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Saturday, June 14, 2025
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Addio Pepe, vecchio saggio d’una sinistra che non c’è

Si era posto un ultimo obiettivo, José Mujica Cordano, meglio noto come “El Pepe”, ex guerrigliero Tupamaro, ex prigioniero politico, ex presidente della “Republica Oriental del Uruguay e, ora, semplicemente “ex”: arrivare vivo, in barba al cancro all’esofago che da oltre un anno andava senza speranze combattendo, al prossimo 20 di maggio, giorno del suo 90esimo compleanno. Ma la morte – l’ombra scura, il tenebroso abisso che tante volte l’aveva sfiorato, accompagnato e chiamato nel corso di una vita lungo la quale, parole sue, “tutto è accaduto” – questa volta non ha voluto sentir ragioni. E se l’è portato via senza tante storie, come sempre accade e come lo stesso José Mujica – immancabilmente citando Seneca, il suo filosofo preferito – aveva ripetutamente e “stoicamente” previsto nel corso delle molte interviste che, negli ultimi mesi, hanno fatto da controcanto al suo lungo addio.

“Quando ti tocca ti tocca”, aveva detto solo una dozzina di settimane or sono ad una giornalista della BBC. E, dopo una lunga e meditata pausa, aveva puntualmente aggiunto: “La morte è il sale della vita. E tutto quello che adesso alla vita posso chiedere, ringraziandola per quello che m’ha dato, è di lasciarmi abbaiare ancora per un po’. Qualche altra parola al vento e poi ciao”. Ora il ciao è arrivato. E le cronache politiche ci raccontano come, prima di partire, El Pepa non abbia, in fondo, affatto abbaiato al vento. Il traguardo del 20 di maggio gli è per poco sfuggito, ma due mesi fa ha avuto la possibilità di vedere quello che, a torto o a ragione, molti definiscono il suo erede – Yamandú Orsi, candidato del Frente Amplio ed esponente della sua corrente politica, il Movimiento de Partecipación Popular – vincere in bellezza le elezioni presidenziali uruguayane.

El Pepe vive e lotta insieme a noi, verrebbe da dire riesumando slogan d’altri tempi. Slogan del passato. E forse proprio da qui, dal passato – o da quello che Mujica amava definire passato – vale la pena partire per provare a comprendere che cosa, al di là dei miti e dei luoghi comuni, davvero sia stato (o non sia stato) un personaggio che, come pochi altri, ha, negli ultimi anni, alimentato fantasie e cori d’ammirazione (molto più raramente di ripudio) a livello planetario. Chi è, dunque, José Mujica Cordano? E in che modo El Pepe giudicava  quella sua vita lunga e lungo la quale “tutto è accaduto”? Che cos’era per lui “il passato”?

Per Mujica il passato era una “mochila”, uno zaino, qualcosa – sono infinite le volte che ha ribadito questa filosofica metafora – che “ti porti sulle spalle dovunque vai”. Qualcosa che ti appartiene e di cui non ti puoi liberare. Qualcosa che conosci perché l’hai vissuto, ma che non vedi perché, per viver,e devi camminare. E quando cammini, “è in avanti che devi guardare”. Questo amava ripetere El Pepe distribuendo le perle d’umana saggezza (o le ritrite banalità, come sostengono i suoi non molti nemici) che in questi anni hanno, in tutto il mondo affascinato, non solo a sinistra, tutti coloro che, in un pianeta in pericolo, erano (e restano) in cerca di qualcosa di nuovo e di fresco. Qualcosa in cui credere.

