Assai improbabile è che dalle prossime elezioni presidenziali statunitensi – quelle che, per l’appunto, si terranno nel novembre del 2024 – esca, all’ombra d’un qualsivoglia “Grande Fratello”, un distopico regime in qualche misura paragonabile alla orwelliana Oceania. Ed ancor meno probabile è che gli esiti di tali elezioni ispirino, rievocando Orwell, un cupo romanzo dal titolo “2024”. Del tutto prevedibile (o, quantomeno, prevedibilmente inevitabile) è, tuttavia, il fatto che, tra meno di due anni, la “più antica democrazia del mondo” debba, con ancor imprevedibili conseguenze, fare i conti con quel che resta di sé. O, più nello specifico: che debba misurarsi, senza soluzioni alla vista, con la consolidata realtà d’una crisi strutturale che, maturata nel tempo, ne può oggi, a tutti gli effetti, pregiudicare l’esistenza. E che di certo già ne ha, per molti aspetti, pregiudicato la natura. Quali che siano i suoi destini letterari, il 2024 sarà – per gli Usa e, di riflesso, per il modo intero – un anno di svolta. E di svolta, tutto lo lascia credere, in direzione del peggio.
La storia di questa crisi andrebbe, ovviamente raccontata dall’inizio. Ovvero: partendo dalla Dichiarazione d’Indipendenza del luglio 1776. E da quella celeberrima frase – “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal” – la cui splendida, rivoluzionaria bellezza era già allora offuscata, in una sorta di “peccato originale” mai completamente emendato, dalla realtà un sistema economico ed istituzionale basato, in parte sostanziale, sulla più radicale e feroce negazione della eguaglianza e della libertà. Vale a dire: su quella che – dai “padri fondatori” eufemisticamente definita “the peculiar Institution”, la peculiare istituzione – era molto più peculiarmente nota, in altre latitudini, come “schiavitù”. Egualmente utile è tuttavia – non volendo né potendo scrivere un trattato storico in diversi volumi – prendere, invece, le mosse dalla fine. O, più precisamente, dalle cronache – e dalle loro più immediate, ma molto probabilmente durature, conseguenze politiche – delle elezioni di metà mandato (midterm) che, lo scorso 8 di novembre, hanno come da tradizione rinnovato tutti i 435 seggi della House of Representatives e 35 dei 100 seggi del Senato,
Una democrazia in pericolo d’estinzione
Che cosa ci hanno raccontato queste elezioni? Fondamentalmente due ed alquanto contraddittorie cose. La prima: che la democrazia ha vinto. La seconda: che la democrazia vittoriosa è più che mai in pericolo d’estinzione. La democrazia ha vinto perché, dati alla mano, le forze ad essa contrarie hanno subito, lo scorso novembre, un indiscutibile e palpabile ridimensionamento. Tanto indiscutibile e palpabile, in effetti, da assomigliare ad una sonora sconfitta. E, nel contempo, la democrazia è più che mai in pericolo d’estinzione perché, seppur sconfitte nelle urne, le più estreme e reazionarie tendenze sovversive che la minacciano – le più ”trumpiane” o, comunque, quelle più politicamente ed ideologicamente affini all’assalto “golpista” al Congresso consumatosi il 6 di gennaio del 2021 – sono paradossalmente, in termini di potere politico, uscite rafforzate dal voto dell’8 novembre e da quel che di quel voto è stata l’appendice.
Venendo ai fatti. Per molti mesi, prima del midterm, ogni pronostico era andato in un’unica ed univoca direzione. Il voto di metà mandato sarebbe stato marcato, rilevavano con minime varianti tutti i sondaggi, da una “red wave” – un’onda rossa, rossa come il colore che, negli USA, tradizionalmente definisce, nelle mappe televisive, gli Stati conquistati dai repubblicani – di storiche proporzioni. E questo per il semplice fatto che ogni singolo fattore, ogni folata di vento, sembrava, in una sorta di “tempesta perfetta”, impetuosamente soffiare a favore del G.O.P. (Grand Old Party). Tutto, negli USA, sembrava pendere inesorabilmente “a destra”. Tutto. A cominciare, ovviamente, dalla pressoché implacabile logica d’un “ciclo politico” che storicamente sempre ha visto – con solo un paio di eccezioni in eccezionali circostanze – il partito del presidente in carica perdere voti e seggi nel midterm. E questo anche quando – contrariamente al caso di Joe Biden, i cui indici di gradimento viaggiano a tutt’oggi ben al di sotto del 50 per cento – l’inquilino della Casa Bianca godeva d’una solida popolarità. Il tutto con l’aggiunta di altri e (per il Partito Democratico) ancor più devastanti ingredienti: un paese ancora pienamente e pessimisticamente immerso nei postumi della pandemia ed un’economia che, marcata da una persistente inflazione e da una disoccupazione ai minimi storici, è diventata, per gli economisti, un ancor irrisolto (e forse irrisolvibile) enigma (nessuno sembra saper dire se, al di là del proverbiale “ragionevole dubbio”, le cose stiano in America, andando bene o male). Ma che, per molte ed assai pragmatiche ragioni, viene dal famoso “uomo della strada” indiscutibilmente percepita come in pessimo stato. Quasi l’80 per cento degli americani – mostravano i sondaggi della vigilia – era convinto che il Paese stesse andando “nella direzione sbagliata”.
