Tutto cominciò proclamando l’eguaglianza tra gli uomini…e difendendo la “peculiare istituzione” della schiavitù…
3 luglio 2006
di Massimo Cavallini
Molti, nella sinistra italiana, vogliono oggi – per dirla con il grande Renato Carosone – “fa’ gli americani”. O meglio: sembrano più che mai decisi creare (o ricreare) un’italica versione del partito democratico made in Usa, ovvio contraltare progressista al polo conservatore raccoltosi nell’ultimo decennio all’interno della berlusconiana Casa delle Libertà. Legittima aspirazione, naturalmente. Ma da dove è bene cominciare, in quest’ottica, l’analisi del modello originale?
La risposta più immediata è, a rigor di logica: dall’inizio. E tuttavia è proprio dall’inizio che, in effetti, cominciano i problemi d’identificazione con una storia troppo diversa – o troppo “eccezionale”, come vuole un’assai diffusa teoria storiografica – per poter essere seriamente presa ad esempio altrove. Intanto per un semplicissimo motivo: un “vero” inizio non esiste. Pur essendo, infatti, da molti considerato il più antico, a livello mondiale, tra i moderni partiti politici ancora in vita, il partito democratico americano non vanta alcuna data di fondazione. Ed anzi non è, per molti aspetti, addirittura mai nato (nel senso che mai, nel corso della sua lunga e tortuosissima storia, s’è organizzato, come si conviene ad un vero partito, attorno ad un’idea politica definita, o ad un definito programma d’azione). Sicché qualcuno colloca la sua venuta alla luce attorno al 1832, anno nel quale, al fine di garantire la rielezione di Andrew Jackson, il partito (o non-partito) tenne la sua prima vera Convenzione. O, comunque, in un imprecisato momento tra il 1828 ed il 1832, allorché il medesimo Jackson iniziò, a sostegno della sua presidenza, a dar forma organizzativa – attraverso la creazione di comitati locali e di organi di stampa – ad una forza politica che, fino ad allora, non ne aveva avuto alcuna. Due i più importanti punti della piattaforma jacksoniana: l’opposizione all’estendersi dei poteri della Banca Centrale (la Second Bank of the United States) creata nel 1816 dopo che l’emorragia finanziaria provocata dalla guerra del 1812 aveva portato la neonata Nazione sull’orlo della bancarotta; e, ancor più, la necessità di tenere a bada il pericolo abolizionista. O il “mostro” abolizionista, come lo stesso Jackson ebbe a definirlo, riferendosi soprattutto alla rivista “Liberator” che, fondata in quegli anni da William Lloyd Garrison, andava a gran voce e pericolosamente reclamando, con nuova lena, la cancellazione della “macchia della schiavitù”. Poiché proprio questa – la protezione della schiavitù, per l’occasione gentilmente ribattezzata “the peculiar institution”, la peculiare istituzione – fu all’inizio (e tale rimase per moltissimi anni) una delle bandiere del movimento “progressista” nato, durante la rivoluzione, attorno alle monumentali figure di Thomas Jefferson e di James Madison.
Fu, tra l’altro, proprio nella convenzione del 1832 – rammentano gli annali – che i membri del Democratic Party ufficiosamente ma definitivamente scelsero il proprio nome. O, più esattamente: fu allora che accettarono di chiamare se stessi con il termine spregiativo – “democrats” anziché democratics – che avevano per loro coniato gli storici rivali del partito Whig (a loro volta sprezzantemente definiti “aristocrats” dai democrats). Nel suo classico “New Political Dictionary”, il noto commentatore conservatore William Safire fa risalire il termine ad uno scritto di John Adams pubblicato nel 1799, laddove il secondo presidente degli Stati Uniti d’America faceva con grande disappunto notare come il suo predecessore (George Washington) avesse “nominato in importanti posti di governo una moltitudine di ‘democrats’ e di giacobini della più bell’acqua”. Oggetto dei suoi strali era in realtà, assai più che il fondatore della Nazione (proprio in quell’anno passato a miglior vita), il personaggio politico che l’anno successivo, in una delle prime e più feroci campagne elettorali della storia americana, gli avrebbe con successo conteso la presidenza. Vale a dire: Thomas Jefferson, il “gigante” che, nel luglio del 1776, aveva vergato quella “Carta dei Diritti” (Bill of Rights), immediatamente diventata il “manifesto” della Rivoluzione Americana. E destinata a restare per sempre, come una pietra miliare, nella storia universale della liberazione dell’uomo.