Ora Mujica se ne è andato. Resta il suo zaino. Ed è tempo di dare, senza propositi di beatificazione o di condanna. un’occhiata al suo contenuto. Negli anni della sua presidenza – e ancor prima, in quelli della lotta armata, della dittatura militare e del ritorno alla vita democratica – tutti coloro che, ignorando il suggerimento del portatore, si sono presi la briga d’analizzare in dettaglio il contenuto della “mochila”, hanno poi inevitabilmente usato, per classificare El Pepe, molte e molto contraddittorie definizioni. Guerrigliero (con le ovvie e contrapposte appendici di “eroe”, o di “criminale”), volgare, semplice, trasandato, geniale, sobrio, sporco (i suoi avversari amavano chiamarlo “Mugrica”, da “mugre”, sporcizia) coerente, pericoloso, affidabile, ipocrita, lungimirante, banale, saggio. E proprio così – “un uomo saggio” – lo aveva senza riserve definito, nel 2014, al termine d’un incontro in Vaticano, un altro celeberrimo defunto di queste ultime ore: papa Francesco I. E questo nonostante la legge di depenalizzazione dell’aborto in quello stesso anno era stata approvata dal governo che Mujica allora presiedeva. Su un solo aggettivo tutti – tanto quelli che, soprattutto nell’Uruguay “per bene”, guardavano e guardano a lui come ad un deplorabile esempio di sciatteria plebea (o, peggio, come a un non redento delinquente), quanto quelli che, soprattutto fuori dall’Uruguay, lo ammiravano ed ammirano come un genuino figlio del popolo ed ultimo amico d’un pianeta maltrattato – sembrano, però concordare. E questo aggettivo – un aggettivo oggi difficilmente associabile a qualsivoglia dirigente politico, in qualsivoglia angolo del pianeta Terra – è “povero”.

Il “presidente più povero del mondo”

Non v’è dubbio alcuno: José Mujica Cordano deve la sua fama planetaria, alla sua povertà. E questo perché povero – povero nel più materiale senso della parola, ovvero perché in possesso poche cose – Mujica lo è stato sempre. Non solo da guerrigliero e prigioniero politico o da dirigente del Frente Amplio, ma anche da presidente della Nazione. Il suo patrimonio? Una piccola “chacra” (fattoria) nel Rincón del Cerro, alla periferia ovest di Montevideo, dove per anni ha coltivato crisantemi che poi vendeva al mercato. Una vecchia casa campestre con i muri anneriti dall’umidità dove, disdegnando la sontuosa residenza presidenziale di Suarez y Reyes, El Pepe aveva imperterrito continuato – ostentatamente continuato – a vivere con la moglie Lucía Topolansky (anch’essa ex guerrigliera diventata poi senatrice) e con la leggendaria Manuela, l’onnipresente cagnetta a tre zampe che lo seguiva ovunque piena d’amore, nonostante proprio ad un’avventata manovra del Pepe alla guida d’un trattore si dovesse la sua mutilazione. Altri possedimenti: un maggiolino (la Fusca, come la chiamano in Uruguay) Volkswagen color celeste del 1994 e, per l’appunto, un vecchio e sgangherato trattore. Totale imponibile: a occhio e croce, poco più di 100.000 euro. In qualità di presidente della nazione, Mujica aveva inoltre goduto d’un appannaggio mensile pari a circa 15.000 euro, il 90 per cento dei quali venivano – come più tardi il suo “stipendio” da senatore – da lui devoluti a favore d’un programma di edilizia popolare.

Come era venuto, il mondo, a conoscenza dell’esistenza di questo “presidente povero” – di questo esempio di repubblicana virtù, verrebbe da dire, pensando al suo amato Seneca – in uno dei più piccoli e politicamente meno frequentati paesi dell’America Latina? Fu, raccontano gli annali, grazie soprattutto a un discorso che – dal Pepe pronunciato nel luglio del 2013 durante la riunione del G20 che si tenne quell’anno a Rio de Janeiro venne da una valanga di utenti di YouTube pressoché d’acchito riprodotto e definito “il più bel discorso del mondo”, rapidamente diventando, non solo una sorta di manifesto per i verdi sostenitori dello “sviluppo sostenibile”, ma anche un poetico, neo-francescano inno alla povertà. Povero, aveva detto Mujica a Rio – citando non solo Seneca, ma anche Epicuro, in questo modo rivelando l’uomo colto che, in realtà, sempre ha ispirato il suo ricercato  “parlar da zoticone” – non è chi possiede poco, ma chi sente la necessità di molto più di quanto abbisogna per raggiungere quella cosa semplice e dimenticata (dimenticata perché sacrificata sugli altari della religione del consumo) che si chiama “felicità”. È per essere felici – non per produrre e consumare cose che non ci servono – che siamo al mondo, aveva detto El Pepe. E lo aveva fatto con la stessa “rivoluzionaria” (anche se forse non del tutto inconsapevole) innocenza del bambino della favola di Andersen. È tempo che, nel nome della felicità perduta e del futuro del pianeta Terra, aveva aggiunto, l’uomo torni a governare la forza, quella del Dio mercato, dalla quale s’è fino ad oggi, come Der Zauberlehrling, l’apprendista stregone di Goethe, lasciato governare…

