoco causati da vicepresidenti” – ha dato conto delle reazioni del medesimo Cheney. Il quale– sul filo dei ben noti precedenti iracheni – ha ovviamente ribadito (via Corddry) come sparare in faccia al povero Whittington fosse, patriotticamente parlando, non solo la cosa più giusta, ma l’unica cosa da fare. Perché – a sostenuto Corddry citando il vicepresidente – “tutte le fonti di intelligenza” indicavano, al momento dei fatti, come tra i cespugli ci fosse, non un avvocato settantottenne, ma una quaglia. E, soprattutto perché, in questo contesto, non sparare avrebbe dato alle quaglie “il segnale che l’America è debole”. Un peccato, quest’ultimo, che soltanto coloro che sono rimasti prigionieri d’una “mentalità pre-11 settembre”, avrebbero potuto commettere…

 

Nella sua “vera” reazione televisiva – quella, menzionata sopra, consumatasi quattro giorni dopo gli eventi di fronte ai giornalisti amici del canale di Rupert Murdoch – Dick Cheney non ha fatto, in fondo, che aggiungere qualche nuovo dettaglio comico alle false versioni suggerite dai comedians. Specie quando ha, contro il suo pensiero e contro la sua natura, cercato di mostrarsi contrito (pur non rinunciando del tutto a sottolineare, come avevano fatto in precedenza i suoi portaborse, le gravi responsabilità della vittima). E, ancor più, laddove ha spiegato come il ritardo nel riferire la notizia – ritardo che, potesse ritornare indietro, senza esitazioni replicherebbe – altro non fosse dovuto che al desiderio di garantire la “accuratezza” della medesima.

 

Ma al di là del lato comico d’una vicenda comunque giunta ad un passo dalla tragedia, la sparatoria che ha visto Dick Cheney come indiscusso protagonista si presta ad almeno tre considerazioni storico-politiche di grande rilevanza. La prima (prontamente sottolineata, anch’essa, da molti “entertainers”): non accadeva dal 1804 – vale a dire, da quando Aaron Burr uccise in duello Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti d’America – che un cittadino americano venisse raggiunto da colpi da arma da fuoco sparati dal vicepresidente della Nazione. E nessuno meglio di Dick Cheney – tiratore non propriamente provetto, ma grande appassionato di armi esistenti, come il fucile Perazzi Brescia da lui imbracciato al momento dell’incidente, o inesistenti, come quelle di “distruzione di massa” possedute da Saddam Hussein – poteva in verità rinverdire un episodio malauguratamente mai trasformatosi in tradizione. La seconda (fatta presto notare da tutta la stampa “seria”): come molti altri casi precedenti – il Watergate nixoniano su tutti – il “cover up”, ovvero il tentativo di coprire il crimine (o, in questo caso, l’incidente), ha finito per diventare il vero cuore del problema, trasformando un imbarazzante scivolone in un caso politico che, in questi giorni, ha spinto qualcuno (e non solo a sinistra) a reclamare le dimissioni del vicepresidente (improbabilissima evenienza, anche se Dick Cheney, ovviamente, esce dalla vicenda assai malconcio).

 

Terza e fondamentale considerazione. L’incidente ribadisce l’importanza che la caccia – simbolo di mascolinità nazionale – ha assunto (o mantenuto) nella politica americana. Come anche queste pagine avevano sottolineato durante l’ultima corsa alla Casa Bianca (vedi l’articolo “Macho, mezzo macho e quacquaracquà”), ogni candidato ha l’obbligo di mostrare incontenibili passioni venatorie, si tratti di cacciare bisonti – come nel caso celebre di Theodore Roosevelt – o di sparare a quaglie private della coda per trasformarsi in più facili bersagli (come nel caso di Cheney). Se correttamente testimoniata – ossia se praticata come prova del fatto che il candidato sinceramente ama l’odore della polvere da sparo e non ha paura d’uccidere – questa passione può persino aiutare a superare l’handicap d’un passato di non primissima grandezza in termini di patriottico eroismo (come nei caso del medesimo Cheney, che chiese l’esenzione dalla leva per il Vietnam perché aveva, a quei tempi, “altre priorità”).

 

Alla passione per la caccia (sempre a quaglie private della coda) era del resto legata anche una delle ultime controversie che ha avuto come protagonista il vice-presidente. Quella che, due anni or sono, sempre in Texas, lo vide impallinare una ventina di quei volatili senza speranza insieme ad Antonin Scalia, giudice super-conservatore della Corte Suprema, pochi giorni prima della sentenza che doveva decidere se fosse stata lecita la decisione di mantenere segrete le moltissime riunioni che, nel 2001, il vicepresidente aveva intrattenuto con gli “executive” delle grandi corporazioni energetiche, prima della stesura d’un progetto di legge che, a quelle medesime corporazioni, distribuiva inusitati benefici. Scalia fortunatamente evitò il doloroso destino toccato cinque anni più tardi a Whittington. E pochi giorni dopo la Corte – in una sentenza definita “uno scandalo” da un editoriale del New York Times – dette ragione al vicepresidente

 

Ed alla caccia è legato anche uno dei più toccanti episodi narrati da George W. Bush nella sua autobiografia (“A Charge to Keep”, libro nel complesso decisamente illeggibile, ma a tratti capace di veri e propri lampi d’involontaria comicità). Correva l’anno 1994 e l’attuale presidente – che proprio in quel mentre si preparava alla battaglia per diventare governatore del Texas – andava scrutando la radura in cerca di quaglie allorché, per una svista, impallinò, non un avvocato come Cheney, ma un esemplare di pennuto appartenente ad una specie protetta. Affranto, ma non spaventato, in un eroico lampo di sincerità, George W. decise – dopo una breve consultazione con Karen Hughes, la sua addetta stampa – di pubblicamente confessare la sua colpa, affrontandone a pie’ fermo le conseguenze. Tornato ad Austin, Bush convocò immediatamente una conferenza stampa. Ed anche lui – come Cheney, ma con maggiore anticipo rispetto a Cheney, non per niente è lui il presidente – rivelò con parole forti e potenti i fatti accaduti. Un mese dopo, quel coraggioso giovane vinceva la corsa contro Ann Richards, governatore uscente. Sei anni più tardi – e ancora una volta grazie alla Corte Suprema – diventava presidente pur avendo preso meno voti del suo rivale. E nel 2003, da presidente non eletto, avrebbe regalato al mondo una guerra – quella in Iraq – che, lanciata su false premesse, ancora sta durando. La caccia, se dio vuole, continua. Buona caccia a tutti…

 

 

 

 

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