Gli studiosi non hanno dubbi. Se mai un primo capo (o un fondatore) del partito democratico è mai esistito, questi è proprio lui, Thomas Jefferson. Perché fu proprio lui che, alla testa d’un movimento chiamato dei “repubblicani democratici”, rappresentò, dopo Washington, gli interessi ed il pensiero dell’ala più popolare (o, per l’appunto, democratica) della rivoluzione: quella che faceva riferimento soprattutto ai piccoli proprietari terrieri, timorosi d’una eccessiva estensione del potere del governo centrale a discapito dei singoli Stati e delle libertà individuali. Questo fu, per la Storia, lo scontro che, in quegli anni, forgiò i destini della nuova Nazione: da un lato i “federalisti” guidati in particolare da Alexander Hamilton, il primo segretario al Tesoro; e, dall’altro i democratici (o “democrats”) di Thomas Jefferson e James Madison. I primi desiderosi di rafforzare il potere federale, creando un esercito, una banca centrale ed un ufficio delle imposte. I secondi decisi a limitare al minimo, a vantaggio dell’ “uomo comune”, questi poteri. Ed entrambi, per molti aspetti, sospinti dal contrapposto (e spesso sovrapposto) influsso di quelle che, in un recente libro dedicato proprio a Thomas Jefferson, Garry Wills ha chiamato “paure incrociate”. Essenzialmente: il timor panico (specie dal lato dei Whig) dell’esempio francese, o degli “eccessi di libertà” inevitabilmente destinati a creare “nuove tirannie”; e (soprattutto dal lato democratico) lo sgomento provocato dall’idea che un forte governo federale potesse cancellare, o anche soltanto limitare, la “peculiare istituzione”. Perché gli “uomini comuni” che Jefferson rappresentava erano in realtà, assai spesso – come il medesimo Jefferson – anche proprietari di schiavi. E, soprattutto, perché in almeno dieci dei 13 Stati che allora formavano l’Unione, il possesso di carne umana era, come fonte di ricchezza, secondo solo alla proprietà terriera. Anzi: della proprietà terriera (o dell’agricoltura) era, a tutti gli effetti, il vero motore.
Qualche cifra, per meglio comprendere. Nel 1787, quando si riunì per la prima volta la Convenzione Costituzionale, l’America contava 3,8 milioni di abitanti, dei quali ben 700mila (il 18 per cento) erano schiavi. E la proporzione s’ingigantiva mano a mano che ci spostava verso sud, in direzione delle piantagioni di tabacco e di cotone: in Virginia (lo Stato di Jefferson) il 39 per cento della popolazione era formata da schiavi, nel Maryland il 32 per cento, nel North Carolina il 26 per cento, nel South Carolina il 43 per cento. Una realtà gigantesca della quale non si trova, nella Costituzione, varata nel settembre di quell’anno, che qualche mascherato cenno. Ma che di quella Costituzione – in teoria nata per dare forma legale al principio secondo il quale “tutti gli uomini sono stati creati uguali” – è parte implicita e fondamentale.