Che altro, dunque, poteva accadere in questi panorami? Che cosa, se non un’onda, anzi, uno “tsunami rosso” poteva esserci – con istantanee e storiche conseguenze – nell’immediato futuro degli Stati Uniti d’America? Per conquistare la House of Representatives e strappare il bastone di comando all’odiatissima Nancy Pelosi, ai repubblicani sarebbe bastato conquistare cinque seggi. E, a seconda dei livelli d’ottimismo ed euforia, erano tra i quaranta e i sessanta quelli che i pronostici andavano da mesi preannunciando. Al Senato sarebbe bastato sottrarre un seggio ai democratici per ribaltare, a favore dei repubblicani, la maggioranza. La “gran spallata” d’una inequivocabile e devastante rivincita dopo la sconfitta del 2020 – a sua volta preludio di un cambio della guardia nelle presidenziali del 2024 – pareva dunque cosa fatta.
Questo era quel che si diceva. E questo è quel che, a conti fatti, è poi davvero accaduto. Di seggi alla Camera i repubblicani ne hanno conquistati appena dieci (la quarta parte del minimo preventivato). Abbastanza per formare una risicatissima (e, come vedremo, condizionatissima) maggioranza, ma anni luce lontani dalle previsioni. Ed al Senato sono infine riusciti, i repubblicani, a perdere un seggio. Quella che doveva essere una “onda rossa” – o addirittura uno “tsunami rosso“ – è alla fine diventata, come ha sarcasticamente commentato Steven Colbert, conduttore d’uno dei più popolari “night show” televisivi americani, una sorta di “pink trickle”, un rivoletto rosa, una sbiadita sgocciolatura, il patetico residuo di una brinata notturna. Questo è quello che, il proverbiale “day after”, i repubblicani hanno trovato al risveglio. Un brutto, bruttissimo risveglio
Una classica vittoria di Pirro
Qualche cifra per meglio inquadrare le molto miserande proporzioni della “vittoria” del G.O.P. . Nel 1994, presidente Bill Clinton, il Partito Repubblicano di Newt Gingrich (personaggio che ha avuto un ruolo fondamentale nell’involuzione anti-democratica del partito. e che, non per caso, è di questi tempi riapparso al fianco di Trump) aveva strappato ai democratici, in circostanze politiche molto meno favorevoli, ben 54 seggi alla Camera e 9 senatori. Nel 2010, presidente Barak Obama, i repubblicani avevano conquistato 64 seggi alla Camera e 12 al Senato. E nel midterm del 2018, dopo due anni di presidenza Trump, i democratici avevano guadagnato alla Camera ben 41 seggi.
Che cosa è accaduto? Quali sono le forze che hanno bloccato, riducendola ad un rigagnolo rosa, la pressoché universalmente prevista “ondata rossa” repubblicana? Negli ultimi anni – non solo negli USA – era stata la crescita d’una nuova destra antidemocratica, alimentata da nuovi ed antichi rancori, a sfuggire sistematicamente ai radar delle inchieste pre-elettorali. Stavolta è accaduto l’esatto contrario. A passare inosservate – o, se osservate, come di fatto è sfuggevolmente avvenuto, a non essere afferrate nella loro sostanza – sono state quelle che Joe Scarborough, commentatore televisivo ed ex deputato ultra-conservatore diventato un “never-Trumper”, un nemico giurato del “partito del culto di Trump”, ha molto opportunamente definito le “ tre D”. D come Dobbs. D come “deniers” e, infine, D come Donald.
