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Camilo, il prete guerrigliero che morì prima di sparare

13 marzo 2006

di Massimo Cavallini

 

La Storia ed il mito – per una volta in piena concordanza – lo ricordano come “il prete guerrigliero”. Ma la guerriglia non è in realtà stata, nella vita di Camilo Torres Restrepo, che un lampo, un ultimo passo, una breve parentesi rimasta, da allora, tragicamente aperta. Tre mesi in tutto. Tanto quanto fu il tempo che, a cavallo tra il 1965 ed il 1966, separò la diffusione del suo “proclama al pueblo colombiano” – quello nel quale, agli inizi di dicembre, aveva annunciato, “desde las montañas”, d’essersi unito all’ Ejercito de Liberación Nacional (ELN) – ed il 15 del febbraio successivo, giorno della sua morte in combattimento. Un combattimento che, per Camilo, era stato anche il battesimo del fuoco…

 

È morto subito, il prete guerrigliero. Anzi: è morto molto prima che le circostanze gli consentissero di sparare una sola fucilata. E non è neppure, a ben vedere, morto da eroe. O, almeno, non è caduto compiendo alcuna di quelle audaci gesta che la cultura militare – quella guerrigliera compresa – considera di norma meritevoli di encomi, o di medaglie. In un’intervista rilasciata a Marta Harnecker (e pubblicata nel 1988), uno dei membri del Comando Centrale del ELN, Rafael Ortíz, così ha descritto l’azione che costò la vita a Camilo. Quando, poco dopo il suo arrivo sulle montagne di Santander, venne progettata una prima imboscata contro una pattuglia dell’esercito – ha raccontato Ortíz – Camilo, che non voleva privilegio alcuno, aveva insistito per partecipare all’azione, come imponevano le regole dell’ELN. E, considerata la sua pressoché totale inesperienza, gli era stato infine affidato il compito sulla carta meno rischioso: quello – normalmente lasciato alle reclute – di recuperare le armi abbandonate dai soldati caduti o fuggiti. E questo Camilo fece. Solo che, per un errore di valutazione, venne mandato allo scoperto troppo presto. Forse, a colpirlo, fu un soldato ferito. O forse furono altri soldati nascosti nel bosco. Mentre Camilo, forse già morto, giaceva sul terreno, i combattimenti ripresero feroci (tanto feroci che altri cinque guerriglieri caddero quel giorno). Recuperare il suo corpo fu impossibile. Ed impossibile è, ancor oggi, sapere dove l’esercito colombiano l’abbia infine sepolto.

 

Tutto qui. La storia “militare” di Camilo Torres Restrepo è, in senso stretto, tutta racchiusa negli eventi – o nei non-eventi – di queste poche settimane, schiacciata tra la promessa, lanciata nel suo ultimo “proclama”, di “continuare la lotta con un fucile in mano fino alla conquista del potere da parte del popolo”, e la sparatoria nella quale, a Patiocemento, nel Corregimiento di El Carmen, non lontano dal municipio di San Vicente de Chucurí, la morte gli venne incontro, implacabile e banale, quasi beffarda nella rapidità con cui aveva tarpato le sue ali di combattente. Non ci sono, nella biografia di Camilo Torres, scritti sulla “guerra per bande”. Non ci sono – come nel caso celeberrimo del Che Guevara – lo sbarco del Granma, la Sierra Maestra e la battaglia di Santa Clara, la vittoria dei “barbudos” ed il martirio in Bolivia. Nulla di tutto questo. E nulla ci sarebbe stato, probabilmente, neppure se, in quel 15 febbraio del 1966, la morte, impietosita, avesse risparmiato Camilo. Perché nel nulla – o, almeno, molto lontana dall’obiettivo di quella “toma del poder” che Camilo aveva prospettato – è di fatto finita la storia dell’Ejercito de Liberación Nacional. E soprattutto perché, se rivisitata con il senno di poi, la sua scelta di aggregarsi alla lotta armata appare oggi, non solo come un fatale errore, ma come l’interruzione di un’esperienza politica molto più promettente e vitale. Camilo Torres era stato – prima di scegliere “las montañas” seguendo l’infatuazione “foquista” d’un gruppo di studenti guidati da Fabio Vásquez Castaño e Victor Medina – un intellettuale di alto rango ed un assai carismatico dirigente politico (una vera e propria “star”, si direbbe oggi, nel firmamento della sinistra colombiana dei primi anni ’60). E come tale aveva organizzato – attorno ad una piattaforma di 10 essenziali riforme – un Frente Unido che aveva smosso, agglutinando forze tra loro molto diverse, le acque torbide, stagnanti (ed assai spesso insanguinate) della politica nazionale. Un’esperienza che – sostengono da tempo molti analisti – Camilo troppo prematuramente sacrificò sugli altari d’una lotta armata destinata a divorare rapidamente se stessa.

