8 settembre 2009
Di Massimo Cavallini
Qualcuno, tra i meno giovani, forse ricorderà l’antico slogan – antico forse ancor più dell’oggetto di quest’articolo – che, in un mitico “Carosello”, propagandava i benefici dell’acqua minerale Fiuggi: “Vergognati – diceva quella vetusta reclame, rivolgendosi ad un corpulento personaggio che, della miracolosa acqua, ovviamente, mai aveva fatto uso -: hai quarant’anni e ne dimostri il doppio”. Orbene, sull’onda di questo piuttosto bizzarro ma, a suo modo, tortuosamente pertinente ricordo, viene da chiedersi: quale età dimostra – oggi, nel giorno del suo quarantesimo compleanno – quello che, a suo tempo, organizzatori tutt’altro che parchi di parole battezzarono “The Woodstock Music and Art Fair. Three Days of Peace and Music. An Aquarian Exposition”? E queste, si trattasse d’un quiz, sarebbero le tre possibili risposte:
a) un’età doppia, come nel caso del ciccione della pubblicità,
b) la metà dell’età reale, come nel caso dell’ arzilla antitesi del ciccione (il fustaccio che beveva acqua Fiuggi e giocava a tennis), o
c) nessuna età.
La risposta esatta è, naturalmente: c) nessuna età. O, se si preferisce, a), b) e c), tutte e tre le cose contemporaneamente. Perché proprio questo, rivisitata quarant’anni dopo, appare in effetti la grande adunata di Woodstock: un evento fuori dal tempo e, insieme, tanto incastonato nel suo tempo da rappresentarne, senza soluzione di continuità logica, l’inizio, l’apogeo e la fine. Più in concreto – ed abbandonando ogni stravagante memoria di vecchi caroselli – Woodstock torna a proporsi oggi, quattro decenni dopo, così come si propose quando, la sera del 17 agosto, chiuse i suoi battenti su un tratto di campagna trasformato “in un fangoso letamaio” (così, il giorno dopo, lo definì, con ampio supporto fotografico, il Daily News): come un avvenimento racchiuso in se stesso, irripetibile (tanto che tutti i propositi di riorganizzarlo sono regolarmente finiti nel nulla, anniversario dopo anniversario) e, per molti aspetti, incomprensibile. Ma anche, nel contempo, come un’idea, un miraggio, un’inafferrabile sensazione capace – proprio perché inafferrabile – di riprodursi “di qui all’eternità”, senza età e senza riconoscibili contrassegni politici o storici. Come un classico sogno che, proverbialmente morto all’alba, sempre è pronto a ritornare (magari sotto forma di incubo).
Il caos, l’assenza d’ordine che diventa ordine perché il disordine diventa regola, legge. E perché i codici di quella legge si riducono ad un unico, chiarissimo articolo: “Vietato vietare”. Per tre giorni e tre notti, nelle campagne della contea di Sullivan, nello Stato di New York, questa legge che cancella ogni legge, ha funzionato. O quasi funzionato. O funzionato quanto basta per consolidarsi, per l’appunto, in un ricordo idealizzato del suo tempo. E, quindi, anche oltre il tempo ed oltre la più che ovvia domanda – “quale cultura può nascere da questo tipo di confusione?” – che il New York Times si pose allora in un editoriale. Questo è stato – e continua ad essere – Woodstock. Un inafferrabile lampo di edonistica utopia. E, come tale, è oggi molto più facile rievocarlo per quello che “non” fu, che per quello che fu. Tanto per cominciare, infatti, Woodstock, non fu Woodstock. O, almeno, non fu “a” Woodstock. Dopo una lunga serie di permessi negati, concessi ma poi ritirati per la (non del tutto paranoica) paura di una barbarica invasione di giovinastri drogati, il festival venne in realtà frettolosamente organizzato nei 600 acri della fattoria d’un tal Max Yasgur, nei dintorni della cittadina di Bethel, circa settanta miglia (un centinaio e passa di chilometri) dalla città che gli ha dato nome. Woodstock doveva, nelle intenzioni dei suoi due organizzatori – Michael Lang e Artie Kornfeld -, essere l’inizio d’una classica e profittevole iniziativa d’imprenditoria musicale. Ovvero: del la Woodstock Ventures Incorporated ,nata per allestire uno studio di registrazione nel cuore d’una cittadina divenuta, fin dall’inizio del secolo, luogo di residenza d’una molto vitale comunità artistica. Pittori (la cosiddetta “scuola dell’Hudson” è nata qui), scrittori e, da qualche anno, anche nascenti star di quella “controcultura” musicale che Woodstock (il festival in preparazione) si riprometteva prima di celebrare e, quindi, di commercializzare . Ed Sander di “The Fugs”, Paul Butterfield , Van Morrison e Bob Dylan avevano trovato casa da quelle parti. E Jimi Hendrix era, agli inizi del ’69, andato ad abitare, poco lontano, a Shokan. Una miniera da mettere a frutto.
