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Via col vento a New Orleans

Delle 354.000 persone – al 75 per cento nere e povere – spazzate via dall’uragano Katrina, almeno l’80 per cento non potrà tornare a casa. La capitale mondiale del jazz si appresta a diventare una città bianca. In un’America dove la differenza tra ricchi e poveri va drammaticamente allargandosi a discapito di quella che molti considerano la vera linfa della democrazia: la classe media

20 agosto 2006

 

di Massimo Cavallini

 

Cinque mesi or sono, quando con tutt’altro che improvvisa furia investì la città di New Orleans, l’uragano Katrina non si limitò a scoperchiare case e ad inondare quartieri. Di quelle case e di quei quartieri rivelò piuttosto – o “portò a galla”, come con appropriatissima metafora scrissero in molti – il miserabile e dolente contenuto umano, la tragica e nient’affatto naturale realtà di un’America povera e dimenticata, molto antecedente alla tragedia scatenata dalla natura. Qualcuno, in vena di paradossi, giunse ad affermare che quell’inferno di vento e di pioggia aveva infine risposto – proprio qui, in una terra rimasta “eccezionalmente” sorda al richiamo d’ogni forma di socialismo – al celeberrimo appello con cui, oltre un secolo e mezzo fa, Karl Marx aveva chiuso il Manifesto del Partito Comunista. Proletari di tutto il mondo, unitevi. Non per liberare il mondo dalle catene dell’ingiustizia, ma quantomeno per mostrare voi stessi al mondo, finalmente visibili in una città che, incastonata lungo le coste del più ricco paese del pianeta, si supponeva completamente evacuata. Morti galleggianti sulle acque putride, corpi vivi abbarbicati sui tetti, o stipati come sardine all’interno del SuperDome. Gente povera che tutto aveva perduto pur non possedendo niente. Anime disperate riemerse all’improvviso – come nel film Metropolis – da un mondo sotterraneo, sconosciuto e feroce…

Questo s’era visto a fine agosto a New Orleans. E molti erano stati gli indignati accenti. Molte le promesse. Tutti, o quasi, avevano sottolineato come, scossa da quelle immagini di miseria e di morte, l’America avesse finalmente riscoperto – e riscoperto per affrontarlo – il problema della povertà. Dopo molti giorni di latitanza, George W. Bush aveva interrotto le sue vacanze nel ranch di Crawford. E, nel mezzo d’una debacle politico-sociale senza precedenti, aveva frettolosamente disseppellito la bandiera di “compassionate conservative”, conservatore solidale, sventolata durante la campagna elettorale dell’anno 2000. Ma era stata infine la sua famosa mamma – quella Barbara Bush che molti avevano, prima d’allora, considerato una fonte di pacata e casalinga saggezza – l‘autorevole voce che, con una battuta degna di Maria Antonietta (e con la spesso atroce forza della comicità involontaria), più d’ogni altra aveva alla fine aiutato l’America a guardarsi nello specchio della propria vergogna. Quelli che sono qui – aveva detto in sostanza l’ex first lady riferendosi ai rifugiati dell’uragano Katrina ammassati come animali nello stadio coperto di Houston – erano dei poveracci anche prima. E, dunque, quel che stanno ricevendo ora è tutto, per loro, grasso che cola…

La commozione e l’indignazione – anche quelle originate dal candido disprezzo testimoniato dalla matriarca della dinastia presidenziale – non erano però durate a lungo. Non abbastanza, in ogni caso, per sopravvivere alla pratica definizione della politica di ricostruzione. Uno studio elaborato dalla Brown University ha nei giorni scorsi, disegnato, in cifre ed in prospettiva, la prima credibile mappa del disastro. Delle 354.000 persone che vivevano nei quartieri (parish) di New Orleans più danneggiati dall’inondazione, s’apprende, il 75 per cento erano neri. Quasi tutti vantavano redditi appartenenti alla parte bassa della scala economica americana, ed il 29 per cento viveva al di sotto della cosiddetta “linea di povertà” (19.000 dollari all’anno, circa, per una famiglia di 4 persone). Il 10 per cento era disoccupato. E – quel che più conta – del tutto ovvio appare il fatto che, in assenza di specifici interventi di cui non traspare traccia alcuna, almeno l’80 per cento di questi sfollati non tornerà mai più a vivere a New Orleans. Perché le loro case – cosa non sorprendente trattandosi di poveri – erano state costruite in zone troppo esposte ai pericoli di inondazione. O, più semplicemente, perché, dovunque si trovassero prima del disastro le loro case, e dovunque queste ultime si troveranno dopo la ricostruzione, nessuno, tra loro, ha alcuna possibilità di affrontare le spese connesse al ritorno.