Un esempio per tutti. Nell’anno 1800. Thomas Jefferson vinse la corsa presidenziale grazie ad una clausola costituzionale – la cosiddetta “Enumeration Clause” – che i suoi “repubblicani democratici” avevano fortemente voluto. E che, a suo modo, meglio di ogni altro paragrafo illustra la natura del compromesso – o, se si preferisce del tragico, vergognoso paradosso – in base al quale nacque la prima “nazione di uomini liberi”. La paura della “democrazia diretta” – un vizio, quest’ultimo, considerato molto giacobino – aveva portato alla definizione del cosiddetto “collegio elettorale” (un fardello che ancor oggi caratterizza il sistema elettorale americano); e la quantità di voti di ciascuno di questi collegi veniva, allora come oggi, determinata in base al numero degli abitanti di ciascuno Stato. Il che significava che gli Stati del Sud – quelli che più si erano battuti per la piena salvaguardia della “peculiare istituzione” – sarebbero stati inevitabilmente penalizzati dal fatto che una più che discreta parte degli esseri umani di stanza nei loro territori erano stati, come i cavalli, i muli, o i maiali, ridotti al rango di merce. E che pertanto non erano, in quanto tali, contabili. Più in concreto: significava che, proprio in virtù della loro vittoria, gli Stati schiavisti rischiavano di perdere, alla lunga, la forza che aveva consentito loro d’imporre – contro la peraltro assai flebile spinta degli abolizionisti – il mantenimento della schiavitù. Sicché questo era stato, infine, il punto d’equilibrio definito nella legge fondamentale dell’Unione: al momento del calcolo dei voti di ciascun collegio elettorale, ciascuno schiavo – che, ovviamente, non poteva, come i cavalli, i muli ed i maiali, nemmeno immaginare d’usufruire del diritto di voto – sarebbe stato contato come tre quinti d’una persona. Jefferson – da John Adams proprio per questo sprezzantemente ribattezzato the Negro President” – vinse per otto voti elettorali. Grazie, esclusivamente, al peso di quei tre quinti d’uomo che lui ed il suo partito avevano voluto – contro le parole che loro stessi avevano scolpito nel marmo del “Bill of Rights” – mantenere (e mantenere per intero) nella vergognosa, abominevole disuguaglianza della schiavitù.
Così – marcato, come tutta la democrazia americana, da questo inemendabile peccato originale – nacque il partito democratico. E così continuò a vivere, diviso tra due anime che, più che contrastanti, apparivano, in effetti, parallele, capaci di convivere, ma non di toccarsi o di confrontarsi. Da un lato gli schiavisti del sud e, dall’altro, negli Stati del Nord-Est, la forza dinamica – ed a suo modo davvero democratica – dei nuovi immigranti, soprattutto irlandesi e tedeschi. Fino agli anni ‘50 e ’60, quando la schiavitù – che peraltro era andata estendendosi a nuovi Stati, come il Texas – divenne un’ormai insostenibile contraddizione, l’insopportabile zavorra d’un sistema economico che andava modernizzandosi a vertiginose velocità. Fino alla nascita del partito repubblicano che – sebbene anch’essa marcata da spinte xenofobe contro il crescente peso “cattolico” della summenzionata emigrazione irlandese e tedesca, in grande maggioranza di segno democratico – finì per catalizzare le crescenti forze dell’abolizionismo. Fino alla Guerra Civile, terribile prezzo di sangue pagato, con quasi un secolo di ritardo, per il peccato originale di quella Costituzione schiavista. E, da ultimo, fino al “Gettysburg Address” con cui Abraham Lincoln – prima d’allora assai timido abolizionista – voltò finalmente e per intero la pagina della storia, ridando un senso – in quella che qualcuno legittimamente chiama la “Seconda Rivoluzione Americana” – all’originale Carta dei Diritti.
