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Un Nobel “a credito”

9 ottobre 2009

 

Di Massimo Cavallini

 

“Wow!”. Il primissimo commento della Casa Bianca, prevedibilmente affidato al suo portavoce – un Robert Gibbs ancora non del tutto rimesso in sesto dal primo caffè – non è andato oltre questa parola di tre lettere, ormai divenuta, grazie al globale predominio dell’idioma anglo-americano, una sorta di universale espressione di sorpresa e meraviglia. Wow!, come “che bello!”. Wow! come “chi l’avrebbe mai detto!”. O, più probabilmente, wow! soprattutto come:  “e adesso?”.

Non v’è dubbio alcuno: la notizia dell’assegnazione del premio Nobel per la Pace a Barack Obama è arrivata alla sua prima destinazione – al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington D.C. – quando ancora era notte fonda. Ed è stata accolta come in più o meno in ogni altro angolo del globo terracqueo. Ovvero: come qualcosa di del tutto inatteso, sbalorditivo e, nel contempo, carico di domande. O, se si preferisce, come un messaggio tutto da interpretare. Perché proprio a lui? Perché consegnare ad un presidente che sta combattendo due guerre e che vanta solo otto mesi di governo, un premio che, di norma, rappresenta il riconoscimento d’un ‘intera esistenza dedicata alla pace o, quantomeno, un premio – ed il pensiero corre subito a Henry Kissinger, grande architetto di golpe militari nel mondo, premiato per  la fine della guerra in Vietnam – per quanti un concreto obiettivo di pace hanno concretamente (seppur ambiguamente) contribuito a raggiungere?  La motivazione ufficiale – giunta assieme alla notizia, appare, a questo proposito, molto precisa e, insieme, molto vaga. Barack Obama, fa sapere il Comitato, è stato premiato per “il suo straordinario sforzo nel rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli”. Ed il pensiero è subito corso ai due discorsi che, in questo anno del Signore 2009, più hanno marcato il “nuovo inizio” della politica internazionale di Barack Obama. Quello del Cairo, dedicato alle relazioni con l’Islam. E quello di Praga, dedicato alla prospettiva d’un pianeta finalmente liberato, in ogni suo anfratto, dalla minaccia delle armi nucleari.

Due bei discorsi, certo. Ma anche, allo stato delle cose, soltanto due discorsi. O soltanto due speranze. E proprio qui, forse, sta la vera risposta ai molti quesiti sollevati dalla notizia giunta dalla Norvegia. Questo premio – che in qualche misura è sempre stato assegnato a qualcosa che dovrebbe essere, ma non è – è stato, in realtà, quest’anno, deposto tra le braccia d’una speranza. E questa speranza – che per ora, volendo riprendere le parole della Commissione di Oslo, non è che l’evanescente realtà di “un nuovo clima nelle relazioni internazionali” – è a sua volta affidata all’eloquenza ed al fascino personale del primo presidente nero d’una grande democrazia (la più grande e potente democrazia del mondo) fin dalla sua fondazione in lotta con i suoi due più ovvi peccati originali: il razzismo e la diseguaglianza. Sulla speranza – o meglio sulla “audacia della speranza” incarnata dalla sua personale esperienza e dalla sua capacità di trasmettere la visione di nuovi orizzonti – Barack Obama ha notoriamente fondato la sua ascesa al potere. Questa è stata (ed è) la sua forza. Questa è stata (ed è) la sua debolezza. Ed a questa forza-debolezza è stato, in effetti, riconosciuto il Nobel per la Pace. Ad una forza che genera grandi speranze e grandi attese che, forse, altro non sono che l’anticamera di altrettanto grandi delusioni. Più che ad un riconoscimento, insomma, questo premio assomiglia ad una scommessa. Una nobile scommessa. Ma pur sempre una scommessa che, ancora, viaggia in una sorta di terra di nessuno.

Obama, fanno notare molti, ha fin qui mantenuto con molto pragmatica lentezza – e senza un vero progetto di pace – la promessa di ritirare le truppe dall’Iraq (la guerra di Bush che “mai avrebbe dovuto cominciare”). E continua a combattere, in Afghanistan, alla ricerca di una “nuova strategia” ancora tutta da definire, quella che ha sempre definito una “guerra giusta”. Ma possono esistere, per un Nobel della Pace, “guerre giuste”? E, ancora: Obama aveva promesso di cancellare, entro gennaio, la vergogna di Guantánamo, ma non è affatto certo che lo farà nei tempi previsti. Qualcuno, anzi, già dubita che lo farà del tutto. Non poche, del resto, sono nel frattempo state le norme di sicurezza e segretezza emanate dalla coppia Bush-Cheney – virtuali vincitori di tutti i Nobel per la Guerra fin qui mai assegnati – da Obama confermate nel nome della “lotta al terrorismo”. In America Latina, il nuovo presidente ha di recente rotto con un’antica e tutt’altro che nobile tradizione, negando ogni appoggio ai golpisti honduregni, ma ancora, al di là di qualche piccolo e timido passo, non ha delineato – a partire dall’anacronistica vergogna dell’embargo contro Cuba – una nuova politica nei confronti di quello che fu (e che non può continuare ad essere) il “cortile di casa” degli Stati Uniti.