 

Per quale ragione dunque, se così stanno le cose, il mito del “prete guerrigliero” è passato indenne attraverso i decenni? Meglio ancora: perché è nato, questo mito? Che cosa – a dispetto della sua morte subitanea e dei suoi errori – Camilo Torres Restrepo ha lasciato ai posteri? Che cosa resta di lui, quarant’anni dopo la sua scomparsa? Per rispondere bisogna partire, probabilmente, proprio da “padre Camilo”, dal Camilo prete. O, se si preferisce, dal Camilo Torres del “Messaggio ai cristiani” che precedette di qualche settimana la definitiva scelta della lotta armata. E che, ancor oggi – nonostante l’acqua (molta e non tutta limpida) passata sotto i ponti delle speranze rivoluzionarie degli anni ’60, racchiude in sé il valore non immutato, ma permanente, universale della sua esperienza, la realtà d’un problema irrisolto, d’una ferita aperta, oltre le vittorie e le sconfitte degli anni che sono seguiti. “Il punto fondamentale del cattolicesimo – scriveva in quel messaggio Camilo Torres – è l’amore…E questo amore, per essere vero, deve essere effettivo. Se la beneficenza, l’elemosina, le poche scuole gratuite, le poche case in costruzione non bastano per dar da mangiare alla maggioranza degli affamati, né a vestire la maggioranza degli ignudi, ad insegnare alla maggioranza di coloro che vivono nell’ignoranza, dobbiamo cercare mezzi effettivi…”.

 

La Colombia cristiana alla quale Camilo Torres si rivolgeva era quella che, sotto il ferreo controllo della sua oligarchia (un centinaio di famiglie padrone della terra e del potere), ancora viveva nei postumi de “La Violencia”. Ovvero: all’ombra del lungo violentissimo periodo di caos che, dopo il 1948, aveva fatto seguito all’assassinio, a Bogotá, del leader liberale (ed idolo dei diseredati) Jorge Eliécer Gaitán. Un bagno di sangue dal quale il paese era uscito, o meglio, al quale s’era infine adattato, riassestando gli equilibri tra le fazioni liberale e conservatrice, prima attraverso la dittatura militare del generale Gustavo Rojas Pinilla e, quindi, blindando il paese – il cui regime costituzionale mai aveva davvero coinvolto, o anche soltanto sfiorato, le masse rurali ed il proletariato urbano – all’interno di quel simulacro di democrazia che fu, fino alla metà degli anni ’70, il cosiddetto Frente Nacional, un accordo che, attraverso una simulazione di processo elettorale, prevedeva l’alternanza al governo tra conservatori e liberali. O, più esattamente: che ripristinava, a Bogotà, una pace formale tra i due partiti storici, mentre, nelle campagne, la Guardia Rural e l’esercito continuavano, al servizio dei latifondisti, la sanguinosa repressione della ribellione dei contadini poveri.

