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Monday, November 18, 2024
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Che, il mito che non muore

La mattina dell’8 di ottobre di mezzo secolo fa, Ernesto Guevara de la Serna, meglio noto come “el Che” venne ferito e catturato in quel della Quebrada del Churo, nella provincia di Santa Cruz, al termine d’una breve ed impari scaramuccia tra ciò che restava del suo gruppo guerrigliero (in tutto poco più d’una decina di uomini in fuga, affamati e macilenti) ed un reparto “antinsurgente” dell’esercito boliviano addestrato e guidato da agenti della Cia. Trasportato nel più vicino centro abitato, la Higuera, il Che venne rinchiuso in un’aula della locale “escuelita rural”. E qui venne assassinato a freddo il giorno dopo – esattamente alle 13,30 del 9 ottobre – in una molto grossolana simulazione di “morte in combattimento”.

Si dice – in uno dei tanti “si dice” mai definitivamente accertati di questa storia – che il Che, colpito alla gamba sinistra ed incapace di muoversi, con queste parole avesse ricevuto i rangers boliviani che gli si facevano incontro: “Non sparate. Sono Che Guevara, valgo molto più da vivo che da morto”. E fu di certo questo – se davvero questo fu quel che disse – l’ultimo dei suoi molti errori di valutazione. Si sbagliava “el Che”. Si sbagliava nell’immediato perché, a dispetto di quelle sue parole, venne ammazzato come un cane poche ore dopo, per diretto ordine del presidente boliviano, il generale golpista René Barrientos (se su suggerimento o contro i consigli della Cia è questione che continua a dividere gli storici). E si sbagliava, soprattutto, in prospettiva. Perché proprio la morte, la morte del martirio, ha finito, non solo per moltiplicare il suo valore – o le sue quotazioni azionarie, come amano provocatoriamente scrivere i suoi detrattori di destra e di sinistra – ma per “eternizzarlo” nella realtà d’un mito tanto contraddittorio quanto infrangibile.

Da vivo, il Che – il Che smunto ed estenuato che nella Quebrada del Churo aveva infine incontrato il suo destino –  non era, infatti, che un uomo sconfitto. Preparata con un’improvvisazione inspiegabile – o spiegabile soltanto, come molti credono, con un implicito desiderio di morte; o ancora, come sostiene Jon Lee Anderson nella sua monumentale biografia, con il fatto che quell’avventura era stata concepita come un “passaggio” in direzione dell’Argentina – la spedizione in Bolivia s’era rapidamente tradotta, consumati un paio di effimeri successi grazie al fattore sorpresa, in una disastrosa fuga senza via d’uscita. I contadini santacruzegni – l’acqua nella quale la guerriglia guevarista avrebbe dovuto muoversi come un pesce – avevano accolto con sospetto o, più spesso, con aperta ostilità una banda di combattenti che non avevano conoscenza alcuna del territorio e delle condizioni politico-sociali nelle quali andavano operando. Il punto cardine della loro proposta rivoluzionaria era, infatti, una riforma agraria della quale non v’era necessità alcuna, visto che proprio un’ancor vigente ridistribuzione della terra era quel che, prima del golpe del 1964, il governo democratico di Victor Paz Estensoro aveva lasciato in eredità alla gente di quelle campagne.

Il Che aveva perso in Bolivia (“quegli uomini – ha ammesso in una recente intervista il generale Gary Prado, il militare che aveva guidato la spedizione che lo catturò – non erano un pericolo per nessuno”). E prima della Bolivia aveva perso in Africa, dove già aveva cercato d’esportare, senza successo, l’esperienza guerrigliera cubana. Ma non solo. Prima del Congo e della Bolivia, Il Che aveva perduto anche a Cuba, dove – anche se, su questo punto, quello dei rapporti tra il Che e Fidel, esistono opinioni molto diverse e contrastanti – la rivoluzione castrista aveva imboccato una direzione filo-sovietica e burocratica nella quale sempre più faticava a riconoscersi. O che, quantomeno, considerava un’esperienza vittoriosa ma conclusa, bisognosa di nuove conferme in un mondo nel quale la rivoluzione socialista era ormai un imperativo assoluto.