Dobbs sta, ovviamente, per “Dobbs vs Jackson”, ma in italiano la si può tranquillamente e molto accuratamente sostituire con la D di “donna”. “Dobb vs Jackson“ è, infatti, la sentenza della Corte Suprema che, grazie alla truffaldina nomina di ben tre giudici ultra-conservatori durante la presidenza di Trump, ha mesi fa derubato le donne di quel diritto costituzionale all’aborto che quasi mezzo secolo fa era stato stabilito dalla Roe vs Wade. E delle donne – donne indignate – è infatti stato, in parte sostanziale, il voto che ha ribaltato tutti i pronostici. Come testimoniato dal parallelo ed inequivocabile risultato di tutti i referendum che, nel gran calderone del “midterm”, in Michigan, Kentucky, Vermont, California e Montana, hanno opposto un massiccio, inequivocabile “no” alle nuove leggi che, sull’onda della sentenza della Corte Suprema, tendevano a rendere impossibile nei singoli Stati, anche in caso di stupro o di grave pericolo per la vita della madre, ogni forma d’interruzione della maternità. Interessante, anzi, emblematico è, a tal proposito, il caso del 13esimo distretto del North Carolina, dove Bob Hines, candidato repubblicano (e trumpiano assoluto) pur dato per superfavorito alla vigilia è stato infine molto solennemente battuto da Willey Nickel, candidata democratica. Al centro della campagna di Hines c’era una molto interessante e assai rivelatrice (in questo verrebbe varrebbe davvero la pena di definirla “orwelliana”) proposta: che l’aborto fosse proibito con due sole eccezioni, l’incesto e lo stupro. Nel qual caso sarebbe toccata ad un “community-level review process”– di fatto una sorta di tribunale popolare, o di Santa Inquisizione – la decisione di procedere o meno (con l’ovvia convinzione che il “meno” sarebbe stato la maggioranza delle volte) alla interruzione della gravidanza.
Le altre due D – quella di “deniers” e quella di Donald – “deniers” come negatori e Donald, ovviamente, come Donald Trump – sono a loro volta, le due facce della stessa orripilante medaglia. Quella dell’ormai irreversibile divorzio tra Partito Repubblicano e democrazia. Quella della negazione, sulla base d’una frode mai esistita, della legittimità della vittoria di Joe Biden nelle presidenziali di due anni fa. Quella, in sostanza, dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio del 2021. Quella che nega la validità di qualunque elezione che dei “deniers” non preveda la vittoria. Perché la vittoria di qualunque forza che non sia quella dei “deniers” e di Donald Trump, gran capo del culto, sarebbe una vittoria dell’anti-America, d’una tenebrosa e non-umana realtà – giusto nei giorni che avevano preceduto il midterm, Trump era tornato a definire “un animale” Nancy Pelosi – che corrompe l’infanzia e distrugge la Nazione.
Una sconfitta che si chiama Donald Trump
L’aritmetica elettorale parlava, dopo il voto di metà mandato, un linguaggio inequivocabile. I repubblicani avevano – in panorami a loro straordinariamente favorevoli – malamente perduto. E la loro sconfitta aveva un solo nome: Donald Trump. Bene – bene almeno in termini di immediata convenienza politica – avevano dunque fatto i democratici, nella fase finale della campagna, a puntare i riflettori della propaganda proprio sull’ex presidente e sul pericolo fascista – o “semi-fascista”, come curiosamente lo aveva definito Joe Biden in un discorso tenuto giusto la settimana prima del voto – rappresentato dai cosiddetti MAGA-republicans. Ovvero: dai più fedeli seguaci di quel “Make America Great Again” che, di Trump e del trumpismo (due entità non sempre totalmente coincidenti) è dai sei anni il riconosciuto grido di battaglia.
Dati elettorali alla mano, non v’è dubbio alcuno: Trump è una zavorra, anzi, è “la” zavorra che, politicamente, moralmente ed elettoralmente, trascina a fondo il Partito Repubblicano. Meglio ancora: Trump è oggi il più potente – l’unico, sostiene addirittura qualcuno – alleato del Partito Democratico, la sua vera ancora di salvezza. Come ampiamente dimostrato da uno dei meno conosciuti – e per molti aspetti meno edificanti – risvolti di questo “midterm”. Durante la campagna elettorale i democratici hanno speso in almeno nove Stati cifre considerevoli – più di 50 milioni di dollari, si dice – per appoggiare nel corso delle primarie repubblicane i candidati più smaccatamente e fanaticamente trumpiani. Ed i risultati ci dicono che questo gioco – un gioco che difficile è non qualificare come “sporco” – ha funzionato. Vedasi il caso – probabilmente il più crudele tra i molti – d’un distretto del Michigan dove, grazie anche ad un consistente appoggio di video-spot democratici, John Gibbs, trumpiano fino al midollo, ha infine sconfitto nelle primarie il favorito Peter Meijer, uno dei pochissimi repubblicani che dopo l’assalto del 6 gennaio avevano avuto il coraggio di votare a favore dell’impeachment di Donald Trump. Il tutto, come previsto, per poi perdere le elezioni contro il rivale democratico.
