No menu items!
21.4 C
Buenos Aires
Sunday, November 24, 2024
HomeNord AmericaU.S.A.Bernie Sanders, il candidato che vinse perdendo

Bernie Sanders, il candidato che vinse perdendo

Bernie Sanders – il “socialista” Bernie Sanders, l’ “incubo” che per tanti mesi ha tormentato le notti dell’establishment democratico – s’è infine ritirato dalla corsa per la “nomination” presidenziale. O, per meglio dire, si è “quasi” ritirato, visto che il suo nome “will stay on ballot”, resterà ufficialmente in lizza nelle prossime primarie (se primarie ci saranno), con il dichiarato obiettivo di giungere alla convenzione di Milwaukee (se mai potrà tenersi una convenzione a Milwaukee, o in qualsivoglia altra parte degli Stati Uniti d’America) con il maggior numero di delegati possibile. Più che ritirarsi, chiudendo i proverbiali baracca e burattini, Sanders ha in effetti soltanto (e con certo ritardo) apertamente riconosciuto che vincere era impossibile. Ovvero: ha ammesso quel che a tutti già era apparso chiaro fin da quando, lo scorso 3 di marzo, Joe Biden aveva – oltre ogni previsione – sbaragliato il campo nella decisiva notte del “Super-Tuesday”; e che, ben al di là di qualsivoglia aritmetica elettorale, era divenuto non solo chiaro, ma assolutamente ineluttabile, appena una settimana più tardi, quando il medesimo Biden aveva vinto per cappotto nel Michigan.

Perché ineluttabile? Semplice: perché il Michigan, lo Stato di “Motown” Detroit, era un “blue collar State”, uno di quegli “Stati operai” al cui voto ancora restava appesa, con un sottilissimo filo, la teoria della “eleggibilità” di Bernie Sanders, la vera ragion d’essere d’una campagna che non voleva essere di pura testimonianza politica o di disturbo. Alla base di tale teoria giaceva, infatti, un’ipotesi dalle urne smentita senza appello: quella secondo la quale Bernie era il candidato che – grazie proprio al suo “appeal” tra la “white working class”, tra gli operai bianchi – meglio poteva competere con Donald Trump negli Stati (il Michigan, per l’appunto, e poi La Pennsylvania ed il Wisconsin) che nel 2016, nonostante la sconfitta nel voto popolare, avevano (per una differenza complessiva di meno di 80mila voti) regalato la vittoria all’attuale inquilino della Casa Bianca. La notte del 10 di marzo, gli operai del Michigan avevano, in massa, scelto “uncle Joe” Biden. La corsa alla “nomination” di Bernie Sanders era finita lì.

Democratic presidential candidate Sen. Bernie Sanders, I-Vt., speaks at the J Street National Conference, with the hosts of “Pod Save the World,” Tommy Vietor, left, and Ben Rhodes, Monday, Oct. 28, 2019, in Washington. (AP Photo/Jacquelyn Martin)

Mercoledì scorso, quasi un mese dopo questa inappellabile sentenza, Bernie Sanders ha alzato bandiera bianca. Lo ha fatto da par suo, annunciando che “la lotta continua”. E l’ha fatto – questo è il dato più interessante e paradossale (interessante proprio perché paradossale) – accompagnato da un coro di lodi che va molto al di là degli applausi che, in una competizione civile, sempre si rivolgono agli sconfitti. Più in concreto: l’ha fatto nel momento, in cui, a fronte della pandemia che sta cambiando ogni cosa negli Usa e nel mondo, più giuste e valide, più “normali”, appaiono le rivendicazioni che erano – e che restano perché, per l’appunto, “la lotta continua” – al centro della sua campagna: “Medicare for all” (vale a dire: un sistema sanitario pubblico e nazionale, sul modello, per l’appunto del Medicare, creato sotto la presidenza di Lyndon Johnson e fin qui riservato ai soli anziani), educazione gratuita, una rete di protezione complessiva capace di proteggere gli strati sociali più vulnerabili, una lotta contro diseguaglianze che, con crescente indecenza, minano le basi della democrazia, il “Green New Deal” inteso come nuovo motore di sviluppo (nuovo ed ora assolutamente necessario per uscire dalla depressione che, inevitabilmente, seguirà la pandemia). Tutti obiettivi classicamente (e moderatamente) socialdemocratici che la cultura politica Usa considera “estremi”. E che, va subito aggiunto, in una a suo modo affascinante, ma anche perversa forma di coerenza, Bernie Sanders nulla ha mai fatto per non far sembrare tali.

