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Bombe sull’Iran: la pace secondo Donald Trump

Ventiquattr’ore. Un giorno e una notte. E probabilmente neppure una notte insonne, considerato che, parole sue, l’impresa sarebbe stata, per uno come lui, “very easy”, facile come bere il proverbiale bicchier d’acqua. Questo – un giro completo di lancette – era il tempo che, nel corso della sua ultima campagna elettorale, Donald J. Trump aveva chiesto gli venisse concesso per por termine ad una guerra, quella in Ucraina, che peraltro – come l’ex e futuro presidente aveva di continuo orgogliosamente rammentato – “mai e poi mai sarebbe cominciata”, fosse rimasto lui alla presidenza. Quanto poi alla cronica crisi mediorientale ed al suo ultimo e sanguinoso capitolo – il conflitto, o meglio, la carneficina di Gaza – Trump non aveva definito una particolare scadenza ma, cambiati scenari e personaggi, aveva garantito un analogo copione. Tempi brevi, anzi brevissimi. Giusto quel che gli serviva per mettere, anzi, rimettere piede alla Casa Bianca, appendere il cappotto all’attaccapanni, sedersi alla scrivania (il famoso “resolute desk” ) dello Studio Ovale, alzare la cornetta del telefono per un paio di chiamate a chi di dovere, “et voilà”: la pace è servita. E, va da sé, non d’una pace qualunque si sarebbe trattato, ma della Pace, con p maiuscola, quella chiamata a salvare dalla distruzione un mondo immancabilmente destinato, assente Donald Trump, a scivolare verso l’abisso della Terza Guerra Mondiale.

Trump: “Solo io posso salvare il mondo dall’Apocalisse nucleare”

Trump era stato, in proposito, più che esplicito. Lui e soltanto lui poteva arrivare a tanto. Ed a sostengo di questa messianica tesi, sistematicamente aveva, come molti ricorderanno, chiamato in causa, nelle vesti di autorevole sponsor, lo stesso Padreterno, l’Onnipotente che con questi due specifici e correlati obiettivi lo aveva, prima messo al mondo – ci sono splendidi spot elettorali che questa storia hanno nei dettagli raccontato – e poi salvato la vita lo scorso 13 luglio ,in quel di Butler, Pennsylvania, quando la pallottola sparata da uno squilibrato gli aveva sfiorato l’orecchio sinistro. La prima: fare di nuovo grande l’America (“Make America Great Again”); e la seconda, per l’appunto, salvare il mondo dall’Apocalisse nucleare.

Questo aveva detto e ridetto Donald Trump. E questa, al momento di scrivere quest’articolo – quando già erano trascorse quasi 5.000 ore dal fatidico istante del ritorno, per volontà popolare, di Donald Trump al 1600 di Pennsylvania Avenue – era (è) la situazione sul terreno. Non solo non v’era (non v’è) traccia alcuna della pace – si tratti di quella “qualunque” o, ancor meno, di quella definitiva e redentrice da Trump annunciata -, ma alle due guerre in questione, Ucraina e Medioriente, entrambe ancora in corso e più che mai sanguinose, se ne era (se ne è) aggiunta una terza. Non ancora quella “Mondiale” che Trump – lui e soltanto lui – era chiamato ad evitare per divina volontà, ma di certo una guerra che, ora  con la diretta e molto guerreggiante partecipazione degli stessi Stati Uniti d’America, si va in queste ore dipanando, nell’apocalittica ombra del fungo atomico, verso sconosciuti, ma quasi certamente tragici traguardi

I fatti sono noti. Sabato notte, Donald Trump ha confermato in un pubblico messaggio televisivo , accompagnato dal vicepresidente J.D Vance, dal Segretario di Stato Marco Rubio e dal Segretario alla Difesa Pete Hegseth, quello che già aveva poco prima da par suo comunicato via TruthSocial, il social di sua proprietà. Ovvero: come, a sostegno di una campagna aerea iniziata giorni fa da Israele, bombardieri americani B-2 partiti da una base in Missouri avessero colpito e “completamente obliterato” con potentissimi ordigni “anti-bunker”, tre distinte ubicazioni che, “dedite all’arricchimento dell’uranio”, a Fordow, Natanz e Esfahan, garantivano la corsa dell’Iran verso l’ormai imminente costruzione di bombe atomiche. L’intervento americano s’era reso necessario, precisava il comunicato ufficiale, perché solo la forza aerea Usa è oggi in possesso di bombe in grado di penetrare e distruggere le “corazze” in cemento armato che, nella profondità del terreno, proteggevano gli impianti di arricchimento.