Come andrà a finire? La commissione del Nobel, ieri, ci ha detto che, a suo avviso, esistono tutte le premesse (il “nuovo clima” di cui sopra) per un esito positivo o, se si preferisce, per una nuova stagione di “cooperazione e di pace” contrapposta a quella delle “guerre preventive ed infinite” che marcarono gli anni di Bush. E Barack Obama, che dice? “Ho ricevuto la notizia di questo premio con sorpresa ed umiltà” ha detto ieri mattina il presidente, in una breve dichiarazione nei giardini della Casa Bianca. Ed ha, nel proseguire il suo discorso, in qualche modo confermato le ragioni per quali il premio – un “premio che sono certo di non meritare e che considero più un invito all’azione che un riconoscimento di merito che non ho” – gli è stato assegnato. Con rapidi, eloquenti tratti, Obama è tornato da par suo a tracciare i confini di un mondo  finalmente libero dagli orrori della violenza, della guerra, della fame e delle malattie. Un mondo che certo “non sarà raggiungibile nel corso della mia presidenza e, forse, neppure nel corso della mia vita”, ha detto. Ma per il quale, ha aggiunto, anche in virtù di questo premio “sottratto a uomini e donne che per la pace hanno fatto molto più di me, ispirando la mia vita”, abbiamo comunque l’obbligo morale di batterci…

Soltanto parole? O qualcosa di più? Il passato non sembra offrire, in questo senso, indicazioni particolarmente confortanti. Il premio Nobel andò, nel 1906, per avere favorito la fine della guerra tra Russia e Giappone, a Theodore Roosevelt, il presidente che “parlando con dolcezza, ma stringendo in pungo un grande bastone” ha per molti versi – volendo semplificare una storia molto complessa – inventato l’imperialismo americano. E poi a Woodrow Wilson, nel 1919, per aver creato quella Lega delle Nazioni che, in teoria, doveva per sempre chiudere, in un mondo devastato dalla Grande Guerra, il tempo dei conflitti internazionali (fu proprio Wilson a definire la Prima Guerra Mondiale “la guerra che doveva finire tutte le guerre”). E tutti sanno com’è andata a finire. Jimmy Carter – la cui presidenza, tra il ’76 e l’80 viene molto ingiustamente definita,dai fanatici della potenza Usa, come “fallimentare” – il premio lo vinse da privato cittadino, dopo 20 anni di mediazioni internazionali che hanno spinto molti a definirlo “il miglior ex-presidente della storia degli Stati Uniti”.

E all’interno degli Usa? Che significa, nei rapporti di forza e negli atteggiamenti politici, l’arrivo di questo Nobel? Il partito repubblicano ha accolto la notizia con non dissimulata irritazione, ostentatamente evitando (“come i talebani ed Hamas”, hanno fatto polemicamente notare i democratici) ogni forma di protocollare “congratulazione” al presidente. E per la destra estrema – quella con la quale il partito repubblicano sconfitto a novembre va sempre più istericamente identificandosi – non si tratta, in fondo, che di un’allarmante conferma. Il mondo non è, per questa destra – che il luogo d’un gigantesco  complotto contro i “valori americani”, minacciati da “socialismi” di varia natura, dagli immigranti, dall’invadenza delle Nazioni Unite  e da ogni forma di diversità interna o internazionale. Il Nobel per la Pace non è, per quest’America, oggi più che mai impaurita ed aggressiva, che l’ultimo malefico trucco di un presidente “africano” deciso a spogliarli di tutto quello che hanno. Ed anche di quello che – come il diritto alla salute – mai hanno avuto. Da Oslo, è arrivato ad Obama un messaggio che, pieno di speranza, chiede all’America di guidare nel mondo la lotta contro la guerra. Ma, dentro l’America, c’è un America che odia il mondo. E che la sua  guerra contro Obama è decisa a continuarla  senza sosta. Meglio incrociare le dita…

 

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