L’America sta oggi mostrando, di fronte alla sfida del coronavirus, tutta la nuda e cruda, anzi, crudele inadeguatezza d’un sistema sanitario balcanizzato e basato sul profitto, cronicamente incapace di garantire, come in ogni altra parte del mondo sviluppato e meno sviluppato, una copertura universale ai suoi cittadini. Una delle ragioni per le quali anche molti progressisti avevano fin qui respinto l’idea del “Medicare for all” – ragioni valide, non fondate sulla semplice difesa degli interessi delle compagnie d’assicurazione e del “complesso sanitario-farmaceutico”– si basava su fatto che non solo finanziariamente impossibile, ma anche impopolare appariva sostituire d’acchito, senza passaggi intermedi, l’attuale sistema di assicurazioni private con il “single payer”, il pagatore unico (ovvero, con il sistema sanitario nazionale e pubblico di cui sopra). La ragione? Una rilevante maggioranza di americani gode (e ne è in genere soddisfatta) dell’assistenza (privata) garantita dal proprio contratto di lavoro. Che senso ha, si chiedevano in molti, costringere ad un cambio non desiderato (e con imprevedibili risultati) questa enorme porzione di cittadinanza? Non era questa proposta – specie se presentata, Sander’s style, come una sorta di test d’ideologica purezza – soltanto una forma di suicidio elettorale? E non era meglio puntare su un progressivo miglioramento della riforma sanitaria, il cosiddetto “Obamacare”, approvata nel 2010? Domande serie, domande legittime. Domande alle quali il virus ha, in questi giorni, provveduto a dare un’inequivocabile risposta. A causa del covid-19 sono già 16 milioni gli americani che hanno perduto il lavoro. E, con il lavoro, ogni forma di assistenza sanitaria…

Bernie was right, Bernie aveva ragione. Questo è quel che molti – ed è quasi un ritornello – vanno ripetendo ora che Bernie ha ufficialmente sospeso la sua campagna….

Bernie was right, Bernie aveva ragione. Questo è quel che molti – ed è quasi un ritornello – vanno ripetendo ora che Bernie ha ufficialmente sospeso la sua campagna. E proprio qui sta il paradosso, la questione di fondo. Perché quest’uomo che “aveva ragione” ha perso la corsa alla nomination democratica? L’aver ragione, notoriamente, mai ha rappresentato, lungo l’intera storia dell’umanità, un’assoluta garanzia di vittoria, specie quando si è avuto ragione sì, ma nel momento sbagliato. Tutto però, nel caso specifico, indica che Bernie ragione l’ha avuta, con assoluta puntualità – ed anche prima dell’esplodere della pandemia – nella più emblematica e nitida delle congiunture. Dunque, dove stanno le vere cause della sua sconfitta?

The Bernie people should come to the Republican Party, TRADE!

Per rispondere a questa domanda vale la pena partire dagli antipodi di Bernie Sanders. O, più esattamente, da quello che, in tutti i suoi discorsi, Bernie Sanders ama, con eccellenti motivazioni, definire “un bugiardo patologico”, “un razzista ed un sessista”, nonché “il più inetto, reazionario e corrotto presidente della storia degli Stati Uniti d’America”. Ovvero: da Donald J. Trump e dalle parole che, giusto ieri, quest’ultimo ha dedicato all’uscita di scena dell’aspirante “nominee” democratico. “Bernie is OUT!” ha, con ostentato disappunto, scritto Trump in uno dei suoi tweet. Ed ha proseguito dando ad Elisabeth Warren – un’altra ed altrettanto progressista candidata alla nomination – la colpa dell’accaduto. In sostanza: è stata Elizabeth Warren, rimanendo in corsa, a decretare la sconfitta di Sanders nel “Super-Tuesday” e, quindi, la sua definitiva caduta. Il tutto, ovviamente – come già quattro anni fa con “crooked Hillary” – sotto la perfida regia della dirigenza democratica. La conclusione? “The Bernie people should come to the Republican Party, TRADE!”, i seguaci di Bernie dovrebbero venire nel Partito Repubblicano, trattiamo!.