Bellissime parole. Belle e capaci – in perfetta sintonia “visuale” con il personaggio che le pronunciava – con la chacra, i muri anneriti, il trattore il maggiolino e la cagnetta – di far nascere all’istante una nuova e fulgente stella nel firmamento della sinistra ecologica globale. Ma è davvero tutto qui, in questo vecchio “discorso più bello del mondo”, il “vero” José Mujica Cordano? Che cos’altro si vede dentro lo zaino?

La “mochila” che el Pepe si porta sulle spalle

La prima cosa che appare, perché è la più recente, è ovviamente il Mujica “vecchio saggio della montagna” intento, in un intercalare di lunghe pause di riflessione, a regalare al mondo lezioni di vita. Chi vuole farsi una chiara idea di quest’ultima, prolungata fase del – chiamiamolo così – “mujichismo”, può rivedere la lunga intervista-documentario, “El Pepe, una vita suprema”, che, nel 2019 Mujica concesse a Emir Kusturica. Molto altro – e molto più importante – è però quello che si trova (o non si trova) sotto questa prima e in realtà molto sottile superficie.

C’è, in quella mochila, il Mujica guerrigliero, la realtà d’una esperienza di partecipazione alla lotta armata degli anni ’60 e ’70, alla quale el Pepe è arrivato, non attraverso classici sentieri di sinistra, ma partendo dalla realtà “blanca”, conservatrice, del Partido Nacional. O meglio: dal partito della campagna, contrapposto al progressivismo urbano, massone, del Partido Colorado. Mujica si riconosceva nella parte più popolare, contadina, dei nazionalisti: quella – ama dire riallacciandosi ad eventi e personaggi che appartengono a una storia complessa ed affascinante che pochi conoscono fuori dall’Uruguay – del presidente Bernardo Berro (l’uomo che abolì la schiavitù) e, soprattutto, del caudillo gaucho Timoteo Aparicio, protagonista, nel 1870, de la “revolución de las lanzas”, forse l’ultima guerra combattuta e (almeno temporaneamente) vinta usando prevalentemente armi bianche.

Il Mujica Tupamaro nasce qui, illuminato, in lande molto lontane dal marxismo, dalla novità della rivoluzione cubana, ed alimentato da un’infatuazione militarista che andava ben oltre i dettami del nascente “foquismo” guevariano. Nell’agosto del ‘61, durante una visita in Uruguay, lo stesso Che aveva sottolineato come non avesse alcun senso, nell’allora apparentemente consolidata democrazia liberale uruguayana, scegliere la via della lotta armata. E qui, in questa forzata anomalia, nascono, di conseguenza, anche il Mujica combattente e il Mujica “prigioniero di guerra”, arrestato, fuggito, ferito quasi a morte e arrestato di nuovo nel 1972, un anno prima del golpe militare, ed in carcere rimasto – per almeno tre anni in condizioni assolutamente disumane, in qualità di “ostaggio”, insieme a Raúl Sendic, Eleuterio Huidobro, Mauricio Rosencof, Adolfo Wasem, Julio Marenales, Henry Engler, Jorge Manera y Jorge Zabalza – fino al 1985, anno del ritorno della democrazia.

