13 aprile 2007
di Gabriella Saba
La vignetta animata pubblicata qualche giorno fa da Amnesty International non è piaciuta al governo colombiano, e non perché mancasse di humour. Nel più tipico stile pubblicitario, il fumetto reclamizza infatti il sapone Colombia Clean che laverebbe tutto, incluse le coscienze sporche e i passati macchiati di sangue. Un paramilitare tutto denti mostra orgoglioso il prodotto mentre intorno a lui saltellano scheletri biancastri e sullo sfondo una casetta in legno esibisce la scritta “Auc Paramilitaries, non c’è bisogno di appuntamento”. “Don’t buy Colombia clean or the phony “demobilization””, è l’affondo finale con cui si conclude lo sketch, mentre sfilano in sottopancia altre scritte agre. Poiché il sapone è la metafora non proprio occulta della molto controversa legge Justicia y paz che ha concluso lo scorso anno il poco riuscito processo di pace tra paramilitari e Stato colombiano, quest’ultimo se la è presa. E il cartone è diventato un caso così come lo sono stati, a suo tempo, gli altri interventi di Amnesty e, in generale, qualunque critica fatta alla misura e ai suoi effetti.
“Desidero esprimere il più profondo rifiuto e la più energica protesta per il contenuto e la pubblicazione del video clip”, ha detto prevedibilmente il Ministro delle Relazioni Esterne Fernando Araujo Perdomo, aggiungendo che lo sketch rappresenta una mancanza di rispetto per gli sforzi, le sofferenze e la lotta del Governo e del popolo colombiani e per la loro aspirazione legittima alla pace. Ha rincarato la dose affermando che il tentativo di Amnesty è infame e inutile, ha fatto notare che il suo governo è rispettoso della libertà di espressione e ha pianto miseria, ma solo alla fine, ricordando quanto il processo di pace sia difficile, complesso e doloroso ma come alla Colombia riuscirà di portarlo a buon fine trattandosi, dice, di un paese di istituzioni.
A buon fine? Gli articoli sui media in mezzo ai quali quello sulla vignetta annaspa come una parentesi scanzonata non parlano quasi d’altro che di paracos arrestati o in riarmo, di istituzioni in cui le Auc si sono infiltrate, di multinazionali colluse e di computer requisiti all’interno dei quali le storie delle Auc (le Autodefensa Unida de Colombia, il gruppo più potente e più feroce) si annodano così fittamente a quelle di politici e generali, imprenditori e giudici da formare una struttura intricata in cui è difficile separare il maglio dall’oro.
Storie passate, dice qualcuno, e sarebbe anche vero se non fosse che quel passato è un’ombra lunga e che ci sono dubbi sul fatto che l’estenuante processo cominciato tre anni fa a Santa Fe del Ralito sotto l’egida della Chiesa cattolica e della Oea, abbia portato se non a una parvenza di giustizia almeno a una pace relativa.
Le cronache degli ultimi mesi mostrano il superboss Salvatore Mancuso, capo militare delle Auc e costituitosi insieme ad altri tredici della cupola nell’agosto scorso, a piangere lacrime metaforiche sul malfatto e a lamentare scrupoli di coscienza per le decine di migliaia di disgraziati che ha fatto ammazzare o sparire nel corso di una sfolgorante carriera. Da tempo gli Stati Uniti ne chiedono l’estradizione ma Uribe nicchia: se i paracos hanno accettato di consegnare le armi e di votarsi a miglior vita non è stato per finire i loro giorni in galera negli Usa, dove li aspettano condanne per narcotraffico prevedibilmente più dure degli otto anni che verrebbero comminati in Colombia ai più feroci tra loro. La legge justicia y paz attaccata da Amnesty prevede infatti che sia quello il massimo di pena per i paras così docili da confessare i loro crimini, restituire i beni illeciti e dichiarasi pentiti (chi viola queste regole perde però i benefici della legge). A distanza di un anno e mezzo dall’approvazione di quest’ultima, rivista poi dalla Corte Costituzionale e riapprovata infine (con qualche concessione in più per i paramilitari) alla fine dell’anno scorso, i beni resi sono però ben pochi, e alla imponente struttura finanziaria ed economica delle Auc manca parecchio per essere smantellata. Mancuso e gli altri capi sono stati trasferiti, lo scorso dicembre, nel carcere di massima sicurezza di Itaguì, ma nel frattempo è saltato fuori che qualcuno, all’Ambasciata Italiana, aveva regalato un passaporto al boss di origine calabrese, il quale vendeva cocaina alla N’drangheta e riciclava denaro attraverso – anche – un certo Giorgio Sale, proprietario insieme ai tre figli di ristoranti in varie città della Colombia. La richiesta di estradizione da parte dell’Italia si annuncia da un giorno all’altro ma ancora non arriva, forse perché sarebbe, probabilmente inutile.