Conclusione: grazie all’operazione di cui sopra – per l’appunto, i bombardamenti Usa in appoggio a Israele – la materia del contendere (la corsa dell’Iran verso la bomba atomica) è, ormai, cosa del passato. Ed alla Repubblica Islamica dell’Iran non restano a questo punto che due strade. O una pace immediata con Israele – “NOW IT IS TIME FOR PEACE” recitava a tutte maiuscole il post trumpiano su TruthSocial – o andare incontro a punizioni (leggi: nuovi bombardamenti) ancor “più profondi e severi”. Insomma: arrendersi o morire. Nella speranza – Netamyahu è stato su questo punto abbastanza esplicito – che la morte arrivi nella forma d’un cambio di regime.

Una bomba che non c’è

La notizia degli attacchi contro Fordow, Natanz e Esfahan – indiscutibilmente il più importante e diretto atto di guerra degli Stati Uniti dai tempi delle invasioni dell’Afghanistan prima e dell’Irak poi  – è giunta al termine d’una serie di zig-zag diplomatico-militari, marcati, prima dall’apertura di negoziati diretti con l’Iran – negoziati che, a detta della stessa Amministrazione Trump, stavano “andando nella giusta direzione” – e quindi, da un ovviamente contradditorio, ma molto comprensivo atteggiamento nei confronti della campagna aerea da Israele iniziata, a dispetto dei negoziati in corso, contro quelle che dei negoziati erano l’argomento. Vale a dire: le installazioni nucleari iraniane (installazioni che, stando a quanto dichiarato di fronte al Congresso da Tulsi Gabbard, da Trump nominata director fo National Intelligence, ancora erano molto lontane dalla pratica possibilità di costruire atomiche).

Quelle bombe (le bombe israeliane) potevano e dovevano essere – questa la tesi momentaneamente sostenuta da Trump – uno stimolo perché l’Iran tornasse al tavolo delle trattative (tavolo che, peraltro, non risultava avesse, prima dei bombardamenti mai abbandonato). Questi ambigui, ma comunque ancora diplomatici intenti, erano stati però seguiti, appena ventiquattr’ore più tardi, da un una molto perentoria e militaresca richiesta di “resa incondizionata” rivolta al regime di Teheran. Richiesta, questa, che, in un accavallarsi di contraddizioni, aveva a sua volta – a strettissimo giro di posta – fatto da preludio ad una molto più interlocutoria dichiarazione. In un ultimo derapage, Trump aveva infatti informato il mondo d’aver concesso a se stesso una pausa di riflessione. Ed aveva annunciato che una decisione in merito alla partecipazione Usa alla campagna anti-Iran avviata da Israele sarebbe stata presa solo nel giro di un paio di settimane. Appena una dozzina d’ore dopo, i bombardieri B-2 decollavano dalla loro base in Missouri, per andare a bombardare l’Iran.

Il senso ultimo di questo andar per montagne russe? Difficile, allo stato delle cose trovarne uno. Di certo, tra i molto possibili esiti di questo divagare tra pace e guerra – un divagare che, tra traballanti ipotesi di negoziati ed illusori ritorni alle ambizioni del “regime change”, ha avuto come ultimo approdo la guerra – il meno probabile appare di gran lunga quello che Donald Trump, l’inviato to da Dio per salvare il mondo dall’incombente Terza Guerra Mondiale, aveva dichiarato di poter raggiungere nel giro d’una (al massimo due) molto rilassate (“very easy”) giornate di lavoro.