“Young men with unlimited capital, looking for interesting and legitimate enterprises”. Giovani con capitale illimitato, pronti ad investire in imprese interessanti e legali. Così Lang e Kornfeld – il primo un 23enne bottegaio di Miami divenuto impresario musicale, il secondo 26enne executive della Capitol Records – avevano presentato se stessi in un annuncio su New York Times. E questa era la loro idea: sfruttare il recente successo dei festival musicali all’aria aperta, organizzando un concerto di tre giorni, dal quale ricavare i fondi per il lancio d’una nuova impresa discografica particolarmente dedicata alla “nuova musica”. Il titolo dell’iniziativa – The Woodstock Music and Art Fair – era stato architettato per apparire più allettante agli occhi delle autorità locali. O meglio: per oscurare, a vantaggio d’una più moderata ed acculturata immagine, l’idea d’una anarchicheggiante congrega di hippies carichi d’erbe assortite e d’allucinogeni. Lang aveva quindi, da par suo, molto insistito per aggiungere – accanto ai canonici “tre giorni di pace e musica” – anche quel misterioso’ “Aquarian Exposition”, un riferimento zodiacale al musical “Hair” a suo dire destinato ad accrescere l’appeal dell’incontro. Pubblico previsto: 50mila persone. Tanti quanti i biglietti che – a dimostrazione della grande attesa – Lang e Kornfeld avevano pre-venduto tra giugno e luglio.
Ma le cose erano poi andate diversamente. Quando mancava meno d’un mese al concerto, il consiglio comunale di Wallkill – cittadina al lato di Woodstock nella quale si trovava l’area originalmente prescelta – aveva rifiutato il permesso. Ed un’affannosa ricerca – diventata oggetto d’un film di Ang Lee, “Taking Woodstock”, proprio in questi giorni al debutto nelle sale cinematografiche Usa – aveva spostato il tutto molto più a nord, in quel di Bethel, nei prati che, fino ad allora, erano stati incontrastato regno delle 70 vacche da latte di Max Yasgur . Prati che, il 15 agosto, vennero invasi da 400/450mila persone (qualcuno dice un milione), per lo più sfuggite a piedi al più grande ingorgo stradale della storia dei trasporti negli Stati Uniti d’America. C’erano in pratica tutti, come amaramente commentò Artie Kernfeld, in quel caldo giorno d’agosto. Tutti, tranne quelli che avevano pre-comprato l’entrata e che erano perlopiù rimasti, biglietti alla mano, imbottigliati in una colonna d’auto (auto in gran parte abbandonate e, quindi, inamovibili) lunga 35 chilometri . La folla ruppe, quel giorno, ogni barriera ed ogni controllo, a preludio di quello che fu, per Lang , Kornfeld e per la “Hog Farm” di San Francisco, la cooperativa chiamata a sfamare i presenti, un completa waterloo finanziaria (poi ampiamente mitigata,almeno per i primi due, dagli introiti per i diritti sul documentario distribuito l’anno successivo).
Woodstock fu certo folla. E di musica, a quella folla, il festival ne regalò in quantità industriale. Ma Woodstock non fu affatto un “grande concerto”. Fu, anzi, da un punto di vista musicale, un autentico disastro. “Quelli che oggi esaltano la qualità di Woodstock – disse un anno più tardi Barry Melton, chitarrista della Country Joe and the Fish – sono quelli che quella musica non l’hanno ascoltata, o quelli che, di Woodstock, hanno visto soltanto il film. Suonare decentemente era, in quel contesto, praticamente impossibile”. Ed ancor più drastica fu, quando ancora Woodstock era in corso, l’opinione di Jerry Garcia, mitico leader dei Grateful Dead: “È stata un’esperienza orribile. Suonare a Woodstock non mi è piaciuto affatto. Impossibile relazionarsi con mezzo milione di persone che si fanno i cavoli loro. L’unica consolazione è stata questa: pensare che potevi tranquillamente cannare il concerto della tua vita senza che nessuno ci facesse caso…”.