Dalla sua cella supersicura un Mancuso nuova versione denuncia con calore il riarmo dei paras nel Sud della Colombia e nel Caribe: si chiamano aguilas negras e delle Auc hanno la stessa mission, ma si sono riarmati perché per loro non c’era lavoro. I programmi di riabilitazione promessi dal governo non servono a granché in un Paese in cui in cui gli impieghi scarseggiano e il 60 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. In un altro carcere molto sicuro, quello di Combita, un altro boss (ma della droga questa volta), Hernando Gómez Bustamante detto Rasguno, si rivela perfino più importante di quello che si pensava, tanto che il ricercato numero uno per narcotraffico dagli Stati Uniti, Diego Montoya. lo chiamava patron, padrone. Rasguno muore di paura all’idea che vogliano ammazzarlo, perché conosce troppo storie e molte di queste si annidano nel suo computer, confiscato a Cuba dove è stato catturato, e in mano agli inquirenti. Naturalmente aveva rapporti con i paracos (ed era socio di alcuni, come ha ammesso candidamente in una intervista al quotiidiano El Tiempo), ma chi tra i narcos non li ha? Per esempio, è un grande amico del profe, alias Vicente Castano, fratello e omicida del fondatore e capo delle Auc Carlos, i cui resti sono stati scoperti qualche mese fa e il cui fratricidio (avvenuto nel 2004) ha una ragione poco nobile: si era messo a patteggiare con la Dea per ottenere uno sconto di pena in cambio di nomi e denunce. Vicente non l’aveva fatto fuori direttamente, ma aveva dato l’ordine a un certo Monoleche, un marcantonio senza cuore. La fine di Carlos era stato un misto di squallido e bibilico: rifugiatosi dietro al frigorifero della sua casa senza più munizioni, era stato tirato fuori a forza e fatto fuori dai sicari.
Altra storia: nel dicembre dell’anno scorso viene trovato, nel computer di Jorge 40, uno dei supercapi delle Auc, un vero arsenale di informazioni: centinaia di nomi di politici, militari e personalità di rilievo delle istituzioni che venivano pagati dai paracos o, in combutta con quelli, vennero coinvolti in oltre cinquecento omicidi. I nomi non sono ancora pubblici ma la bomba rivela l’entità di quella che La Semana ha chiamato, in un articolo recente, la para-republica delle banane. Anche le banane c’entrano, per inciso. La branca colombiana della Chiquita, e cioé la Banadex, è stata appena multata negli Stati Uniti con 25 milioni di dollari per avere finanziato dal 1997 al 2004 le Auc con un milione settecentomila dollari. Qualcosa aveva dato anche alle Farc e all’Eln, ma i rapporti con i paracos erano andati molto più in là. Non solo li pagavano per essere protetti, ma anche per utilizzare il porto di Turbo, in cui i paras scaricarono, con l’aiuto di Banadex, 3.400 fucili Ak-47 e quattro milioni di munizioni 7,65. In una lettera alla procura l’ex presidente della repubblica Andres Pastrana ha chiesto che venga sollecitata l’estradizione dei responsabili della multinazionale, che avevano concordato l’affare direttamente con Carlos Castano. Anche Uribe è d’accordo. Le organizzazioni dei diritti umani sostengono però che la Chiquita sia solo una del mucchio e che nella stessa barca ci sia anche la Coca-Cola.
D’altro canto che dire se nemmeno la Cia si sbilancia per smentire (ma nemmeno per confermare) il ruolo di un numero uno delle istituzioni: il comandante generale dell’esercito colombiano Mario Montoya Uribe che, secondo quanto ha rivelato il Los Angeles Times, si alleò nel 2000 con un gruppo paramilitare, allo scopo di eliminare circa quattordici guerriglieri urbani nella città di Medellin (operazione che, per inciso, fu brillantemente portata a termine)?
Di fronte a questi scandali il governo che fa? Assicura la piena intenzione di punire colpevoli e collusi, sventare connivenze e risanare le moralmente pericolanti istituzioni. Sbandiera l’unico risultato ottenuto e cioé i trentamila paramilitari che hanno deposto le armi, anche se molti sostengono che si tratti di una mezza farsa, e che la maggior parte di loro si sia semplicemente riciclata, o che aspetti silente di riprendere l’attività. Secondo Human Rights Watch i paracos avrebbero continuato a minacciare, rapire e ammazzare anche dopo l’accordo di pace. A molti dei boss è stato permesso di scontare la pena in casa, per altri le prigioni sono luoghi dorati, ad altri ancora è stata concessa, chissà come, la libertà. Benché gli Stati Uniti abbiano chiesto l’estradizione per tutti (in quanto narcos), e insistano per averla, è molto improbabile che Uribe la conceda e non c’è quindi che da aspettare, come in qualunque storia, come andrà a finire.