5 maggio 2010
Di M.C.
C’era una volta la “terza via”. C’era e – negli anni che avevano preceduto quel 25 aprile del 1999, durante il quasi mezzo secolo della Guerra Fredda – c’era in realtà sempre stata, pronta a morire e, una volta morta, pronta di continuo a rinascere dalle sue stesse ceneri. Come l’Araba Fenice. O come il sogno di un Eldorado colmo di libertà, a metà strada tra l’efficienza cinica del mercato e la giustizia del socialismo. Eppure mai, prima di quel giorno, era tanto nitidamente parso che gli astri della politica si fossero infine davvero allineati – da un lato e dall’altro dell’Oceano Atlantico – per aprire le porte ad una pragmatica e realizzabile versione di quell’antico miraggio. A Washington D.C., nella sede del Progressive Policy Institute – “think tank” affiliato al Democratic Leadership Council – proprio per discutere di “terza via” s’erano infatti riuniti, di fronte ad una selva di reporter giunti da ogni angolo del pianeta, cinque molto illustri capi di Stato o di governo: il padrone di casa, William Jefferson Clinton, ormai giunto quasi al termine dei suoi due mandati e per l’occasione affiancato, in termini tutt’altro che ornamentali, dalla moglie Hillary Rodham Clinton; il primo ministro britannico, Tony Blair; il cancelliere tedesco, Gerhard Schroeder; il primo ministro olandese Wim Kok; ed il presidente del consiglio dei ministri italiano, Massimo D’Alema. Assente giustificato: Lionel Jospin, il primo ministro francese, allora in molto tesa coabitazione con Jaques Chirac, presidente della Repubblica.
Tema della discussione: “The Third Way: Progressive Governance for the 21st Century”, la terza via, un governo progressista per il XXI secolo. Molto chiaro il contesto storico del convegno: dopo otto anni di governo democratico negli Usa, e dopo le vittorie elettorali, in gran parte dei paesi d’Europa, di partiti o di coalizioni socialdemocratiche (in tutte le loro varianti), era tempo di sovrapporre questo nuovo e (si pensava) stabile quadro politico alla realtà d’una arrembante ed incontenibile globalizzazione dell’economia mondiale. Ovvero: d’affermare, in tutto il mondo sviluppato, una nuova strategia politica che andasse, finalmente, oltre la storica ma anacronistica contrapposizione tra socialismo e capitalismo. O, con più “moderni” accenti: oltre le secche della vecchia sinistra (laburista o classista, sulla sponda europea, “liberal”, sulla sponda americana); e, contemporaneamente, oltre la rampante impopolarità d’un liberismo economico – quello che, dagli anni ’80, va sotto il nome di reaganismo, o thatcherismo – fonte di crescenti diseguaglianze, ingiustizie e tensioni sociali.
Che cosa è rimasto, oggi, 11 anni dopo, di quello “storico” incontro? Dal lato della vecchia Europa, quasi nulla. O nulla del tutto, dopo che una settimana fa, nel Regno Unito, è caduto anche l’ultimo – ed ormai da tempo neppure simbolico – bastione del laburismo britannico. Dal lato della nuova America – quella che, nel novembre del 2008 ha eletto il suo primo presidente “non bianco” – soltanto l’aperto enigma dell’affascinante, ma ancor indecifrabile realtà della presidenza Obama. E, nel mezzo, tra le due coste dell’Oceano, non rimane – per dirla con la più celebre delle poesie di Ungaretti – neppure tanto. Vale a dire: neppure l’ombra del ricordo delle comuni speranze che furono. C’era una volta la terza via. Ed ora – nel momento in cui più evidente è la sua necessità, perché più evidente appare la crisi della globalizzazione liberista del pianeta – la terza via non c’è più…Perché? Che fine ha fatto quell’idea di “progressive governance for the 21st century” di cui avevano tanto spettacolarmente discusso, 11 anni orsono, i grandi della terra? Perché, in Europa, lungo quella “terza via”, non si scorgono ormai che i ruderi – spesso ancora fumanti – dei partiti che l’avevano incarnata? Perché è fallita la strategia “globale” che – nata nel pieno d’uno dei più accelerati e prolungati periodi di espansione economica era, nelle intenzioni, chiamata a dare il segno del nuovo millennio?