Tutto, al contrario, sembra – mutatis mutandis – riportarci ai giorni che, all’alba del nuovo millennio, sull’onda degli attentati dell’11 settembre 2001, anticiparono la seconda Guerra del Golfo. Ovvero: ad un’altra “totale obliterazione”, quella del “regime-canaglia” di Saddam Hussein, preparata, nel marzo del 2003, da una prolungata campagna “shock and awe” di bombardamenti, poi conclusa da una “trionfale” invasione-lampo le cui conseguenze l’America ed il mondo (per non dire del medesimo Irak) ancor oggi stanno pagando. A ricordo della raggiante confusione di quei giorni – o della improvvida convinzione che fosse tempo di lanciare, parafrasando il titolo d’un famoso libro di H.G. Wells, una guerra che finisse tutte le guerre in Medioriente – restano le parole che, trasmesse ai posteri come una sorta di ridicola e profetica filastrocca, pronunciò l’allora Ministro della Difesa, Donald Rumsfeld, quando nel corso d’una conferenza stampa pre-invasione, gli chiesero quali fossero le incognite dell’ormai più che certo attacco.

Ci troviamo di fronte, disse allora Rumsfeld in un momento di piuttosto lapalissiana saggezza, ad alcuni “known knowns”, cose che sappiamo di sapere e ad altrettanti “known unknowns”, cose che sappiamo di non sapere. Resta però l’incognita, aggiunse, degli “unknown unknowns” le cose che non sappiamo di non sapere. E proprio questi sono i nodi più difficili da sciogliere.

Known known e unknown unknown

Come siano a date a finire, anzi, come ancora continuino le cose in Irak e in Afghanistan – i due capri espiatori del dopo 11 settembre – è da tempo cosa nota (“a known known”). Prevalsero, in quell’occasione, gli “unknown unknowns”, che poi risultarono essere non tanto “cose non conosciute perché non conoscibili nelle circostanze date”, quanto realtà volutamente ignorate nel nome di una fallimentare strategia bellica. Ed è per questo che l’immagine di George W. Bush che, vestito da pilota, il primo maggio del 2003 celebra la vittoria a bordo della portaerei Abraham Lincoln, sotto un enorme striscione con la scritta “mission accomplished”, missione compiuta, è stata ormai da tempo consegnata agli annali come uno dei più involontariamente e tristemente ridicoli momenti della storia patria.

Quali siano oggi, dopo il bombardamento di Fordow, Natanz e Esfahan, gli “unknown unknowns” non è – data la loro natura – ovviamente possibile sapere. Ma facile è immaginare che siano molti e molto infidi. Così come facile è vedere come molti ed altrettanto infidi siano gli “known unknowns”, i misteri visibili, ma tutti da sciogliere, da quali dipende il futuro più immediato ed in prospettiva.

Non si sa, in effetti, quale sarà la reazione dell’Iran (anche se estremamente improbabile appare l’ipotesi che, accogliendo l’invito di Trump, si apra a negoziati presentati come una resa senza condizioni). Non si sa quanto solide siano oggi le basi del regime islamico (anche se estremamente improbabile appare, a detta degli esperti, l’ipotesi d’una sua caduta). E neppure si sa, con apprezzabile approssimazione, quali e quanto definitivi siano, oltre le propagandistiche dichiarazioni delle due parti, i danni effettivamente inflitti ai progetti nucleari della Repubblica Islamica. Non si sa, anzi – come rivelato da Tulsi Gabbard, pronta poi a smentire sé stessa ed i propri analisti dopo i rimbrotti del Leader Supremo – neppure quanto reali ed avanzati fossero, in realtà, quei progetti. Quello che invece si sa – un “known known”, volutamente ignorato da Trump e dai suoi seguaci – è che, in materia di denuclearizzazione dell’Iran, il mondo è, grazie a Trump il “pacificatore”, tornato indietro di più d’un decennio. Quei programmi di costruzione della bomba, infatti, già erano stati, come tutti sanno, molto efficacemente congelati nel 2013 dal trattato, il “Joint Comprehensive Plan of Action”, poi stracciato da Trump, che l’Iran aveva, sotto l’egida dell’ONU, sottoscritto con gli USA di Obama, con l’Unione Europea, la Russia e la Cina.

