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Saturday, December 21, 2024
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Si fa presto a dire pace

L'uccisione di quattro minorenni da parte della guerriglia che li aveva reclutati con la forza, mette crudelmente in luce le difficoltà e le sanguinose contraddizioni che la strategia di “pace totale” generosamente perseguita da Gustavo Petro deve affrontare nella quotidianità di una Colombia nella quale, per oltre mezzo secolo, la violenza è stata un modo di vivere (e di morire). Ecco quel che Juan Gabriel Vásquez scrive in proposito su El País di Madrid....

Per quanto si sa, i quattro indigeni erano minorenni che erano stati reclutati con la forza dalla guerriglia, e sono stati uccisi a sangue freddo quando hanno cercato di fuggire. La colonna di guerriglia che li ha uccisi, e che ha negato, come no, di averli uccisi, fa parte di quello che è stato chiamato Stato Maggiore Centrale, uno dei gruppi che sono usciti come schegge dalle FARC smobilitate, hanno tradito gli accordi di pace del 2016, hanno di nuovo preso le armi e ora sembrano disposti a riportarci tutti alle scene del sangue di prima degli accordi. Il governo di Gustavo Petro, che aveva concordato un cessate il fuoco bilaterale con queste strutture, è stato ora costretto a porre fine alla tregua. È un’ulteriore battuta d’arresto in quello che è stato definito un piano di pace totale, che è probabilmente il progetto più ambizioso del governo e che, per grande preoccupazione di coloro che hanno sempre difeso gli accordi del 2016, è anche una causa di crescente scetticismo. E questo per diverse ragioni.

La pace totale è il negoziato simultaneo con tutti gli attori dell’ostinata e multiforme violenza colombiana: i dissidenti delle FARC, gli ex paramilitari trasformati in bande criminali, il narcotraffico più o meno organizzato e l’ELN, l’ultima guerriglia degli anni ’60 che, nonostante i due cicli di negoziati formali aperti con il governo, ha ucciso senza ragione nei giorni scorsi nove soldati. Il piano è audace ma anche confuso, perché gli attori sono inconciliabilmente diversi; tanto che per molti osservatori, tra cui chi scrive, non è stato facile capire come si possa usare lo stesso linguaggio per dialogare con una guerriglia che, per quanto si sbagli rimane pur sempre politica, , e con bande criminali il cui unico interesse è mantenere il controllo sul lucrativo traffico di droga. Questo per non parlare dei dissidenti delle FARC che hanno scoperto, prevedibilmente, che la violenza, soprattutto contro i civili, dà potere in un futuro tavolo negoziale.

Come ho scritto qui lo scorso ottobre, il progetto di pace totale è stato apparentemente pensato senza pazienza, mescolando linguaggi e strategie in modo errato, confondendo la delicata logica che ha permesso gli accordi del 2016, in questo modo correndo il rischio di dare ai violenti incentivi che potevano rivelarsi controproducenti. Mi sembra che questo sia in parte ciò che sta accadendo. Dico in parte perché il progetto di pace totale ha altri aspetti, più indiretti o non dimostrabili, che hanno già cominciato ad avere conseguenze indesiderabili o che ne avranno in futuro. Penso soprattutto all’attuazione degli accordi del 2016, che obbligava la Colombia come paese ad un itinerario di enorme difficoltà fin dall’inizio bisognoso di immensa volontà politica, di grandi risorse economiche e umane e di un investimento di tempo. Il Consiglio europeo di Madrid ha preso atto con soddisfazione del l’impegno profuso dal Parlamento europeo in questo campo. Ora questi accordi, così ammirati in tutto il mondo, che rappresentavano una speranza per milioni di persone, si stanno lentamente spegnendo per varie ragioni che non è facile identificare. E questo dovrebbe rivelarci tutti.

Nei miei giorni peggiori penso che il nostro rapporto con gli accordi del Teatro Colón, l’incarnazione finale di quanto negoziato con le FARC, meriti di chiederci se saremo mai capaci di una vera pace. Tutti ricordano la campagna di menzogne e distorsioni condotta da Uribe e dal suo partito, con la complicità di un procuratore ultramontano e di alcune chiese evangeliche, per screditare gli accordi e calunniare il governo che li ha portati avanti; il risultato della campagna, al di là della sconfitta di quanto negoziato al plebiscito del 2016, è stata una società divisa e contrastata, ma soprattutto ingannata. In quello stato delle cose fu eletto Ivan Duque, il cui rapporto con gli accordi fu fin dall’inizio segnato dall’indolenza e dall’ipocrisia, poiché li sabotò insidiosamente o li applicò con fatica, senza mai impegnarsi con loro, sempre obbedendo alle direttive dell’ex presidente Uribe: il nemico dichiarato e anche il sabotatore capo dei negoziati dell’Avana.

Nel secondo turno delle elezioni dello scorso anno si sono scontrati due candidati: uno che arrivava con il sostegno dei nemici degli accordi e l’altro, Gustavo Petro, che prometteva loro tutto il sostegno necessario per realizzarli. Per questo ho pensato che la sua vittoria fosse una buona notizia, anche se Petro mi è sempre sembrato un uomo di verbo irresponsabile, temperamento intransigente e tendenza alla demagogia, il cui scarso talento per la gestione è fatalmente sconvolto dall’ideologia. Ma stava per attuare gli accordi, rappresentava cambiamenti di cui il paese aveva urgente bisogno e inoltre aveva presentato un volto d’uomo capace di dialogare e fare concessioni. Nove mesi dopo il suo possesso, l’uomo del dialogo e delle concessioni è diventato un populista di balcone che parla solo per le sue basi, attaccando senza ritegno chiunque non comunichi alla lettera con i suoi progetti e suggerendo la possibilità di rivoluzioni se le sue riforme non passano come vuole. E la conversazione con l’altra sponda politica, o con i moderati della sua stessa sponda, diventa ogni giorno più difficile….

Leggi l’intero articolo, in spagnolo su El País di Madrid

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