 

Camilo – che di quella oligarchia era, per molti aspetti, un figlio privilegiato – era partito proprio da qui. Perché era stato proprio nel contatto con l’ingiustizia che, dopo una gioventù dorata, aveva scoperto la fede, essenzialmente intesa come, per l’appunto, testimonianza d’amore verso il prossimo. E perché era stato proprio all’eredità de La Violencia che – terminato il seminario e gli studi all’Università Cattolica di Louvain, in Belgio – aveva prevalentemente dedicato i suoi studi. Giungendo infine a conclusioni che, presentate al Congresso Nazionale di Sociologia del 1963, avevano sconvolto la comune interpretazione d’un periodo storico fino ad allora da tutti giudicato come una “tenebrosa parentesi” nella storia nazionale. A dispetto di tutti i suoi orrori, ed a dispetto delle orribili cause che l’hanno generata – aveva sostenuto Camilo Torres – la Violencia è stata anche un periodo di risveglio sociale delle masse contadine. Ed è proprio da questo risveglio – e dalle forme d’organizzazione civile e di resistenza armata cresciute nelle tenebre della repressione e del caos – che la Colombia deve partire per rinnovare se stessa, riempiendo infine il guscio vuoto della sua democrazia, e risolvendo il più grande ed impellente dei suoi problemi: quello della povertà estrema e della estrema disuguaglianza sociale.

 

“Padre Camilo” – magnetica personalità e straordinaria facondia – era, in quegli anni, la punta di diamante culturale di un’università in pieno fermento, un idolo delle forze progressiste, nonché l’irrisolto incubo d’una gerarchia ecclesiale tra le più conservatrici del continente. Ed il suo Frente Unido – così chiamato in ovvia contrapposizione al Frente Nacional – era diventato, pur fra molte contraddizioni, un fattore imprescindibile della vita politica nazionale. Perché, alla fine, padre Camilo scelse la lotta armata? Perché divenne – da vivo per tre brevissimi mesi e, poi, per sempre – il “prete guerrigliero”?

 

La risposta più immediata è forse questa. Camilo Torres scelse la lotta armata, perché la lotta armata era, nella Colombia d’allora (ed anche in quella di oggi, per molti versi), un “fatto della vita”, una realtà quotidiana che – come lo stesso Camilo aveva analizzato nei suoi studi – viveva nella leggenda dei molti bandoleros che, nelle campagne, erano spesso riveriti eroi popolari. Uomini come Guadalupe Salcedo Unda, Eliseo Velásquez ed Eduardo Franco Isaza. O come quel Pedro Antonio Marín che, meglio noto sotto il nome di Manel “tirofijo” Marulanda, proprio allora, sull’onda della straordinaria epopea di Marquetalia – 20mila uomini dell’esercito beffati da una geniale manovra notturna – andava creando quello che ancor oggi (ed ancora sotto il suo comando) è il più forte, organizzato ed ortodosso (nel senso di filo-sovietico) gruppo della guerriglia comunista: le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas). E perché, dopo il successo della rivoluzione cubana, un fatto della vita – o, quantomeno, un ovvio elemento di dibattito – era, in tutta la sinistra universitaria latinoamericana, considerare la teoria guevariana dei cento “fuochi di guerriglia” come la più immediata delle ipotesi politiche. Camilo optò, infine, per quest’ultima strada, perché era quella a lui più contigua. E perché, contrariamente alle FARC di “Tirofijo” – per molti aspetti l’espressione più genuina ed immediata della logica di pura autodifesa dei contadini – l’ELN di Fabio Vásquez Castaño e Victor Medina contemplava la “presa del potere”; anzi, perché proprio per la presa del potere quell’organizzazione era venuta alla luce. E perché sembrava, per questo, indicare una luce in fondo al tunnel della lotta armata.