Tutto questo venne, pressoché all’istante, cancellato dalla sua morte. Quello stesso 9 d’ottobre, il corpo del Che fu trasportato in elicottero a Villagrande, dove venne presentato come un classico trofeo di guerra al mondo: emaciato e seminudo, gli occhi ancora aperti, steso su una tavola di marmo della lavanderia dell’ospedale Nuestro Señor de Malta. E quell’immagine – da molti subito paragonata al famoso “Cristo morto” di Andrea Mantegna – immediatamente acquistò vita propria, molto al di là degli eventi che l’avevano generata. Così come vita propria, sull’onda delle emozioni suscitate dalla visione di quel “Che morto”, acquistò, nei giorni che seguirono, quella che è, nel tempo, diventata l’immagine per eccellenza del mito. Era (ed è), quell’immagine, un ingrandimento del volto del Che – il volto d’un santo e d’un guerriero – immortalato in uno sguardo d’una intensità fuori dal tempo. Ed era tratta da una istantanea che il fotografo Alberto Korda aveva scattato molti anni prima, il 4 marzo del 1960, nel porto dell’Avana, subito dopo l’esplosione della bomba made in USA che aveva distrutto, uccidendo decine di persone, il cargo belga “La Coubre” che trasportava armi destinate al nuovo esercito rivoluzionario. In questo mezzo secolo quell’immagine – da molti considerata, in assoluto, la più riprodotta ed esposta della storia dell’uomo – è finita ovunque. Sulle bandiere di tutti coloro che – dai più diversi punti di vista – aspirano a cambiare il mondo. Su portachiavi, magneti da frigorifero, distintivi, souvenir e ninnoli d’ogni tipo. Piattini di ceramica, mouse-pad e berretti. Su un numero di t-shirt probabilmente più alto di quello che definisce la quantità di esseri umani che abitano il pianeta Terra. È atterrata in forma di tatuaggio, quella stessa foto, sul pingue bicipite di Diego Armando Maradona e sugli addominali di Mike Tyson. Ed ha illuminato, in ogni parte del pianeta, tanto le speranze d’un mondo migliore, quanto le etichette delle più svariate merci, prodotti intenti a massimizzare vendite e profitti esaltando le proprie “rivoluzionarie” qualità. Birre, gelati, pistole, superalcolici, persino una marca di bikini. Da ultima nientemeno che la Mercedes, con tanto di stella a tre punte a sostituire, sul mitico basco del “guerrillero heroico”, la tradizionale stella rossa….

La storia del mito del Che – molto ben raccontata, in questa chiave, nel libro “Che’s Afterlife” di Michael Casey, uscito nel 2009 – è in parte non piccola, paradossalmente, proprio la storia di quest’immagine, onnipresente ed ormai innocua, perduta tra grida di ribellione e campagne di marketing. Una storia che, grazie alle leggi del mercato dal Che tanto disprezzate, tende a riprodurre se stessa all’infinito. Racconta infatti Casey come, fino al 2001, quella foto non fosse stata, in omaggio ai propri natali rivoluzionari, coperta da alcuna forma di copyright. E come proprio in quell’anno, scandalizzato dall’uso fattone dalla fabbrica di vodka Smirnoff, Korda (che sarebbe morto un anno più tardi) avesse deciso di reagire rivendicando, infine, la proprietà dell’opera sua. Una battaglia, questa, che ancor oggi i suoi eredi vanno alacremente continuando con effetti, tuttavia, in aperta contraddizione con le originali intenzioni dell’autore. In sostanza: per affrontare le spese che comporta la difesa legale del “marchio Che” dai sempre più numerosi assalti di imprese grandi e piccole, i Korda si vedono costretti a concederne l’uso ad altre grandi e piccole imprese. Il Che – se davvero a lui appartiene il corpo che, nel 1997, è stato dissepolto in quel di Vallegrande e mandato a Cuba – si sta probabilmente rivoltando, da molti anni, nel profondo del mausoleo di Santa Clara…

Ma che cosa davvero resta del Che, oggi, mezzo secolo dopo la sua morte? Che cosa si salva, in questa babele di ossificati slogan rivoluzionari e di sfrenato mercantilismo? Che cosa si può riscattare, oltre la retorica stantia del “hasta la vittoria, siempre” che, implacabile e patetica, continua a risuonare come un ritornello nel lessico d’una sinistra prigioniera dei propri miti? Quali valori – valori vivi, davvero “di sinistra” – si possono recuperare oltre la mercificazione dell’immagine? La risposta è, probabilmente, tutto e nulla.

Nulla, perché in realtà nulla – o ben poco – resta di salvabile in quello che fu il “guevarismo”. Il Che Guevara pensatore politico (o, ancor meno, economico) non solo non esiste più, ma, a ben vedere, mai è esistito. Le sue esperienze come direttore della Banca Centrale di Cuba, come primo responsabile della riforma agraria e come ministro dell’Industria, furono totali fallimenti la cui eredità è riassunta nella molto volontaristica teoria – mai applicata perché inapplicabile, un mito sovrapposto ad un altro mito – del “hombre nuevo”. Nulla, soprattutto, perché il guevarismo – ed in particolare la sua teoria dei “fuochi rivoluzionari,” o “foquismo” – è figlio di un’epoca diversa ed irripetibile. Più precisamente: perché è figlio d’un errore strategico che, consumatosi, tra gli anni ’60 e ’70, in una stagione diversa ed irripetibile, già è stato pagato con lacrime e sangue.