Conclusioni: New Orleans che, prima di Katrina, era una città di 484.000 abitanti prevalentemente nera – anzi, che, nera al 70 per cento, della “negritudine” americana era un vero e proprio simbolo – diventerà una città di 140.000 abitanti prevalentemente bianchi. Dieci giorni prima che lo studio – condotto dal professor John R. Logan e finanziato dalla National Science Foundation – venisse consegnato alle stampe, il sindaco nero di New Orleans, C. Ray Nagin, aveva solennemente affermato: “Questa città resterà a maggioranza afro-americana. Questo è il suo destino. Ed è così che la vuole Dio…”. Si sbagliava. Si sbagliava Nagin, ed aveva (ha) ragione il Wall Street Journal che, in un editoriale, aveva propugnato, senza alcun bisogno d’interpellare il Padreterno, una ricostruzione “molto selettiva della città”. Per evitare nuove tragedie rinunciando a costruire laddove mai si sarebbe dovuto costruire prima. E, ancor più, ricostruendo secondo le inappellabili “leggi di mercato”. Dopotutto, anche questo è un modo per risolvere il problema dei poveri tanto impietosamente rivelato dall’uragano: lasciare che si disperdano nel vento della tragedia. Lasciare che tornino invisibili perché disseminati, come ha voluto la furia cieca della natura, in ogni angolo d’un paese gigantesco. Svaniti, evaporati come l’indignazione che aveva accompagnato il loro riaffiorare dalle acque…

Qualcuno, prima che la commozione si dileguasse, aveva anche cercato d’inquadrare storicamente questa “riscoperta” della povertà. Ed inevitabili erano stati i richiami al “New Deal” di Franklin Delano Roseevelt e, ancor più, alla “Great Society” di Lyndon B. Johnson, ultimo organico tentativo di affrontare di petto, una volta per tutte, il problema di quella che, nel 1962, un saggio di Michael Harrington – divenuto un classico della sociologia – aveva definito “The Other America”, l’altra America. Johnson ed i suoi più stretti collaboratori avevano una speranza – o meglio, un’illusione – ed una certezza. L’illusione era quella di poter gettare le basi per la definitiva sconfitta della povertà (e del razzismo, che in America, della povertà è l’altra faccia) entro gli anni ’80. E la certezza – ispirata ad un altro classico, “The Affluent Society”, scritto da John Kenneth Galbraight nel 1958 – era che non vi fosse che una via per superare la piaga dell’indigenza: togliere ai ricchi d’una società ricchissima e diseguale, per dare ai poveri.

Furono tuttavia proprio gli anni ’80, con l’avvento al potere di Ronald Reagan, a vedere in realtà la fine, non della povertà, bensì dell’ancor assai incompiuta “guerra alla povertà” lanciata meno di due decenni prima. La sentenza della destra repubblicana, arrivata alla Casa Bianca con “rivoluzionari” propositi, era stata senza appello. La “Great Society” – questo era, e resta, uno dei concetti base della cosiddetta “reaganomics” – non solo non ha vinto la sua battaglia, ma ha finito per “istituzionalizzare” la povertà. Ovvero: altro non ha fatto che creare un dispendioso apparato burocratico federale il cui effetto non è stato quello d’abolire, ma quello di riprodurre e “cronicizzare” l’indigenza. Più ancora: quello di trasformare la povertà in dipendenza dallo Stato. Sicché era ormai tempo di passare dalla logica assistenziale di quei provvedimenti, a quella del “trickle down”. Date a ricchi e la marea dello sviluppo economico, finalmente liberata dalle catene dello statalismo, finirà per “sollevare tutte le barche” (e qualcosa del genere è, fuor di metafora, davvero successo a New Orleans. Peccato che i poveri si siano, per l’occasione, fatti sorprendere senza barca).

Di questo l’America – compresa quella che, nel 1992, portò alla presidenza Bill Clinton – finì per convincersi. Eppure le cifre parlano ben altro linguaggio. Con tutti i suoi limiti e con tutti i suoi difetti, l’incompiuta “guerra” di Lyndon Johnson ha, in realtà, vinto molte battaglie. L’indice di povertà, che era del 19 per cento nel 1964 s’è abbassato fino all’11 per cento nell’anno 2000 (ultimo del regno di Bill Clinton). Ed ancora più eclatanti appaiono i risultati se ci si limita a considerare l’America nera. Gli afro-americani al di sotto dell’indice di indigenza erano, nel 1959, primo anno nel quale queste statistiche sono state raccolte, pari al 55 per cento del totale. E già nel 1966 – un anno dopo il lancio della “Grande Società” – questa percentuale era calata al 41,8. Oggi i neri ufficialmente poveri sono il 24,7 per cento. Nonostante il fuoco di sbarramento al quale è stata sottoposta per due decenni, l’idea di Johnson non ha vinto, ma ha rappresentato, per l’America povera, molto di più d’una nobile illusione.

