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Chávez, una vittoria che fa male

27 settembre 2010

di Massimo Cavallini

Hugo Chávez ha vinto. E gli ci vorrà qualche tempo, ora, per leccarsi le ferite di questa vittoria. Il senso delle elezioni parlamentari venezuelane, celebratesi questa domenica, è, in fondo, tutto racchiuso nel paradosso di questa molto ossimorica combinazione di frasi. Il PSUV, ovvero, il partito-stato creato dal presidente bolivariano a sua immagine e somiglianza nel 2006, ha conquistato una solida maggioranza – 95 seggi contro 62 – nell’Assemblea Nazionale, ma non ha alcuna ragione per celebrare questo “trionfo” (e, infatti, non lo ha celebrato, se non con qualche frase di circostanza). Perché? Per una serie di assai ovvie ragioni. La prima (e più ovvia) delle quali sta nel fatto che, grazie alla vittoria di domenica, il partito di Chávez perde il controllo assoluto di un potere legislativo fin qui ridotto ad una semplice (e spesso caricaturale) cassa risonanza della volontà politica del presidente. Salvo trucchi o forzature – elementi, questi, peraltro, nient’affatto estranei al suo stile di governo – Chávez non sarà, d’ora in poi, né in grado di far passare a comando le cosiddette “leggi organiche” (il non sempre incontaminato cibo di cui si è fin qui nutrita quella magmatica creatura che va sotto il nome di “socialismo del XXI” secolo), né di governare per decreto come ha fatto negli ultimi cinque anni. Seconda – ed altrettanto ovvia – ragione: perché al di là del numero dei seggi conquistato – ed artatamente rigonfiato da leggi ad hoc e da un’alquanto faziosa ridefinizione dei confini dei distretti elettorali – il voto rivela come, oggi, una metà del paese si opponga di fatto al sistema politico vigente, alla politica ed al culto della personalità  (la sua personalità, ovviamente) da Chávez instaurato in Venezuela. Al momento di scrivere questa breve nota ancora non si avevano ancora dati ufficiali sul voto globale. Ma qualche rappresentate del MUD, il cartello dell’opposizione, già aveva attribuito alla propria parte politica il 52 per cento del suffragio complessivo. Ed i risultati (questi sì già ufficiali) del voto per il Parlamento Interamericano davano cifre non troppo dissimili (46 a 45 in favore del PSUV). Un brutto segnale (brutto per Chávez) in vista delle presidenziali del 2012, dal presidente bolivariano programmate come una plebiscitaria riconferma d’un potere (il suo) destinato – ipse dixit – a durare “almeno fino al 2031”.

In sintesi: con il voto di domenica, Chávez – che aveva pronosticato la conquista di “almeno i due terzi dei seggi” – perde un’importante tessera nel mosaico del suo sistema di potere. Nel 2005 un’opposizione allo sbando (divisa ed in alcuni suoi settori attraversata da non placati sogni golpisti) aveva deciso di non partecipare ad elezioni che considerava (complessivamente a torto, anche se non senza qualche ragione) prive di adeguate garanzie d’imparzialità. Ed aveva in questo modo regalato a Chávez un parlamento che, eletto da appena il 25 per cento dell’elettorato, era a lui totalmente asservito (unica eccezione: la sparuta pattuglia dei deputati del partito “Podemos”, staccatosi dalla coalizione che aveva appoggiato Chávez). Il che aveva consentito al presidente bolivariano non solo di governare a suo piacimento, ma anche di superare l’inattesa sconfitta elettorale subita nel 2007, quando il “superferendum” destinato a sancire quella che Hugo Chávez aveva solennemente definito la “nuova geometria del potere” – ovvero, di nuovo, il suo potere – era stata battuta di strettissima misura nelle urne. Grazie al suo totale controllo del legislativo (e ad un nuovo referendum, questa volta limitato al punto della “rieleggibilità” del presidente) , Chávez aveva poi fatto passare ad uno ad uno tutti (o quasi) i provvedimenti bocciati dall’elettorato.

Che accadrà ora? Difficile dirlo. Le elezioni di domenica hanno dimostrato, anzi, confermato due cose tra loro in contraddizione. La prima: che il Venezuela, nonostante la molto ingombrate presenza d’un “capo supremo” che come tale si pensa e si comporta (non di rado con assai mussoliniani accenti) resta, a suo modo, una vibrante democrazia. In Venezuela si continua a votare ed il voto è davvero – grazie ad un sistema introdotto nel 1997 – a prova di frode (per quanto a prova di frode possa essere il processo elettorale in un paese nel quale gli arbitri del voto sono, nella quasi totalità, sotto il controllo del governo). La seconda: che in Venezuela questi elementi di vibrante democrazia si muovono in un contesto dove molto facile è annullarne (o renderne di fatto irrilevanti) gli effetti.  Del referendum del 2007, già si è detto. Ed è bene ricordarsi anche quel che accadde nel novembre del 2008 (e nei suoi postumi), quando in Venezuela si tennero le elezioni amministrative. Anche in quell’occasione Chávez vinse. Ma vinse perdendo (e perdendo male) in molte delle regioni chiave del paese. Tra le altre: nella megalopoli di Caracas, dove Antonio Ledezma, candidato dell’opposizione, vinse ampiamente la corsa per la poltrona di sindaco. Che fece Chávez dopo questa sconfitta? Semplicemente: abolì la carica di sindaco, sostituendola con un’altra – non elettiva – affidata ad persona di sua completa fiducia. Ledezma restò sindaco, padrone – in pratica – di un ufficio vuoto, senza poteri né fondi da amministrare.

Succederà, anche dopo questa “dolorosa vittoria”, qualcosa di simile? Stiamo a vedere. In Venezuela si è aperta una fase politica nuova. E tutta da seguire…

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