Identificato il male, trovata la terapia? Tolto il dente (Trump) tolto il dolore? Per nulla. Perché se indubitabile è che Trump è la zavorra del G.O.P., altrettanto certo è che Trump e il trumpismo – o, se si preferisce Trump e Trump oltre Trump – “sono” il G.O.P. Semplicemente: senza Donald Trump ed il trumpismo non c’è oggi Partito Repubblicano. E questa è la contraddizione di fondo, la “trappola storica” nella quale è finito quello che, in ormai altre ere geologiche, amava definire se stesso il “partito di Abraham Lincoln”. Senza Trump nessuno può vincere dentro il Partito Repubblicano. Con Trump, tutti perdono – o, almeno, perdono voti – quando discendono, da candidati, nel mondo reale. Vale a dire: in elezioni che li vedono contrapposti, di fronte al Paese, a rivali democratici. Trump ed il trumpismo – punti di arrivo o, se si preferisce, punti rivelatori d’una crisi maturata nel corso di molti anni – sono a tutti gli effetti denti cariati e sono la più immediata e diretta fonte delle sofferenze del G.O.P.. Ma non sono in alcun modo estraibili perché, se estratti, provocherebbero la morte per emorragia del paziente. Unica soluzione (parafrasando il titolo di un vecchio spettacolo di Giorgio Gaber): far finta di esser sani.
Trump 2, la vendetta
E proprio questo è accaduto dopo le elezioni di midterm. Donald Trump ha fatto finta d’esser sano annunciando ufficialmente, dalla sua reggia di Mar-a-Lago, in Florida, la propria candidatura per le presidenziali del 2024 (qualcuno, rievocando la titolazione delle “sequel” dei vecchi fil dell’orrore, l’ha battezzata “Trump 2, la vendetta”). E gli apparati mediatici che, almeno fino all’assalto al Congresso del 6 gennaio, gli avevano fatto da spalla, hanno a loro volta simulato un inesistente stato di buona salute, sminuendo, per la proverbiale “carità di patria”, l’importanza del gesto. O, più esattamente: hanno artatamente presentato questa “vendetta”, come l’inerziale residuo d’un passato ormai ampiamente alle spalle della Nazione. Un significativo esempio: il New York Post, storico e non propriamente “paludato” tabloid della Grande Mela, ha dato la notizia dell’avvio della campagna presidenziale di Donald Trump – un taglio basso, anzi, bassissimo – sotto un titolo, “Florida Man Makes Announcement”, uomo della Florida fa un annuncio, che a tutti gli effetti è risuonato come una pernacchia o, peggio, come un’ufficialissima e molto sardonica richiesta di divorzio.
Perché “significativo”? Perché il New York Post è, ormai da molti anni, parte d’un impero mediatico, quello di Rupert Murdoch, che della destra Usa – la peggior destra Usa – è la cassa di risonanza. E perché è stato al servizio di questa destra – la destra che fino a ieri era la destra di Donald J. Trump – che il Post ha sistematicamente usato, nell’ultimo quinquennio, la tradizionale volgarità della sua linea editoriale. Con Donald J. Trump, oltretutto, il Post vantava – da prima di Murdoch e da prima del MAGA-Trump – una relazione di aperta, apolitica e decisamente scollacciata complicità. Proprio al New York Post, infatti, quello che allora ancora non era che un “real estate mogul” ed un animatore, all’insegna del più vieto narcisismo, delle cronache mondane newyorkesi, era solito rivolgersi – spacciandosi per il proprio press agent – per regalare al tabloid irresistibili “scoop” in merito alle sue (per lo più inventate, come nel caso di Madonna e Carla Bruni) conquiste amorose. Il tutto con particolare enfasi sulle sue, ovviamente strabilianti, performance sessuali. Altri tempi, stesso personaggio, stessa esibizionistica ciarlataneria. Con la sola – ma devastante – differenza di quattro anni di presidenza che hanno ferito a morte la democrazia Usa.