Così come molto di più d’una illusione – piuttosto ignobile in questo caso – è il fatto che quegli stessi indici di povertà, in costante decrescita per quasi quarant’anni, hanno lentamente ma sistematicamente cominciato a risalire da quando George W. Bush governa il paese. Oggi gli americani che vivono sotto la linea di indigenza sono il 12,7 per cento della popolazione totale. Il 17 per cento (quasi uno ogni sei) se si considerano solo i bambini. Ed il tutto nel quadro d’una “forbice” che è andata sempre più allargandosi. Le “working families”, la tipica famiglia americana che vive del lavoro dipendente d’uno o più dei suoi membri, aveva visto il suo reddito raddoppiare, aggiustato all’inflazione, tra il 1947 ed il 1973. Negli ultimi 30 anni la crescita, perlopiù dovuta all’ingresso delle donne-mogli nel mercato del lavoro, non è stata, invece, che del 22 per cento. E questo mentre l’uno per cento più ricco della popolazione vedeva salire del 100 per cento le proprie entrate (il 300 per cento se si considera solo lo 0,1 per cento più ricco). Nel 1965 un Chief Executive Officer guadagnava, in media, un salario 24 volte più alto d’un lavoratore tipo. Oggi la differenza è di 185 volte. Ed alla periferia della povertà ufficialmente sancita – 37 milioni di persone – è cresciuta a dismisura un’area grigia di “working poor”, di gente che lavora, anzi, che non di rado ha più d’un lavoro, ma che a fine mese non riesce a far quadrare i conti. Perché i salari sono sempre più bassi, il lavoro sempre più incerto ed i “benefits” – l’assistenza sanitaria”, la pensione – sempre più evanescenti e costosi, all’interno di quella che, in un recente libro, Larry Elliot e Dan Atkinson (due analisti economici del Guardian) hanno chiamato “The Age of Insecurity”, l’epoca dell’insicurezza. Oggi, in America, il 28 per cento della forza lavoro tra i 18 ed i 64 anni guadagna un salario al di sotto dei 9,64 dollari all’ora (cifra che serve a raggiungere il 19.000 dollari annui del limite di povertà). Non tutti sono legalmente poveri. Ma tutti rischiano di diventarlo (e, per molti aspetti, conviene loro diventarlo, per usufruire, almeno, delle miserie di ciò che resta del welfare state americano). Basta un nulla. Una malattia, la chiusura d’una fabbrica (evento tutt’altro che raro in un’economia che, solo negli ultimi 4 anni, ha perso 2,7 milioni di posti di lavoro manifatturieri), un qualunque incidente di percorso…Qualcuno ha definito questo processo la “walmartizzazione dell’economia americana” (da Wal-Mart, la più grande catena di distribuzione americana, nota per i bassi prezzi e, ancor più, per il miserabile trattamento che riserva ai suoi dipendenti). Vale a dire: un’economia sempre meno orientata alla produzione e sempre più fondata sul consumo e sui bassi salari…

Il punto di fondo è probabilmente questo. Ed è un punto che fa sì che la povertà in America sia oggi molto diversa dal nemico che, quarant’anni or sono, Lyndon Johnson s’accingeva a sfidare di fronte alla Storia. Quella che si va pericolosamente restringendo, nell’allargarsi della forbice della disuguaglianza, è, infatti, proprio la “middle class”, quella classe media che molti considerano il vero tessuto connettivo della democrazia americana. E che, come lo scorso giugno ha sostenuto l’economista Paul Krugman in un editoriale sul New York Times, fu a suo tempo il prodotto, non del caso, ma d’una scelta politica. Più esattamente: fu il risultato di quella “grande compressione dei redditi” che cominciò durante la Seconda Guerra Mondiale e che ”per molte generazioni” fu sostenuta da norme che “favorivano l’eguaglianza, la crescita di forti organizzazioni sindacali ed un sistema fiscale progressivo”. Dagli anni ’80 questa tendenza s’è invertita ad esclusivo vantaggio dei ricchi. E negli ultimi quattro anni – sotto George W. Bush – questa inversione ha assunto livelli d’inusitata sfacciataggine, addirittura perdendo per strada, nella sua ossessiva distribuzione di favori alla ricchissima America delle grandi Corporations, la virtù di quell’ “antistatalismo” che, fu, nel 1994, l’anima del “Contratto con l’America” proposto da Newt Gingrich (il governo di Bush è in effetti, come testimonia il gigantesco deficit fiscale, tra i più estesi, poderosi e spendaccioni della storia americana).

L’editoriale di Krugman – scritto a ridosso d’una colossale inchiesta del quotidiano dedicata, proprio così, alle “differenze di classe” in America – aveva un titolo significativo: “Loosing our country”, perdere il nostro paese. Quello che, la scorsa estate, l’uragano Katrina ha scoperchiato è, in realtà, molto più del desolante spettacolo d’una fetta di paese derubato della speranza che nutre il cosiddetto “sogno americano”. È un buco nell’anima, un vuoto nel cuore della democrazia. L’immagine d’una nazione che, nella disuguaglianza, rischia di perdere se stessa…

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