Strategia? Quale strategia?

Il futuro si può, a questo punto, soltanto ipotizzare. E di certo non c’è oggi che questo (un “questo” nel quale non v’è alcunché di consolatorio): il pericolo più grande – o, volendo proseguire con la filastrocca di Rumsfeld, il più “known” e contemporaneamente il più ignorato tra gli “known knowns” – è, quello di gran lunga più alla vista. Se nel 2003 i neocon americani che dopo l’11 settembre del 2001 avevano egemonizzato la politica estera di George W. Bush, con il pretesto di inesistenti “armi di distruzione di massa”, marciavano contro l’Irak nel nome d’una nefasta, ma definita strategia di “regime change” e di predominio Usa nella regione e nel mondo, i bombardamenti  in Iran decisi da Trump in sintonia con Israele ed al culmine d’una contorta alternanza di bombe e negoziati, appare, al contrario, il prodotto d’una non-strategia, l’articolazione d’un cammino che, alimentato da due carburanti in apparente contraddizione tra loro, l’isolazionismo razzista-xenofobo dell’ “America first”  e le vecchie pulsioni militar-imperialiste dell’America reazionaria, con Donald Trump incomincia e con Donald Trump si conclude.

È naturalmente possibile (auspicabile?) che questi nodi vengano infine al pettine. Ed è possibile che, come alcuni tra gli osservatori più ottimisti pronosticano, l’Amministrazione Trump finisca per implodere sotto il peso delle proprie contraddizioni e della propria ostentata incompetenza, seppellita magari da una cosmica risata, come si diceva mezzo secolo fa, ai tempi belli della contestazione (che, notoriamente, finì senza implosione e senza risata). Ed è persino possibile – anche se per crederlo occorre una sovrumana dose di ottimismo – che, contrariamente al precedente neocon, questa non-strategia possa, a conti fatti, e proprio in virtù della sua ideologica inconsistenza, portare a qualcosa di buono in termini di pace.

Ma è un fatto che i destini del mondo sembrano oggi pericolosamente dipendere – oltre ogni limite di sicurezza e di decenza – dal narcisistico tornaconto di un uomo che, del mondo ben poco sembra capire. Anzi, che ben poco sembra voler capire.  E questo in una realtà che, ormai “normalizzata”, già ci ha regalato, in appena quattro mesi e un andirivieni degno del miglior teatro Vaudeville, la “più ridicola guerra commerciale della storia dell’umanità” (la definizione è dell’Editorial Board del Wall Street Journal), nonché altri inediti, tragicomici siparietti. Il cambio di nome del Golfo del Messico, le minacce d’invasione della Groenlandia, l’annessione del Canada come 51esimo Stato dell’Unione… Qualcuno ancora ricorda i surreali agguati tesi da Trump nello Studio Ovale, presenti i media, contro leader politici da lui per le più diverse, e spesso futili ragioni, non amati? Qualcuno ricorda gli insulti contro Volodymyr Zelensky, accusato d’esser, oltre che un mediocre comico ed un pessimo, impopolarissimo presidente – “a quando nuove elezioni”? – anche la causa della guerra in Ucraina e d’una possibile Terza Guerra Mondiale? E quelli contro il presidente del Sud Africa, Matamela Cyril Ramaphosa, posto con tanto di pannelli di fronte alla realtà – totalmente inventata, sfidando il ridicolo – di un “genocidio” ai danni della minoranza bianca sudafricana?

È in questa nuova normalità che il mondo sta pericolosamente vivendo da ormai quasi 5.000 ore, 4976 più di quelle che Trump aveva garantito essergli necessarie per raggiungere – senza sforzi, “very easy” – una pace totale, trumpianamente definitiva. E giusto questo ci dicono oggi le bombe che cadono sull’Iran. Che se nel 2003 – “a known known” – le cose finirono molto male (finirono, anzi, male al punto da non finire), questa volta _ “a known unknown” – potrebbero finire anche peggio.

Molto peggio.

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