La risposta – un chiarissimo “sì” – è arrivata qualche settimana più tardi, quando, ufficialmente installatasi la nuova House of Representatives, si è preceduto alla nomina dello Speaker della medesima, operazione questa che, con pochissime eccezioni, sempre era stata, nel corso della storia, una pura formalità. Non questa volta. Perché, questa volta, la Camera ha dovuto votare per ben quindici consecutive volte – un record assoluto – prima di consegnare nelle mani di Kevin McCarthy, designato leader della nuova maggioranza repubblicana, “the gavel”, il martello con il quale dirigere i lavori della Camera. La ragione d’un tanto tortuoso e turbolento ritardo? I piedi puntati – a fronte d’una maggioranza risicatissima e, in quanto tale, esposta ad ogni ricatto – di 16 deputati appartenenti a quella frazione che gli osservatori politici avevano fino a non molto tempo prima definito in vari, ma immancabilmente sprezzanti modi: “MAGA on steroids”, “SUPER-MAGA” o, più spesso, “the fringiest fringe”, i più estremisti degli estremisti, i trumpisti oltre il trumpismo, quelli che (ignorando, nel caso, anche le indicazioni del capo del culto che li aveva invitati a votare McCarthy) apparivano nichilisticamente decisi ad estrarre dalle circostanze d’una vittoria (la conquista della maggioranza della Camera) che era in realtà una batosta elettorale, il massimo vantaggio possibile.
Quando, al sedicesimo voto Kevin McCarthy ha infine afferrato, in una molto forzata simulazione di giubilo, l’agognato “gavel”, una cosa era del tutto ovvia. Trattativa dopo trattativa, concessione dopo concessione, “the fringiest of the fringe” – ovvero, quelli che della sconfitta elettorale erano i massimi responsabili – erano ormai diventati i veri padroni della linea del partito. Ed opportunamente collocati in molte delle commissioni della Camera si apprestavano ora a far libero ed ampio uso di tanto potere. Con Kevin MacCarthy – evanescente personaggio che, in questi anni, ad ogni tiepida critica al trumpismo ha fatto seguire una incondizionata genuflessione – a far da patetico garante del loro trionfo. Tutte le analisi post-elettorali sembrano su questo concordare. Vera vincitrice del midterm è stata, in casa repubblicana, la rappresentante del 14esimo distretto dello Stato della Georgia, Marjorie Taylor Greene, oggi di fatto – grazie alla sua opera di mediazione tra McCarthy ed i 16 “ribelli” – se non proprio la “numero due” del Partito, come qualcuno ha scritto, di certo u’ imprescindibile parte dell’establishment. Un bel passo in avanti per chi fino a ieri era considerata soltanto una deplorevole – e per molti aspetti inspiegabile – “parentesi” di pura follia all’interno della House of Representatives. Ed un bel passo indietro per un Partito che, fino a non molto tempo fa, era la metà conservatrice di un ancor raziocinante sistema democratico a base bipartitica.
Altri inequivocabili segnali d’un imminente – o già operante – divorziotra Murdoch e Trump, a sua volta inequivocabile testimonianza d’una più ampia separazione tra i vertici mediatici della tradizionale destra Usa e l’ex presidente nuovo candidato alla presidenza. La notte dell’annuncio del “Florida Man”, Fox News – la rete televisiva che di Murdoch e della destra Usa è a tutti gli effetti la chiassosa nave ammiraglia – ha interrotto al minuto 40 la diretta del discorso di Donald Trump, durato oltre un’ora. E questo, la mattina dopo, si chiedeva, quasi implorante, un editoriale del Wall Street Journal (altra punta di diamante dell’impero di Murdoch): davvero i repubblicani intendono nominare per la corsa del 2024 l’unico candidato “che i democratici sono sicuri di battere?”.
Una cricca satanica di pedofili cannibali
Più nello specifico, giusto per render l’idea: Marjorie Taylor Greene appartiene a quella categoria di personaggi politici che nelle più bizzarre (e, nella loro bizzarria, pericolose) teorie cospirative trovano la loro prima ragion d’essere. Fino a non molto tempo fa era considerata – sulle base di cose da lei fatte e dette – una convinta e “totale” aderente al culto di QAnon, misteriosa setta secondo la quale il Paese è oggi guidato – attraverso il Partito Democratico, una parte delle élite hollywoodiane (Tom Hanks in particolare) e del famoso “deep state”, lo stato profondo della burocrazia civile e militare – da un cricca satanica di pedofili cannibali (probabilmente, nonostante le umane sembianze, rettili di origine extraterrestre) che Donald Trump e solo Donald Trump, da Dio all’uopo eletto, può sconfiggere e sbaragliare.
