Gioconda Belli parla di se stessa, del Nicaragua e del suo nuovo romanzo dedicato alla vita di Giovanna d’Aragona e Castilla, meglio nota come ‘la Pazza”
di Gabriella Saba
12 ottobre 2007
La scrittrice nicaraguense Gioconda Belli ha rispolverato dal lontano passato una regina poco famosa (e poco regina: non riuscì mai a regnare sul serio) e ne ha riscritto la storia e abbellito l’immagine fino a farne la protagonista semi-eroica del suo ultimo romanzo, La pergamena della seduzione, editore Rizzoli, traduzione di Margherita D’Amico, euro 18,50: storia avvincente di Giovanna di Aragona e Castiglia, meglio nota come madre di Carlo V e più ancora (ma ingiustamente) come Giovanna la Pazza per essere, nella realtà, combattiva e appassionata, fuori schema per i suoi tempi o forse in generale. Romanzo modulare – comprimaria una diciassettenne introversa che si muove nella Spagna franchista degli anni Sessanta – La pergamena della seduzione è, oltre che un bel libro, la meritata denuncia della repressiva morale sessuale che da sempre punisce le donne e che, più acuta in alcune epoche, esiste però sempre in questa o quella parte del globo.
Alla soglia dei 59 anni, Gioconda Belli si cimenta insomma in una storia che non parla di politica o meglio affronta quest’ultima attraverso il privato. L’icona Gioconda dei tempo del Fronte sandinista di Liberazione Nazionale è oggi una donna compassata che divide la sua vita tra Los Angeles e il Nicaragua, ha quattro figli e un marito produttore e critica il nuovo presidente, e suo ex amico Daniel Ortega.
D. Partiamo da Giovanna la pazza: una donna moderna, universale o, come si chiede lei stessa in un passaggio del libro, soltanto la schiava di un amore incrollabile?
R. Penso sia stata una donna molto moderna per la sua epoca, parliamo del Cinquecento che vuol dire Inquisizione e così via. Le toccò incarnare un ruolo che non era il suo, almeno in origine, e cioé quello di regina che non le interessava, non avendo ambizioni in quel senso. Posso aggiungere che rappresentò il paradigma della donna del Rinascimento, o meglio di come si riteneva dovessero essere le donne a quel tempo. Per il resto si tratta dello stesso ruolo fittizio, della stessa condizione forzata a cui sono costrette molte islamiche che vengono punite per essere adultere, per fare un esempio.
D. L’erotismo femminile gioca un ruolo molto importante in questo romanzo così come in altri suoi e nelle poesie. E’ però è quell’erotismo, la ricerca continua del piacere a tenere legata Giovanna al marito Filippo il Bello, che ha per lei sentimenti ambivalenti e distruttivi.
R. Il piacere in sé non è distruttivo, è bellissimo. E infatti il castigo non arriva a Giovanna dall’erotismo ma dal giudizio della sua epoca, un giudizio moralistico che la porta a vivere male quella pulsione. Per contro, trovo che oggi l’erotismo sia sovraesposto, e il mio tentativo è infatti quello di far passare l’amore per il sesso.
D. Il parallelismo tra il Cinquecento e il franchismo nasce dalla comune morale oscurantista?
R. Si, certo. Durante il franchismo era perfino proibito baciarsi in pubblico, e anche l’ambiente del convento in cui vive Lucia, una delle due protagoniste del romanzo, sembra fatto apposta per ammazzare l’erotismo. Il freddo, il letto duro, e una sorta di cultura sadomasochista di sottomissione a Dio.
D. Come mai ha deciso di occuparsi di un personaggio minore come Giovanna la Pazza?
R. L’idea del romanzo era in realtà raccontare la mia adolescenza in un convento di Madrid, e mentre mi trovavo in quella città a lavorare su quel soggetto mi imbattei nel ritratto di Giovanna all’Escorial. Mi incuriosì e cominciai a fare ricerche, e dopo un po’ decisi di unire le due storie.
D. Cosa è rimasto della sua militanza politica nel Fronte di Liberazione Sandinista, a parte i ricordi?
R. Io non mi milito più nel Fronte, ma faccio politica in altro modo. Ho un blog nel principale quotidiano del Nicaragua, e ho partecipato alla fondazione di un nuovo partito. Non faccio più politica nel senso ufficiale del termine, però uso la letteratura come impegno politico. Credo nel potere politico della parola, nella sua capacità di convincere e di agire sulle coscienze.
D. I romanzi hanno questo potere?
R. Ritengo di si. Adesso per esempio ne sto finendo uno su Adamo ed Eva, anche se vorrei non parlarne ancora.
D. Signora Belli, cosa pensa del Nicaragua di oggi? Per che strada va? E per che strada va Daniel Ortega?
R. Daniel? Mi auguravo avesse imparato qualcosa in questi ultimi anni, per esempio a limitare il suo autoritarismo, e invece è rimasto settario come un tempo, nonostante abbia vinto con una proposta di unità nazionale. Il problema è che negli ultimi anni, e prima di lui, abbiamo avuto una sfilata di governi neoliberali terribili, e lui ha continuato con questo modello, con la differenza che ha imposto il suo caudillismo.
D. La sinistra europea, o almeno una parte di essa, guarda con favore il ritorno di Ortega. Come mai?
R. La sinistra europea è nostalgica di un romanticismo rivoluzionario che non ha mai vissuto, ma per noi che l’abbiamo vissuto il discorso è un altro. In quella sinistra c’è una necessità di epica, che compensi il mondo cinico, e questo lo capisco, ma bisogna stare attenti a non prendere abbagli.
D. Lei vive tra Los Angeles e il Nicaragua. Mi può raccontare a grandi linee la sua vita nell’uno e nell’altro Paese?
R. Posso dirle in sintesi che a Los Angeles, precisamente nella mia casa di Santa Monica, lavoro e in Nicaragua vivo. A Los Angeles trovo la concentrazione per scrivere, c’è molto silenzio intorno e molta pace. In Nicaragua è tutto diverso, sono sempre piena di cose da fare e la vita è più chiassosa. Detto questo, benché ormai mi sia abituata agli Stati Uniti, non mi piacciono molto, non mi sono mai realmente integrata.
D. A quasi 59 anni e con una vita come la sua (quattro figli, tre mariti, l’impegno politico e artistico), sono più o sogni o i ricordi?
R. Non ci penso in questi termini. Piuttosto, mi preoccupa la morte, non mi piace l’idea che morirò, penso che devo fare in fretta a fare le cose che voglio fare perché poi ci saranno la vecchiaia e la morte. Forse il modo migliore è far finta di niente e pensare come mio nonno che, a 96 anni, era ancora capace di programmare la sua vita da lì a vent’anni.