Rispondere a queste domande è, com’è ovvio, terribilmente complicato. Ma la prima delle risposte resta probabilmente, ancor oggi, quella che Ralph Dahrendorf (uno che, pure, nella terza via aveva creduto), già nell’estate del 1998, aveva ipotizzato in un articolo su “New Stateman”. La strategia del “nuovo governo progressista” del mondo è fallita perché, in sostanza, non è mai esistita. O meglio: perché non ha mai cessato di essere “un metaforico luogo di mezzo”, una politica la cui identità era marcata non da quello che era , ma da quello non era. Ovvero: proprio dal quel vecchio modo di pensare la politica che si proponeva di superare. “Quando definisci te stesso nei termini di ‘altro’, altro rispetto alla vecchia socialdemocrazia statalista, altro rispetto al capitalismo senza regole, altro rispetto alla vecchia sinistra ed altro rispetto alla nuova destra – aveva scritto Dahrendorf – lasci, in effetti, che sia proprio questo altro a definire te ed il tuo pensiero…”
Parole profetiche. L’altro – o, almeno, uno dei due “altri”, quello che il governo progressista per il nuovo millennio non era dal lato capitalista della barricata – ha vinto, in effetti, quasi senza dover combattere. Anzi : in qualche misura (ed al di là delle prime apparenze) già aveva vinto il 25 aprile del 1999, mentre Clinton, Blair, Schroeder, Kok e D’Alema andavano discettando, nella sede del Progressive Policy Institute, sul possibile incontro, in una nuova terra di mezzo, tra la vecchia anima socialdemocratica d’Europa, convertitasi ad una moderna visione del capitalismo, ed i non più troppo “liberal” democratici americani, ora di nuovo creativi eredi del New Deal rooseveltiano.
Per capire il senso di questa disfatta basta, del resto, un ‘occhiata alle molto singolari circostanze di quella “storica riunione”. In quella primavera di fine millennio, Blair, Schroeder, Kok e D’Alema non si trovavano a Washington per caso, né avevano varcato l’Atlantico con il solo scopo di discutere di “terza via”. Erano lì per celebrare, in pompa magna, il cinquantesimo anniversario della nascita della NATO, in circostanze che, a loro volta, vedevano la NATO impegnata a bombardare la Serbia di Slobodan Milosevic (da par suo impegnata, in una sequela d’orrori, nella “pulizia etnica” del Kosovo). Più che dal tenero ricordo dei bei tempi della contrapposizione alle (vere o presunte) mire espansionistiche dell’Unione Sovietica, quella grande festa era stata marcata dai quotidiani bollettini di guerra illustrati dal segretario generale Javier Solanas e, con ancor maggiore frequenza, da Jamie Shae, l’oggi dimenticato ma allora visibilissimo portavoce dell’organizzazione. Tante bombe sganciate, tanti edifici distrutti, tanti danni apportati alla “struttura di comando e di comunicazione….”.
Non è in questo il luogo, naturalmente, per tornare sulle ragioni e sui torti di quella guerra (o di quella “guerra alla guerra”, come amava definirla Javier Solanas). Ma resta il fatto che proprio in quel frastuono – un frastuono di bombe – si svolse l’incontro tra i cinque moschettieri del futuro “governo progressista” del mondo. E resta soprattutto il fatto che proprio così, in un frastuono di bombe, s’esaurì quella spinta alla ricerca d’una moderna sinistra transcontinentale. La “terza via” propugnata da Clinton, Blair, Schroeder, Kok e D’Alema fu essenzialmente – mentre si spegneva il XX secolo, il più violento della storia dell’uomo – una via alla guerra, il molto effimero effetto collaterale d’un nuovo modo d’intendere (e ravvivare) un’alleanza militare nata con scopi molto diversi. Altro non ci fu. Né, probabilmente – al di là della semplice e nefasta aritmetica dei risultati elettorali che seguirono – avrebbe potuto esserci.