Va per onestà aggiunto – per la tranquillità di quanti trovino inquietanti le suddette credenze – che la Taylor Green ha recentemente parzialmente distanziato se stessa dalle medesime, senza tuttavia precisare quali delle tesi di QAnon abbia abbandonato ed a quali continui a credere. Sono, quelli che governano il mondo, pedofili ma non cannibali, oppure cannibali ma non pedofili? Restano, i democratci, sataniche e rettiliane creature o vanno, a questo punto, a tutti gli effetti considerati come, sia pur perversi, esseri umani? Domande senza risposta. Molto chiare appaiono invece, nelle parole di Marjorie, le ragioni che l’hanno spinta a far proprie e sostenere le parti – quali, per l’appunto, non si sa – “non vere” delle teorie di Qanon. La colpa, ha detto, non è sua, ma di CNN e di tutto il “mainstream media” che, con le sue ripetute menzogne su Trump hanno finito per convincerla che mentire fosse lecito. Questo ha detto – e continua quotidianamente a dire – Marjorie Taylor Greene. Prendete nota perché di lei sentirete ancora molto parlare nei giorni, nelle settimane, nei mesi e, presumibilmente, anche degli anni a venire.
Tornando a bomba. Questo sembra essere il destino di Donald Trump e dei suoi più fedeli seguaci. O di quelli che di lui sono addirittura più trumpisti. Più perdono e più si rafforzano all’interno del partito. Più si rafforzano all’interno del partito, più estreme diventano le loro posizioni. E più estreme diventano le loro posizioni più il partito risulta perdente. Masochismo politico? Un cronico caso di ideologica cecità, una malattia politica, una forma di mentale degenerazione che rende il G.O.P. incapace di leggere o di vedere quel che si muove al di fuori di se medesimo? Anche di questo, ovviamente, si tratta. Perché questo è quel che di norma caratterizza ogni forma di fanatismo. L’elemento di fondo, tuttavia, il nodo politico che davvero spiega gli atteggiamenti apparentemente autolesionistici del Partito Repubblicano ai tempi di Trump è, non il masochismo, ma il suo ormai irreversibile divorzio dalla democrazia. O, più concretamente: perché non è nella democrazia e nelle sue regole, ma nel sovvertimento di entrambe, che questo Partito Repubblicano cerca la strada per una vittoria.
Jim Crow è vivo e lotta insieme a noi
Basta, per capirlo, dare una rapida occhiata alla geografia politica. In tutti gli Stati in cui sono al governo, i repubblicani stanno lavorando non per estendere – o anche solo mantenere – la democrazia, ma per rattrappirla ed umiliarla. Più esattamente: non per conquistare il voto degli elettori, ma per limitarlo. Come? Con nuove leggi elettorali che – in un tenebroso ritorno al passato – non di rado rammentano il famigerato “Jim Crow”, le regole che, per molti decenni, avevano di fatto impedito l’accesso alle urne della popolazione di colore negli Stati del Sud. E, contemporaneamente, per sistematicamente falsare i rapporti di forza elettorali attraverso la ridefinizione manipolatoria dei singoli distretti (il cosiddetto “gerrymandering”). Il tutto con la complicità di un sistema elettorale – quello basato sui collegi elettorali, non per caso immutabile eredità degli anni in cui negli Stati Uniti era in vigore la “peculiare istituzione” della schiavitù – da ormai molti anni ridicolmente obsoleto. Dovesse, quello in vigore negli USA, essere un sistema elettorale, chiamiamolo così, “normale” – uno di quei sistemi nei quali, semplicemente, vince chi prende più voti – impossibile sarebbe per Trump e per i trumpisti, o per l’intero G.O.P. ormai proprietà di Trump e del trumpismo, raggiungere i propri obiettivi di sovvertimento della volontà popolare. La squinternata aritmetica dei collegi elettorali offre tuttavia loro – numericamente e politicamente perdenti – inusitate e già sperimentate (sia pur con esito negativo) possibilità di successo.
Qualche cifra, per meglio comprendere. Nel 2016 Donald Trump prese, a livello nazionale, circa tre milioni di voti meno di Hillary Rodham Clinton. E tuttavia conquistò la presidenza grazie ad un minuscolo spostamento di voti – meno di 80mila in tutto – in tre dei 50 Stati dell’Unione: Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. E qualcosa di simile poteva accadere, a parti invertite, anche due anni fa. Joe Biden vinse, allora, con un ancor più ampio margine – oltre sette milioni di voti – il voto popolare. Ma avrebbe anche lui potuto, come Hillary quattro anni prima, perdere la presidenza fosse Donald Trump riuscito a muovere a suo favore – legalmente o, com’era nelle ovvie intenzioni del presidente in carica, per frode – un centinaio di migliaia di suffragi in almeno tre dei cinque Stati (Michigan, Pennsylvania, Wisconsin, Georgia e Arizona) dove più ravvicinata era stata la contesa.
