16 ottobre 2010
Per quasi 70 giorni, il “supershow” di San Josè di Cambiapó ha annullato, in Cile, tutte quelle differenze di censo e di pelle che, da sempre, scandiscono la vita del paese. Che si tratti di un miracolo non v’è dubbio alcuno. Ed anco più certo è che non durerà
Di Gabriella Saba
C’è una scena che riassume perfettamente lo spirito del post-rescate (o meglio della sua rappresentazione mediatica), ed è il colloquio – da donna a donna – tra la Primera Dama Cecilia Morel e Marta Salinas, da 28 anni legittima moglie del minatore infedele Johnny Barrios, dalla cui storia verrà tratta una telenovela. “Alla Moneda conosconono il mio problema e la Primera Dama ha detto che non era una cattiva decisione quella di non andare, di lasciare che vada lei (la sua nuova compagna) tranquillamente. Questo vuol dire amare”. Possibile, e anzi quasi commovente altrove, quel dialogo sembra del tutto surreale in Cile, Paese in cui la rigidissima e crudele divisione in classi-razze (gli appartenenti alle classi alte sono, infatti, sempre di razza bianca), rischia di far apparire quell’incontro, anziché emozionante, una tristissima, inverosimile performance destinata a sgonfiarsi non appena si spengano i riflettori. Quando questo avverrà, minatori e First Lady (e oltre a lei i distintissimi ministri delle Miniere Laurence Golborne e della Salute Jaime Mañalich che per due mesi si sono praticamente accampati nei pressi della miniera), torneranno alle loro vite normali che, salvo nuovi ed eccezionali episodi, sono destinate a non incontrarsi mai più.
Specularmente rispetto alla moglie, anche Sebastian Pinera ha abbracciato, uno per uno, Los 33, e li ha invitati a misurarsi, a football, contro i ragazzi del suo staff (tutti bianchicci, distintissimi, e soprattutto forniti di altisonanti cognomi europei), che a loro volta, essendo tutti cattolici, accetteranno volentieri quello sforzo di carità, ma non per questo diventeranno più buoni, o – nonostante le molte promesse, faranno leggi sulle miniere che non siano di pura facciata.
Se c’è un miracolo che l’incidente di Copiapó ha compiuto, è stato quello di dare il via a un incredibile show in cui ricchissimi e poverissimi, sfigati e privilegiati si sono ritrovati protagonisti dello stesso show, condividendo il medesimo palcoscenico. Un affratellamento che è possibile, in Cile, soltanto in presenza di tragedie o scampate tragedie come questa, e quando ci sono molti riflettori a immortalarle.
Un noto urbanista che si recò tempo fa in quel Paese dichiarò, infatti, dopo avere visitato la capitale, di avere visto poche città al mondo in cui gli spazi urbani fossero altrettanto segreganti. Le segregazione non era data da recinzioni e guardie armate come in alcuni quartieri di altre capitali latinoamericane (e il motivo è che Santiago è una città complessivamente sicura), ma dalla distribuzione dei gruppi sociali per ambiente urbano. In alto, arrampicati sulle Ande, ci sono infatti i quartieri dei miliardari, Lo Curro e La Dehesa, e a mano a mano che si scende descrescono sia la ricchezza sia i cognomi pomposi, fino ad arrivare alla ordinaria povertà del Centro e ancora, spostandosi verso la periferia, alla miseria di Pintana, San Bernando, Puente Alto.
Ogni zona ha i suoi spazi, i suoi punti di ritrovo, in cui gli altri non entrano. Gli abitanti dei quartieri alti si chiamano cuicos, e non c’è parola che non si senta ripetere più spesso in Cile. Essere cuico è un lasciapassare, nella vita e nel lavoro. Non c’è, ad esempio, andina dal corpo scultoreo e della bellezza esotica che possa eguagliare per i cileni l’appeal di una cuica slavata dal naso adunco e gli occhi scipiti (vale lo stesso per gli uomini, più sono scialbi e più rimorchiano). “Non sono loro, ma il mondo che rappresentano”, mi sono sentita dire più volte. “E’ il mondo dei vincitori”.
I cuicos studiano tutti nelle stesse scuole (carissime, in Cile le scuole pubbliche sono pessime), a botte di mille euro al mese per atenei come la Catolica e la Universidad de los Andes, in cui molti non cuicos si salassano per mandarvi a studiare i figli, nella speranza che si fidanzino un giorno con un cuico o una cuica e abbiano figli almeno mezzi cuicos e realizzino così quel salto sociale che di solito è quasi impossibile.
Va da sé che Sebastian Pinera è un cuico, così come la sua signora e tutti i membri del suo staff. L’establishment cileno, che sia di destra o di sinistra, salvo eccezioni è cuico.
Chi non è cuico avrebbe voluto esserlo, anche se si tratta di comunisti o di meticci affermati. Le sfumature del colore della pelle, indecifrabili per gli europei, sono fondamentali per i cileni che sono in grado di stabilire, a una prima occhiata, la percentuale di sangue “locale” di chi gli sta di fronte. Al furbo cileno non sfuggono dettagli fondamentali ai fini della collocazione sociale dell’interlocutore. “Non vedi che sono “negro”?”, mi ha detto una volta un amico, di famiglia umile ma diventato, con gli anni, un regista famoso ed ex mirista, che per quanto mi riguardava avrebbe potuto essere spagnolo o italiano, ma sicuramente bianco.
L’amico mirista ha confessato di essere sempre stato molto attratto dai cuicos, e che il colore della pelle è sempre stato per lui, come per chiunque in Cile non fosse rigorosamente bianco, un sottile e costante motivo di complessi. In questo senso il megashow per il rescate de Los 33 ha realizzato un sogno a cui i minatori, probabilmente, non aspiravano, consapevoli che si trattava, appunto, di un semplice spot, ma che ha appagato i desideri più emozionati e romantici di molti in quel Paese: il prevedibile mix di facile pathos e di retorica a uso interno, e di entusiasmo e commozione collettiva ha avuto come risultato la teatrale, emozionante messinscena in cui tutti si vogliono bene e si sentono uguali, si canta l’inno insieme e tutti ci credono sul serio, tanto dura un momento.