6 marzo 2007
di M.C.
Ci sarà, infine, lo “scambio umanitario”? In quella che è stata forse troppo frettolosamente definita una “svolta”, il presidente colombiano, Alvaro Uribe, ha proposto, giovedì scorso, la creazione di una “zona di incontro”: 100 chilometri quadrati di territorio da selezionare, sotto controllo internazionale, in un’area spopolata quanto basta per non rendere necessario alcun processo di demilitarizzazione, o alcun massiccio trasferimento di popolazione civile. Una sorta di compromesso – un metaforico “punto d’incontro”, per l’appunto – tra due posizioni fino a ieri assolutamente inconciliabili: quella del governo che rifiutava qualsivoglia forma di “despeje”; e quella delle Farc che, non solo pretendevano un significativo “despeje”, ma ne indicavano anche l’ubicazione (Florida e Pradera).
Una domanda è tuttavia d’obbligo: si tratta davvero di qualcosa di nuovo? E la risposta è: no. Un’analoga proposta era stata avanzata, con la mediazione dei governi di Francia, Spagna e Svizzera, appena due anni fa. Ed era stata, senza troppe storie, rimandata al mittente dalle Farc. Di diverso, stavolta, vi è, è vero, il montare delle pressioni internazionali ed interne. La scorsa settimana, con gesto spettacolare – vedi il bel commento di Antonio Caballero su La Semana – il presidente Sarkozy, si è direttamente rivolto, via radio a onde corte, a “Monsieur Marulandá”, chiedendogli, nel nome dell’umanità, la liberazione di Ingrid Betancourt. E le immagini della stessa Ingrid, triste e smagrita, in quella che doveva essere la sua “prova di vita”, hanno nel contempo fatto il giro del mondo, commuovendo la pubblica opinione e dando ulteriore forza, in Colombia e fuori dalla Colombia, al movimento per “el canje”. Ma sarà sufficiente, tutto questo, per cambiare i destini d’un accordo fin qui sempre infrantosi contro una terribile, ma semplicissima verità? Ovvero: di fronte al fatto che, né il presidente Uribe – che deve la sua popolarità proprio al fatto che ha promesso di “farla finita” con le Farc – né le medesime Farc (che hanno trasformato in “business” la pratica infame del sequestro di persona) hanno mai avuto un vero interesse ad uno scambio di prigionieri? Molti lo dubitano. E portano, a suffragio del dubbio, non solo tutta la lunga e frustrante storia di un “accordo umanitario” mai divenuto realtà, ma anche le più recenti sequenze della vicenda della mediazione di Hugo Chávez che, apertasi come una grande speranza, è poi finita nella tragicomica, rissosa realtà d’una crisi diplomatica senza precedenti tra Colombia e Venezuela. Colpa solo del narcisistico protagonismo di Chávez? Difficile crederlo.
Molte cose, intanto, stanno avvenendo. E sono, perlopiù cose che vanno oltre Ingrid ed il suo sguardo triste, il suo volto emaciato. Oltre le parole strazianti della sua lettera alla madre. Per indicare una realtà ancora più triste ed emaciata, ancor più straziante, oltre un accordo umanitario che, anche qualora dovesse essere raggiunto, non rappresenterebbe, in effetti, che una minuscola consolazione nei panorami della violenza colombiana. La scorsa settimana – cosa piuttosto rara in Colombia – la cronaca ci ha regalato una storia a lieto fine. Quella d’un bambino di sei anni liberato grazie alla diserzione della guerrigliera – dalle cronache indicata solo con il suo soprannome, “La Negra” – alla quale era stato affidato in custodia.
La vicenda – vedi il video di El País – è, a suo modo, molto semplice. Semplice come una favola. Le Farc avevano rapito il bambino in quel di Cúcuta, mentre usciva di scuola. Ed avevano valutato la sua liberazione in 1.500.000 pesos (circa mezzo milione di euro). La persona alla quale era stato affidato questo piccolo patrimonio era, per l’appunto, “La Negra”. Ma la Negra aveva un cuore. Ed il cuore ha alla fine prevalso tanto su una fede politica ormai divenuta il sempre più trasparente schermo d’una pratica criminale senza cuore, quanto sulla paura di fare la fine che le Farc, di norma, riservano a chi tradisce. Per questo la negra è scappata con il bambino e lo ha riconsegnato ai genitori. Ma contrariamente alle favole – e nonostante l’indubbio “happy ending” della storia – del tutto fuori luogo sarebbe, a questo punto, concludere che “tutti vissero felici e contenti”. Perché il caso della Negra non è, in realtà, nonostante il suo radioso finale, che il riflesso di tutto ciò che di turpe vive dietro le sequenze – turpi anch’esse, ma parziali – della prigionia di Ingrid Betancourt.
Lo scambio di prigionieri che dovrebbe restituire la libertà a Ingrid, prevede una lista di 45 nomi, i cosiddetti “canjeables”, gli “intercambiabili” ai quali le Farc attribuiscono un valore politico. Perlopiù deputati, militari, dirigenti di partito, o funzionari di Stato. Ma i sequestrati nelle mani del gruppo guerrigliero sono, in realtà, molti di più (qualcuno dice 700, qualcuno dice mille). Quasi tutti vittime delle cosiddette “pesche miracolose”: posti di blocco al termine dei quali, come i pescatori dopo aver ritirato la rete, i guerriglieri dividono i pesci a secondo il loro valore di mercato. In una cesta i “cajeables”, quelli, per l’appunto, che possono essere liberati in cambio di qualche vantaggio politico. In un’altra cesta quelli che possono essere scambiati per denaro (come il bimbo liberato da La Negra). In un’altra, quelli che valgono poco (e che vengono spesso ceduti, per danaro, ad organizzazioni della criminalità comune). E, infine, quelli che non valgono nulla (e che a seconda delle circostanze, vengono liberati o uccisi sul posto). Ammesso, ovviamente, che il loro cadavere sia monetizzabile (perché, non di rado, le Farc chiedono un riscatto alle famiglie dei sequestrati anche per la riconsegna dei corpi).
Chissà, forse tra qualche settimana, tutti potremo festeggiare l’atteso ritorno di Ingrid e degli altri 44 “canjeableas” all’affetto delle loro famiglie. E, se mai verrà, sarà, quel giorno, un gran bel giorno. Un giorno per ricordare tutto quello che, oltre Ingrid ed oltre la gioia per la sua liberazione, in Colombia continua ogni giorno a vivere. A vivere e, più spesso, a morire.