Negli anni che separano la fine della Guerra Civile dall’inizio della Prima Guerra Mondiale – quelli che videro gli Stati Uniti d’America diventare la prima potenza economica del pianeta – i democratici americani hanno continuato a crescere lungo il filo di questa “vita parallela”. Rimanendo, al Sud, il partito d’uno schiavismo divenuto apartheid (in base al principio degli “uguali ma separati” che una delle più infami tra le sentenze della Corte Suprema – la Plessy vs. Fergusson – aveva sancito nel 1896); ed al Nord scoprendo, in un incontro con il mondo del lavoro che mai, per molte ed “eccezionali” ragioni, si trasformò in logica di classe, il proprio “spirito anticapitalista”. Uomo chiave di questa svolta: William Jennings Bryan, indubbiamente il più importante – ed a suo modo, lui pure, contraddittorio – tra i grandi “populisti delle praterie”. Per tre volte candidato presidenziale perdente in un periodo di pressoché assoluto dominio repubblicano, Jennings Bryan aveva per anni tuonato contro lo strapotere delle grandi corporazioni e, insieme, contro ogni avventura imperialista. Ed aveva nel contempo sposato – nel nome d’una visione integralista cristiana – il retrivo moralismo del proibizionismo e l’ormai patetico oscurantismo dell’antievoluzionismo (l’ultimo atto della sua vita, per molti aspetti ammirevole, fu rappresentare le ragioni dell’accusa anti-darwinista nel celeberrimo processo “State of Tennessee versus John T. Scopes”, meglio noto come “the Monkey Trial”).
Altri momenti fondamentali dell’evoluzione democratica: l’internazionalismo di Woodrow Wilson (che in aperto contrasto con l’isolazionismo di Jennings Bryan scelse la via della partecipazione alla Prima Guerra Mondiale). E, soprattutto, il lungo, straordinario periodo del New Deal di Franklin Delano Roosevelt, che cementò la natura di “partito del lavoro” dei “democrats”, a suo modo assorbendo gran parte delle spinte socialiste (Eugene Debbs aveva raggiunto, nelle elezioni presidenziali del 1912, il 6 per cento dei voti, la medesima percentuale che, in quello stesso periodo, vantavano i laburisti inglesi) cresciute sull’onda del “crash” del 1929 e della Grande Depressione . Un passaggio, questo, che ha anche, inevitabilmente, ingigantito il divario tra il partito del Nord (sempre più marcatamente progressista e, grazie ai programmi assistenziali varati dal governo, sempre più “nero”) ed il partito del Sud, sempre più irretito nella logica dell’apartheid, preparando l’ultima delle grandi svolte: quella maturata negli anni del grande movimento per i diritti civili. Quella che sotto la presidenza di John Kennedy e, soprattutto, di Lyndon Johnson, avrebberoinfine creato, attraverso dolorose scissioni, il partito democratico che conosciamo oggi: una forza dalle molte anime che tuttavia presenta se stessa, nei panorami della politica americana, come il partito delle minoranze o, se si preferisce, come il partito della diversità.
Riassumendo (ed inevitabilmente semplificando). Nato come fervente sostenitore del potere degli Stati contro il potere del governo centrale, il partito democratico è divenuto, nel tempo, l’organizzazione che, contro il liberismo repubblicano, sostiene (in senso lato) l’intervento “redistributivo” del governo nell’economia. Nato come partito degli schiavisti del sud, è diventato il partito dell’integrazione razziale contro il revanscismo bianco nell’ultimo mezzo secolo predicato, sotto diversi nomi, da Goldwater, Nixon e Ronald Reagan. Quanta di questa storia “eccezionale” – ed eccezionalmente contraddittoria – può esser oggi capitalizzata dalla sinistra italiana? Non molta, probabilmente. A meno che, seguendo l’esempio originale, i democratici nostrani non vogliano – visto che ritornare allo schiavismo non è proponibile – cominciare anch’essi dal nome, facendosi a loro volta chiamare “democrati”. O, meglio ancora, usando il termine spregiativo – “comunisti” – che il capo della coalizione di governo usa per definire tutti coloro che non sono d’accordo con lui. Dove possa portare una simile scelta, non è, ovviamente, facile dire. Ma, per quanto poco promettente, sarebbe, comunque, un divertente inizio…