Della storia dei Tupamaros ci sono, sulle spalle di Mujica tutte le luci (non molte, giudicate alla distanza) e tutte le ombre (molte e sostanziali). Ci sono gli anni della cosiddetta “propaganda armata”, contrassegnata da imprese “alla Robin Hood” (rubare ai ricchi per dare ai poveri in spettacolari azioni di distribuzione di cibo nei quartieri più poveri) e quelli ben più cupi e sanguinosi di un “assalto al cuore dello Stato” (si, è proprio da qui che nostre Brigate Rosse hanno mutuato il proprio lessico) che in poco più di sei mesi – raggiunto il proprio  apogeo con la grande evasione dal carcere di Punta Carretas, nel settembre del 1971 – si tradusse in una rovinosa disfatta (per i Tupamaros e per l’intero sistema democratico). Una disfatta oltretutto marcata da un estremo, illusorio e assai poco glorioso tentativo di trasformare il colpo di Stato militare in una “rivoluzione proletaria” (fu l’esperienza, anch’essa fallimentare, di Juan Francisco Velasco Alvarado in Perù, ad alimentare in quegli anni, non solo in Uruguay, questa aberrazione politica).

Più chiacchere che azioni

Del Mujica dirigente guerrigliero non emergono, dallo zaino, grandi ricordi. Nel suo libro “Patria para nadie” – forse la più completa e distaccata storia del movimento fin qui data alle stampe – Pablo Brum ricorda come la “colonna” guidata da El Pepe – la numero 10 – fosse, dati alla mano, considerata dai massimi dirigenti dell’organizzazione, Raúl Sendic e Amodio Pérez (quest’ultimo poi molto strumentalmente bollato come “grande traditore” e unica causa della sconfitta militare), la meno attiva e la più ciarliera tra quelle operanti nella capitale. Molte discussioni politiche (el Bocón, la grande bocca, così era, ai tempi, soprannominato El Pepe dai suoi stessi compagni di lotta) e poche, pochissime azioni. Ed è certo che ai vertici dell’organizzazione – quando venne gravemente ferito ed arrestato dopo uno scontro a fuoco con l’esercito – Mujica arrivò solo nei giorni finali, dopo le “cadute” di Amodio, Sendic e Huidobro, la vera triade di comando.

In che misura José Mujica ha, in questi lunghi anni, fatto i conti con questo passato? Con più d’una buona ragione, molti suoi avversari (ed anche alcuni suoi estimatori) gli rinfacciano d’avere sempre evitato – coprendosi dietro la cortina del generico ripudio d’una lotta armata che, usava ripetere, “non ci ha portati alla terra promessa” – un’analisi vera, approfondita di quegli anni. E lo accusano anche di continuare ad alimentare il mito romantico – romantico e anche falso, come quasi tutti i miti – d’una guerriglia contrapposta ad una dittatura che, nella realtà, i Tupamaros non solo di fatto favorirono, ma apertamente auspicarono – lo confermano tutti i documenti da loro stilati – come la scintilla d’una inevitabile e vittoriosa insurrezione popolare.

Al di là di questa disputa storico-politica (destinata a durare nel tempo), un fatto è tuttavia certo. Di quei giorni di violenza e di morte racchiusi nel suo zaino Mujica è sempre parso non sentire il peso. O, più esattamente: di quei giorni che, per lui, significarono sofferenze inflitte (non molte) – su questo tema è di recente uscito un bellissimo libro “La redención  de Pascasio Báez” di Pablo Vierci – e sofferenze subite (moltissime e atroci lungo tutti i quattordici anni trascorsi nelle carceri della dittatura), sembra non portare alcuna cicatrice. Perché è a tutti gli effetti – ed è questo, forse, il lato più luminoso della sua personalità – un uomo senza rancori, senza desideri di vendetta e, persino – volendo usare un paradosso – senza ansie di giustizia (Mujica si è sempre, contro l’opinione di molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani, schierato contro la riapertura dei processi ai militari). E chissà che, al di là della Storia e d’ogni autocritica, non sia proprio questa sua totale assenza di malanimo verso i suoi antichi torturatori la più provata delle prove del suo ripudio della lotta armata.