“Tutto quello di cui ho bisogno sono 11.780 ottanta voti”. Questo – con una frase destinata a restare, scolpita nel marmo, nella storia delle elezioni – disse Donald Trump, nel corso di una telefonata, a Brad Raffensperger, Segretario di Stato (repubblicano) della Georgia. Ed aveva (sia pur fraudolentemente) tutte le ragioni del mondo. Fosse davvero Raffensperger venuto incontro al presidente – ovvero, avesse davvero “trovato”, di riffa o di raffa, gli 11,780 voti reclamati da Trump – lo Stato della Georgia sarebbe finito nella colonna delle vittorie repubblicane. E le elezioni del 2020 – fermi restando i sette milioni di voti di vantaggio di Joe Biden – avrebbero potuto avere un esito completamente diverso.
Proprio da qui, da quella rivelatrice telefonata, vale la pena ripartire per provare a comprendere quel che ci attende nel 2024. Perché quegli 11mila e passa voti, Trump ed il “suo” Partito Repubblicano, non hanno in realtà, per così dire, mai smesso di cercarli. Più in concreto: perché l’obiettivo di falsare l’esito elettorale nei punti dove, grazie ai collegi elettorali, bastano pochi voti per cambiare gli esiti finali delle presidenziali, resta parte integrante della strategia repubblicana. Come dimostrato dalla parte più occulta, ma non per questo meno importante, del processo elettorale che, appena conclusosi, era chiamato a rinnovare oltre all’intera House of Representatives e parte del Senato, anche una lunga serie di posizioni ed incarichi a livello statale. Ovunque – ma in particolare negli “swing States”, gli stati in bilico, ancora sotto il loro controllo, i repubblicani hanno fatto un grande sforzo per rimpiazzare ogni possibile Raffensperger – ogni funzionario repubblicano per personale e politica decenza poco disposto a “trovare” gli 11.780 voti necessari – con altri personaggi più sensibili alle esigenze del candidato del G.O.P.. La denuncia di una frode che non è mai esistita (e che è stata ridicolizzata, spesso da giudici nominati dallo stesso Trump, in almeno una sessantina di casi portati di fronte alle Corti di giustizia) non ha portato, infatti, solo alla vergogna dell’assalto al congresso del 6 gennaio 2021. È diventata parte integrante di una strategia politica che, sulla frode – una vera e continuata frode, in questo caso – è intrinsecamente basata.
Oltre Trump, ma non contro Trump
Dunque, a chi apparterrà, nel prossimo, fatidico 2024, il volto di questa consolidata strategia di attacco alla democrazia? Sarà ancora una volta quello di Donald Trump, l’unico candidato – tornando a citare il Wall Street Journal – che i democratici sono (fatto ovviamente salvo, per seguir la metafora, il miracoloso ritrovamento degli 11.780 voti della Georgia) sicuri di battere nelle urne? Probabilmente sì, anche se – come dimostrato dalla più sopra sommariamente descritta “crisi di coscienza” dei mezzi di comunicazione di proprietà di Murdoch – a ridosso della batosta del midterm, qualcosa, ai margini del Partito Repubblicano, ha cominciato a muoversi lungo il discrimine d’un ovvio paradosso. Molti – diciamo tutti quelli che non sono organicamente parte del culto trumpiano – sembrano volere oggi andare “oltre Trump” ed i suoi più o meno “golpisti” desideri di rivincita che non hanno fin qui, prodotto che sconfitte nelle urne (quella dell’ultimo midterm e, prima ancora, quella nelle presidenziali del 2020 e quella del medio termine del 2018). Ma – per tutte le ragioni appena elencate, ovvero, per la irreversibile trasfigurazione trumpista del G.O.P. – “oltre” non significa in alcun modo “contro”. Né, tantomeno, prelude ad un “prima”, ad un ritorno al passato. Vale a dire: al Partito Repubblicano che fu, alla forza conservatrice, talora ultra-conservatrice, ma ancorata ai comuni valori di una democrazia da difendere e praticare. Cronaca e Storia parlano, a questo proposito, un inequivocabile linguaggio. Tutti quelli che, nel nome di quei valori hanno, negli ultimi anni, apertamente sfidato Donald Trump hanno da tempo abbandonato un Partito giudicato irriformabile. Anzi: di quel partito – vedi i cosiddetti “never-Trumpers” – sono oggi i più irriducibili nemici. E quelli che nel Partito sono rimasti, non sono ormai che una manciata di paria senza peso politico, tutti sprezzantemente bollati – come nel caso della “Lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne – con l’infamante sigla di RINO (Republican In Name Only, repubblicani solo di nome).