 

Molte cose – quasi tutte, in effetti – sono cambiate da allora. Non molto dopo la morte di Camilo – e molto prima d’esser diventato una seria minaccia per il potere costituito – L’ELN di Fabio Vásquez e Victor Medina si dissolse a causa di contrasti interni che, non di rado, assunsero la forma di violenti regolamenti di conti. Il tutto per riemergere più tardi (agli inizi degli anni ’80) sotto la guida d’un altro prete guerrigliero, Manuel Pérez Martínez (morto di malaria a Cuba nel 1998), nella zona del Nord-Est. Tremila uomini la sua forza. Poco per “prendere il potere”, ma abbastanza per minacciare (e ricattare) le imprese petrolifere della zona. Le FARC sono, nel frattempo, enormemente cresciute. E vantano oggi una quarantina di fronti che controllano quasi un quarto del territorio nazionale (ma, ovviamente, una fetta molto più piccola della popolazione). E molto difficile, ormai, è capire se si tratta ancora d’una forza politica d’autodifesa e di cambiamento, o soltanto d’una sorta di contropotere criminale. Gran parte degli introiti dell’organizzazione derivano dai commerci di droga e dalla pratica infame dei sequestri di persona. E, proprio per questo, la sua impopolarità è oggi, fuori dalle zone che controllano, enorme. Cinque anni fa, la vittoria del “duro” Alvaro Uribe nella corsa presidenziale rappresentò, in effetti, una sorta di referendum contro le FARC, sempre più additate – specie dopo il fallimento del processo di pacificazione avviato dal presidente Andrés Pastrana – come una “forza di guerra”…Molti gruppi – come i maoisti del EPL (Ejercito Popular del Liberación), sono nati e sono morti, Altri come il M-19 hanno scelto il disarmo dopo esser stati protagonisti di episodi clamorosi (il sequestro dell’ambasciata domenicana, nel 1980, e la presa del palazzo di giustizia di Bogotà, finita in un massacro, nel 1985). Ed ogni processo di pace ha fin qui avuto – in termini di vite umane – prezzi più alti della guerra (tra il 1985 ed il 1990, oltre 3000 militanti della Unión Patriotica, il braccio civile delle FARC che doveva preparare l’ingresso del gruppo guerrigliero nella vita civile, sono stati assassinati. Ed assassinati sono stati due candidati presidenziali – Jaime Pardo Leal e Carlos Pizarro – che preludevano alla partecipazione dei gruppi armati a quello che, con qualche macabra generosità, viene chiamato il “gioco democratico”.

 

Dovesse, per un miracoloso evento, tornare in vita oggi, padre Camilo non ritroverebbe nulla di ciò che aveva lasciato prima di quel suo ultimo, tragico viaggio verso le montagne di Santander. Nulla, tranne una cosa: il bisogno d’amore cristiano che, quarant’anni fa – proprio mentre a Roma si andava celebrando il Concilio Vaticano II – l’aveva spinto verso un rapido incontro con la morte. Nel suo “messaggio ai cristiani”, sul finire del 1965, Camilo Torres aveva rammentato un brano del Vangelo secondo Matteo. Quello che, parte del Discorso della Montagna, dice: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello, e poi torna ad offrire il tuo dono”.

 

Il “prete guerrigliero” era partito per questo. Per riconciliarsi con il fratello. Per dare da mangiare agli affamati e vestire gli ignudi, prima di offrire il suo dono all’altare. “Ho lasciato i privilegi ed i doveri del clero – aveva scritto nel suo messaggio – ma non ho cessato d’essere sacerdote. Mi sono consegnato alla rivoluzione per amore del prossimo. Per questo ho cessato di dire messa…Quando il mio prossimo non abbia nulla contro di me, quando la rivoluzione abbia realizzato i suoi obiettivi di giustizia, tornerò, se Dio me lo concede, a dire messa…”. Non v’è dubbio alcuno: Camilo Torres partirebbe ancora. Non per le montagne di Santander, forse, ma per uno dei molti luoghi della Colombia, o del pianeta Terra, dove è più che mai necessario, nel nome dell’amore cristiano, riconciliarsi con il fratello. Il “prete guerrigliero” morto nel giorno del suo primo combattimento, resta, in fondo, soprattutto questo: il cristianissimo simbolo della contraddizione tra carità e giustizia, tra pace ed eguaglianza. Ed è per questo che continua a vivere.

 

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