Anche perché un altro fatto è – al di là d’ogni polemica – più che certo. Il meglio di sé José Mujica l’ha fornito, dopo il ritorno alla democrazia, come dirigente politico “disarmato”. Il suo Movimento de Participación Popular è stato per anni ed è ancor oggi la più grande e vivace corrente del Frente Amplio. E, come tale anche una colonna della rinata democrazia uruguayana.

Che altro si trova nella mochila di el Pepe? Una quantità di cose – intuizioni geniali, improvvisazioni, gaffe, pensieri ed idee. Molte idee. Alcune lasciate a metà, altre pienamente realizzate – molte delle quali imprevedibilmente “moderne”, vedi la legalizzazione della marijuana e l’istituzionalizzazione dei matrimoni gay – durante la sua presidenza). Altre immancabilmente destinate – ne fossero a conoscenza – a far rizzare i capelli in testa ai suoi più entusiasti ammiratori “verdi” sparsi per il pianeta. José Mujica Cordano, già presidente della Republica Oriental dell’Uruguay e fulgido simbolo  di personale sobrietà e sostenibilità ambientale, è infatti davvero – come testimonia il suo discorso di Rio – un poeta del “ritorno alla Madre Terra”. Ma quella che lui ama ed anela è in realtà soprattutto una terra che produce. E che, perché produca, può tranquillamente, anzi, deve essere “stuprata”, sottomessa, manipolata e corrotta.

Transgenico, agricoltura intensiva e “megamineria”

Prima di diventare presidente, Mujica aveva, per quattro anni, guidato un ministero chiave in materia di sostenibilità: quello dell’Agricoltura. Ed è stato proprio in quei quattro anni che le coltivazioni intensive – di soia soprattutto – hanno conosciuto la loro massima espansione. Mujica è sempre stato – da leader dell’opposizione, da ministro e infine da presidente – un inflessibile, fanatico quasi, assertore della necessità di coltivazioni transgeniche. E la terra, per lui, presidente povero, esiste (e va amata) solo in quanto produttrice di cibo o, comunque, di ricchezza. Una convinzione, questa, che negli anni della sua presidenza lo portò a pubblicamente ipotizzare la lottizzazione delle spiagge di Cabo Polonio – un unicum ambientale fatto di vergini dune che del “Uruguay natural” è uno dei massimi vanti – perché (questo disse prima che lo scandalo lo forzasse alla retromarcia) così com’è oggi serve soltanto “a unos lagartos” (vale a dire: ad alcune lucertole, con ovvio riferimento ai benestanti turisti che ivi s’abbronzano nei mesi estivi). E quindi a sostenere con forza (e fortunatamente non con successo) un gigantesco e devastante progetto di “megamineria” a cielo aperto (il ferro era il metallo da strappare alla terra) in quel di Aratirí, nel nord del paese, a cavallo tra i Diopertimenti di Durazno, Trenta y Tres e Florida.

Detto in sintesi: se qualcuno ha l’intenzione di cercare, nella concreta gestione politico-economico dell’Uruguay, negli anni della presidenza di Mujica o, comunque, del Frente Amplio, qualche traccia dello stile di vita e della filosofia anticonsumista che ha reso “El Pepe” famoso nel mondo, è meglio che si risparmi la fatica. Perché, di tracce, non ve ne è in pratica alcuna.

Chissà. Forse hanno ragione quanti credono che di José “el Pepe” Mujica Cordano non sia destinata a restare, a conti fatti, che una quasi folcloristica ed innocua immagine di povertà tramandata da interviste e documentari. I vestiti trasandati, i sandali, i muri anneriti d’una fattoria fuori dal mondo, il maggiolino e, naturalmente, Manuela. Il tutto condito da un discorso che fece il giro del pianeta con la forza d’una Buona Novella e dal ricordo d’uno stile di vita. Null’altro che una piccola nota a piè di pagina nei trattati di Storia del secolo che verrà (se davvero un secolo verrà). Poco più d’una fotografia sbiadita. Ma, in ogni caso, una bella fotografia. Anzi: una fotografia a suo modo unica e capace d’ispirare – già oggi, nel giorno dell’addio -un senso acuto di nostalgia.

Riuscirà il mondo, in futuro, a trovare un altro Pepe?

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