Parole, queste, che non sorprendono per due ovvie ragioni. La prima: perché, nel loro mescolare scempiaggini (la tesi della “colpa” della Warren non si regge in piedi da qualunque parti la si consideri), menzogne e furbizie da rigattiere, quelle contenute nel tweet presidenziale, sono, in ogni loro sfumatura ed in tutta la loro intrinseca meschinità, parole molto trumpiane. La seconda: perché, nel corso della campagna per le primarie democratiche, Donald Trump non ha mai fatto mistero del suo “tifo” per Bernie Sanders. O meglio: non mai fatto mistero del suo considerare Bernie Sanders, il “socialista” Bernie Sanders, il suo avversario preferito, quello sul quale meglio misurare la sua campagna elettorale. “Mai permetterò – aveva detto Trump concludendo l’ultimo dei suoi discorsi sullo Stato dell’Unione – che l’America diventi uno stato socialista”.

Trump aveva, a suo modo, visto giusto. E non soltanto (né tanto) perché l’ostentato “socialismo” di Sanders davvero fosse il classico “drappo rosso” da agitare davanti all’elettorato in una battaglia ideologica destinata a replicare – inevitabilmente in forma di farsa – le tragedie della Guerra Fredda. E, ancor meno, perché davvero esiste, come sottoprodotto nichilista della (troppo?) coerente battaglia di Sanders contro l’establishment democratico, una piccola frazione di voti (il 15 per cento del totale secondo un sondaggio della catena televisiva ABC) pronta a votare repubblicano. Trump aveva visto giusto soprattutto perché aveva individuato in Bernie Sanders l’uomo che meglio poteva dividere il partito democratico.

ESSEX JUNCTION, VERMONT – MARCH 03: Democratic presidential candidate Sen. Bernie Sanders (I-VT) addresses a rally with at the Champlain Valley Expo March 03, 2020 in Essex Junction, Vermont. 1,357 Democratic delegates are at stake as voters cast their ballots in 14 states and American Samoa on what is known as Super Tuesday. (Photo by Chip Somodevilla/Getty Images)

E proprio questo è il punto. Bernie Sanders ha perso perché, pur avendo ragione, non mai saputo (ed io credo nemmeno voluto) superare la natura massimalista – massimalista molto più nella forma che nella sostanza – della sua proposta politica. O meglio: perché non ha saputo (ed io credo nemmeno voluto) trasformare quella ragione nella base d’una nuova unità del partito democratico. Ancor più specificamente: Bernie Sanders ha perso perché non ha mai davvero considerato l’unità del partito democratico (un partito del quale, peraltro, mai è stato parte) un valore da perseguire. E non hai mai considerato questa unità un valore da perseguire, perché, a dispetto del suo disprezzo per il presidente in carica, non ha mai davvero colto, ignorando le grida che venivano dal profondo non solo della base democratica, ma della stessa democrazia americana, l’assoluta priorità della battaglia per liberare l’America (ed il mondo) dall’esiziale pericolo d’un secondo mandato di Donald Trump.