Woodstock non fu, neppure, una manifestazione di protesta. Abbie Hoffman – uno dei leader della mobilitazione contro la guerra in Vietnam ed uno dei “Chicago 8” che l’anno dopo sarebbero stati processati per gli incidenti alla convenzione democratica del ’68 – lo apprese a sue spese quando, in un intervallo del concerto dei “The Who”, cercò come si dice, di buttarla in politica. “Io credo – disse afferrando il microfono – che tutto questo sia una montagna di merda, mentre John Sinclair (il poeta leader delle White Panthers, proprio in quei giorni arrestato per possesso di marijuana n.d.r.) marcisce in carcere..”. Alla faccia dei “tre giorni di pace”, Pete Thowshend, il chitarrista del gruppo, usò, si dice, lo strumento che impugnava per cacciarlo a bastonate dal palco (anche se, nel suo libro “Woodstock Nation”, pubblicato due anni dopo, Hoffman dà una versione molto più “soft” dell’accaduto).
Woodstock, di certo, non fu sole. Fu, piuttosto, acqua e fango, una sorta di quasi-apocalisse meteorologica che – gli organizzatori lo confessarono a festival concluso – rischiò di trasformarsi in una elettrocuzione di massa, a causa dei cavi elettrici scoperti di molti dei generatori che circondavano il palco. Woodstock fu libera, incontrollata ricerca del piacere, un’autentica “esplosione di edonismo”. E fu, per questo, droga. Molta droga, droga per tutti, droga di tutti i tipi. Droga venduta e consumata, droga regalata, droga vissuta, droga sperimentata. Nel suo libro “Back to the Garden: the Story of Woodstock”, pubblicato lo scorso giugno, Pete Fornatale ricorda come gli altoparlanti del festival, spesso coprendo la musica, segnalassero i luoghi dove i vari tipi di stupefacenti erano più facilmente disponibili, talora avvertendo sulla circolazione di “brown sugar di cattiva qualità”: “qui ciascuno è padrone della propria vita, ma il nostro consiglio è: evitatene l’uso…”. Alla fine non ci fu che un morto per overdose. Quasi un miracolo.
Che cosa rimase, di tutto questo, la notte del 17 agosto? E che cosa, di quel che è rimasto allora, è ancora vivo oggi? Tutto e nulla. Restò (e resta) l’idea di quei tre, irripetibili giorno di libertà senza confini. Un’idea che è, quasi da subito, diventata leggenda. Resta la sensazione di qualcosa che, in quei tre giorni, è cominciato, è esploso ed è finito, come consumandosi in se stesso. Resta la droga con tutti i suoi tragici e continuati effetti. Resta l’ambiguità della storia. Solo qualche settimana dopo, il movimento hippie – quell’indefinita ed indefinibile galassia che fu il movimento hippie – fu messo di fronte al suo lato oscuro, alla violenza che covava sotto le sue ceneri ormai spente. Di fronte a Charles Manson ed all’orrore dell’omicidio di Sharon Tate. Di fronte all’impossibilità di qualsivoglia replica. A dicembre, nel nord California, nei pressi della Altamont Freeway, quella che era stata preannunciata come “Woodstock West”, naufragò nella violenza: quattro morti ammazzati, più di ottocento feriti provocati dalla sovreccitazione della folla e dalle violenze dei famigerati “Hell’s Angels”, ai quali i Rolling Stones avevano affidato, pagandoli in birra, i compiti di servizio d’ordine.
Questo e che altro? Qual’è, oltre l’idea, la vera, la più duratura e solida eredità di Woodstock? Nel concludere la sua analisi di quei tre indimenticabili giorni di “pace e musica”, Rob Kikpatrick fa notare – nel suo “1969, the Year Everything Changed”, uscito a febbraio – quella che evidentemente considera una non casuale coincidenza. Nel 1969, poco dopo la fine della “Aquarian Exposition” di Bethel, veniva, in quel di San Francisco, fondata “Gap” – gap come “generational gap” – l’impresa che assegnava a se stessa il compito di vestire la controcultura. “Mentre tutti andavano interrogandosi sul più recondito significato di quel concerto di massa – scrive Kirkpatrick – in quel di Madison Avenue (la via di Manhattan dove si concentrano le più grandi compagnie di marketing n.d.r.), andavano prendendo appunti e facendo calcoli…”. E chissà che le cose non stiano, molto prosaicamente, proprio così. Quello che è nato a Woodstock – e che a Woodstock non è affatto morto quando le luci si sono spente – è in fondo soltanto questo: un nuovo tipo di consumatore. Ma il discorso si fa, a questo punto, troppo complesso. Meglio fermarsi alla nostalgia di quel ricordo che, oggi, ha quarant’anni d’età. Ma che, a dispetto del tempo, di età non ne dimostra alcuna…