Ernesto Che Guevara fu, essenzialmente, un guerriero. E della guerra – una guerra destinata a liberare il mondo dall’ingiustizia, ma pur sempre una guerra – ha sempre accettato o, addirittura, amato anche i più tetri risvolti. L’odio, la violenza, la necessità di uccidere, non importa quanto brutalmente, più di quanto uccida il nemico. “L’odio come fattore di lotta – scrisse il Che nell’aprile 1967, poco prima di morire, nel suo molto celebrato messaggio alla Tricontinentale (quello del “uno, due, tre, molti Vietnam”) –; l’odio per il nemico, l’odio che spinge l’uomo molto oltre le sue limitazioni naturali e lo trasforma in una effettiva, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può trionfare su un nemico brutale….Al nemico occorre togliere ogni istante di tranquillità e di pace, fuori dalle sue caserme e persino nella sua vita intima…attaccarlo dovunque si trovi, far sì che si senta come una belva intrappolata…”.

Il Che amò la guerra. Ed ancor più profondamente e senza ambiguità amò quella che, della guerra, è la vera radice: la morte. La sua morte (non pochi sono gli analisti convinti che proprio la ricerca del martirio sia stato il vero motore della sua ultima disastrosa avventura boliviana) e la morte degli altri. La morte delle molte decine di persone che fece fucilare, quando, a rivoluzione vittoriosa, diresse la commissione d’epurazione nella prigione di Las Cabañas. La morte dei suoi stessi compagni d’armi. Impressionante è, nei suoi diari della Sierra Maestra, il gelido compiacimento col quale narra l’esecuzione di Eutimio Guerra, un guerrigliero sospettato di tradimento. “…alla fine il problema (il problema era capire se quel guerrigliero fosse o meno colpevole n.d.r.) venne da me risolto con un unico di pistola calibro .32 alla tempia…”. Vale ovviamente la pena ricordare come, alla base dell’odio del Che – e della sua convinzione che senza violenza non potesse esserci giustizia – vi fosse in realtà un’altra e ben più radicata, antica violenza: quella del potere oligarchico ed imperiale che ha scritto gran parte della storia latinoamericana. Veri9ssimo. Ma vero è anche che la “violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere” auspicata dal Che per rispondere a quel “nemico brutale” non ha, a conti fatti, che intrappolato che se stessa. O meglio: ha finito per diventare, semplicemente, una funzione moltiplicatrice della brutalità nemica.

La storia del “foquismo” insegna. In Cile – nel Cile di Allende, della Unidad Popular e della “via parlamentare al socialismo” – le azioni del Mir (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) hanno accelerato i tempi del bombardamento della Moneda e dell’avvento di Pinochet. In Uruguay la “propaganda armata” dei Tupamaros (dettaglio curioso: in questo caso contro i consigli del Che) hanno tagliato le gambe a quella che era considerata, pur con tutti i suoi limiti e le sue ingiustizie, la più solida democrazia latinoamericana. Ed in Argentina il contrapposto terrorismo dei Montoneros e della “Alianza Anticomunista Argentina” (la famigerata “Triple A”) – frutti avvelenati, entrambi, del comune albero peronista – rapidamente distrusse le speranze create, dopo anni di dittatura militare, dal ritorno dall’esilio di Juan Domingo Perón. E non si trattò, in tutti e tre i casi, soltanto dell’ “oggettivo” prodotto di scelte politiche sbagliate. La distruzione della “maschera democratica” e l’avvento d’un regime autoritario e violento non era in realtà, per Mir, Tupamaros e Montoneros che l’indispensabile premessa d’una insurrezione popolare vittoriosa…La maschera cadde. Arrivarono infine, uno dopo l’altro – sotto l’amorosa regia del Dipartimento di Stato Usa, allora diretto da Henry Kissinger – gli auspicati regimi autoritari e violenti. Macchine per uccidere molto più potenti, fredde, selettive ed effettive di quelle preconizzate dal Che. E Vinse l’odio. Non quello che “spinge l’essere umano oltre i suoi limiti naturali”, ma quello che distrugge ogni forma di umanità.

E proprio da qui, da questo storico fallimento del guevarismo, bisogna probabilmente ripartire per riscoprire il “tutto” che ancor oggi, a cinquant’anni dalla sua morte, il Che continua a rappresentare. La convinzione che il mondo può essere cambiato. La volontà di cambiarlo. La coerenza – una virtù, questa che neppure i più feroci detrattori negano al Che – necessaria per cambiarlo. La vigenza – oltre gli errori e gli orrori, oltre gli slogan più ammuffiti – di un’utopia di eguaglianza e di giustizia senza la quale nessuna sinistra può davvero esistere. Il guevarismo è morto. Lunga vita al Che Guevara.

 

 

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