La dimostrazione di tutto ciò? Poco più d’un mese fa, Bernie Sanders era arrivato da grande favorito alla prova – poi risultatagli fatale – del “Super-Tuesday”. E – sebbene facile sia oggi, con il classico senno di poi, vedere come mai, in effetti, avesse avuto una vera chance di vincere la nomination – tutto sembrava giocare a suo favore. Dalla parte di Bernie c’erano l’entusiasmo, le idee, la gioventù (non ovviamente la sua, date le settantotto primavere, ma quella del suo elettorato) ed il danaro (danaro che era, a sua volta, frutto dell’entusiasmo e delle idee, non d’una perversa relazione con il potere economico). Dalla parte di Biden, invece, altro non c’erano che forzieri semivuoti (la sua campagna elettorale non era molto lontana dalla bancarotta), scarso entusiasmo ed una sola idea: quella, per l’appunto, dell’unità del partito democratico. Joe Biden era stato fin dall’inizio – ed ancora è – un candidato “d’apparato”, una sorta di gradevole ma grigia ed alquanto informe media ponderata tra le varie anime del partito. O, come si usa dire, un candidato inerziale. Ed all’appuntamento del Super-Tuesday sembrava esser giunto senza inerzia alcuna. Eppure alla fine aveva, non solo vinto, ma stravinto. Ed aveva stravinto proprio perché, senza danaro né idee, aveva incarnato il più profondo dei bisogni dell’elettorato: quello dell’unità necessaria per battere Trump.

E questo è il punto in cui ci si trova. Bernie Sanders, il candidato che ha perso la corsa, è quello che alla corsa ha di fatto regalato le idee giuste, le idee che contano, quelle destinate a durare nel tempo. O, se si preferisce – continuando lungo il filo del paradosso – le idee vincenti. Joe Biden, il candidato che ha vinto la corsa per correre nelle prossime presidenziali (quanto prossime è, data la pandemia, difficile dire), alla contesa non ha portato invece che se stesso ed una idea di unità che, per quanto vincente, non è ancora che una pagina bianca, riempita soltanto dalla nebbiosa utopia – un’utopia molto più utopica del “socialismo” di Bernie Sanders ed ancor più inimmaginabile sullo sfondo d’un mondo sconvolto dal coronavirus – d’un ritorno alla bipartisan “normalità” pre-trumpiana. Un’utopia che non è, a conti fatto che una forma di perdente nostalgia.

Per vincere a novembre (se a novembre sarà) Joe Biden – che fin qui brillato per la sua quasi totale assenza nel pieno della crisi del coronavirus – ha assoluto bisogno di riempire questa pagina bianca. E per riempirla deve, forzatamente, fare i conti con le idee e con l’entusiasmo che ha sconfitto nel nome dell’unità. Messo alla prova dell’epidemia – la prima crisi che non fosse stata, più o meno ad arte, creata da lui stesso – Trump ha fin qui dimostrato, in un penoso show quotidiano, il peggio di se stesso. Meglio ancora: ha dimostrato d’esser se stesso. Il peggio del peggio. Ed appare più che mai vulnerabile. Ma come ogni “stato d’emergenza”, le pandemie sono – vedi il caso di Orban in Ungheria – il più naturale brodo di coltura per dittatori ed aspiranti tali.

La partita è – in uno scenario fino a ieri impensabile – assolutamente aperta, E non si può, allo stato delle cose, concludere in altro modo che parafrasando il finale dei vecchi fumetti degli anni ’50: riusciranno i nostri eroi, Bernie ed Uncle Joe, a ritrovarsi finalmente ed a salvare insieme, sullo sfondo della pandemia, la democrazia americana? Sarà ciò che sapremo (forse) alla prossima puntata…

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.

Most Popular

Recent Comments

Sandro Berticelli on Maduro, una catastrofica vittoria
pedro navaja on Benaltrista sarà lei…
Corrado on Cielito lindo…
Corrado on Tropico del cancro
Corrado on Evo dixit
Corrado on L’erede
Alligator on Aspettando Hugodot
A. Ventura on Yoani, la balena bianca
matrix on Chávez vobiscum
ashamedof on Chávez vobiscum
stefano stern on Chávez e il “maiale”
Antonio Moscatelli on Gennaro Carotenuto, cavallinologo
pedro navaja on La strada della perdizione
pedro navaja on Benaltrista sarà lei…
pedro navaja on Benaltrista sarà lei…
pedro navaja on Benaltrista sarà lei…
Alessandra on Benaltrista sarà lei…
Alessandra on Benaltrista sarà lei…
Arturo Sania on Benaltrista sarà lei…
A.Strasser on Benaltrista sarà lei…
Alessandra on Benaltrista sarà lei…
A.Strasser on Benaltrista sarà lei…
Arturo Sania on Benaltrista sarà lei…
giuilio on Maracanazo 2.0