Quel che accadde dopo è noto. Nel 2000, Al Gore, erede designato di Clinton, perse nelle paludi della Florida – per 518 voti e per una molto politicamente motivata sentenza della Corte Suprema – forse la più controversa corsa presidenziale della storia d’America. Bush entrò alla Casa Bianca e, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, lanciò una campagna di guerra nella quale Tony Blair bruciò, in un solo istante, tutte le sue residue credenziali di sinistra. Con la sola eccezione della Spagna, la socialdemocrazia cominciò a perdere terreno (e governi) in tutta Europa, senza neppure aver cominciato il suo cammino verso quella sorta di “utopia di mezzo” ch’era la terza via. Di mezzo perché “equidistante”. E di mezzo perché proprio in mezzo al guado che essa stessa aveva creato s’era subito impantanata. Irraggiungibile, non perché vaga o troppo lontana dalla realtà, ma perché, della realtà, non era che una variante, per così dire, geografica. L’essenza del clintonismo e del blairismo – l’unica vera “terza via” di quegli anni – non era stata, in fondo, che questo: un luogo della politica, una “triangolazione” o – come ebbe a definirla, Dick Morris, il gran maestro di macchiavellico cinismo che, nel 1996, fu stratega di campagna di Bill Clinton – una semplice e vincente sponda tra due diverse direzioni strategiche. Null’altro, insomma, che una tattica elettorale, un modo per battere attraverso la “cooptazione”, o per simbiosi, una destra storicamente vincente. Il genio politico di Clinton – al quale va comunque riconosciuto il merito d’avere frenato, negli anni ’90, il consolidamento al potere della destra americana – si consumò, non nel superamento del reaganismo, ma in un processo di adattamento al reaganismo ed alla sua logica,
E oggi? Oggi in America c’è Obama. E c’è, attorno a lui un mondo che, divorato dalla crisi del sistema finanziario, appare lontanissimo da quello nel quale erano state concepite ed erano quasi all’istante abortite le idee di terza via sciorinate nell’incontro di Washington. Quella di Clinton – disse Obama durante la sua interminabile battaglia con Hillary, nel corso delle primarie democratiche del 2008 – non fu una politica “trasformativa”. Non lo fu, contrariamente a quella di Reagan che, spostando a destra contenuti ed alleanze, seppe, a suo tempo, mutare i paradigmi della politica Usa. E non lo fu, va da sé, contrariamente a quella che lui, Barack Hussein Obama, intendeva (ed intende) lanciare – oltre la vecchia logica di destra e di sinistra – reinterpretando le esigenze di razionalità e di giustizia sociale, imposte da una crisi economica “di sistema”.
Obama non ha mai usato, né prima né dopo la sua vittoria elettorale, l’espressione “third way”. E, sebbene, sul piano della politica internazionale, la sua riscoperta del multilateralismo lo abbia reso assai popolare nel vecchio continente, i suoi progetti non hanno fino a ieri – anche per la pressoché totale assenza di vere sponde politiche – coinvolto che marginalmente quell’Europa che, poco più di un decennio fa, aveva apparentemente riscoperto il filo d’una possibile relazione nuova, globalmente riformista, con gli Stati Uniti d’America. Ma che, con gli Stati Uniti d’America, aveva poi finito soltanto per combattere una guerra.
Potranno, al calore della crisi greca, cambiare le cose? Potrà, dalle ceneri del Partenone (e dell’euro) risorgere l’araba fenice della terza via? Come si usa dire: crederlo è difficile, ma sperarlo è lecito.