Molto lunga è oggi, quando il giorno delle elezioni ancora dista più di venti mesi, la lista dei possibili candidati alle prossime primarie repubblicane. Ma solo una – quella dell’attuale governatore della Florida Ron DeSantis – viene considerata, come più avanti analizzeremo, una credibile alternativa all’ex presidente. E, in quanto tale, solo questa viene oggi apertamente sostenuta dagli apparati mediatici – Fox News in testa – che, dopo il disastro del midterm, da Trump (anche se non dal trumpismo) sembrano aver divorziato. Al momento tuttavia – vale a dire: poco prima dello sbocciare della primavera, quando questo articolo è stato compilato – soltanto Nikki Haley, ex governatrice della Carolina del Sud ed ex ambasciatrice all’ONU aveva ufficialmente presentato, in molto tenue e “anonima” contrapposizione a quella di Donald Trump, la sua candidatura alle prossime primarie repubblicane. Tenue, “anonima”, statisticamente fragilissima – i primi sondaggi non le riconoscono che un miserrimo 3 per cento delle preferenze – ma anche, se valutata alla luce di quel che fu, a suo modo storicamente perfetta.
Un passo indietro per meglio chiarire quella che può apparire – anche perché in effetti tale è – una contraddizione di termini. Nel 2013, subito dopo la seconda sconfitta (con candidato Mitt Romney questa volta) contro Barack Obama. L’establishment repubblicano aveva avviato un processo di revisione della propria politica – ufficiosamente e significativamente battezzato “autopsia” – e delle più profonde, strategiche e “demografiche” ragioni della propria sconfitta. Quel processo aveva portato alla stesura d’un documento che, ufficialmente intitolato “Growth and Opportunities Project”, in poco più di cento pagine impietosamente analizzava le ragioni profonde d’una batosta elettorale per molti motivi considerata parte d’una tendenza storica. Di che cosa era “morto” nel novembre del 2012 il Partito Repubblicano? O meglio: di che cosa rischiava di morire non avesse, di fronte ad un nebulosissimo futuro, cambiato rotta? Chi sono, si chiedeva quella “autopsia”, gli elettori che, dopo il 2008, hanno smesso di votare (o hanno scelto di non votare) repubblicano? E perché l’hanno fatto?
il partito degli “stuffy old men”
Lo hanno fatto, rispondeva il rapporto citando una minuziosa inchiesta d’opinione, perché il Grand Old Party veniva da loro percepito come ‘scary’, ‘narrow minded’, ‘out of touch’. Ovvero: come il partito della paura, intellettualmente limitato e distaccato dalla realtà. In sintesi: come il partito degli “stuffy old men”, dei vecchi ammuffiti. Vecchi, maschi, bianchi e d’assai modesto curriculum scolastico. “We’ve got to stop being the stupid party”, dobbiamo smettere d’essere il partito degli stupidi aveva detto, nel presentare quel documento, l’allora molto apprezzato e “futuribilmente” brillante governatore della Louisiana, Bobby Jindal. E, così dicendo, aveva affondato il coltello in quella che, ai vertici del partito, non solo lui percepiva, dopo la sconfitta del novembre 2012, come una delle più infette piaghe della politica repubblicana. Vale a dire: l’ostentato antiintellettualismo che – in dichiarata contrapposizione ad un ipotetico “establishment cultural-mediatico”, nonché, ovviamente, al vituperatissimo “politically correct” – era progressivamente divenuto una dei più visibili vessilli del G.O.P.. E che, a sua volta, altro non era che uno dei risvolti della strategia d’un partito rimasto politicamente, culturalmente e demograficamente immobile in un paese che – con l’avanzare di nuovi e sempre meno “minoritari” protagonisti: donne, ispani, gente “di colore” – andava profondamente trasformandosi.
Bobby Jindal – come tutti i dirigenti repubblicani che, in questi anni, si sono frontalmente contrapposti all’irresistibile ascesa di Trump e del trumpismo – è da tempo scomparso dagli schermi radar della politica attiva. L’ultima cosa che di lui si rammenta è, non per caso, la sua partecipazione, nelle vesti di “candidato del rinnovamento”, alle primarie repubblicane del 2016. Da quelle primarie Jindal era uscito per primo, in punta di piedi ed in umiliante silenzio, senza mai aver superato il tetto del due per cento dei consensi. E da quelle anonime ed ormai incolmabili distanze, aveva assistito al finale trionfo di Donald Trump, un maschio settantenne, bianco ed incolto oltre immaginazione, un energumeno che si burlava dei disabili, che insultava le donne, e che, nel nome di una più grande (ed ovviamente più bianca) America, nonché nel culto di sé medesimo, si proponeva deportare immigrati, bandire mussulmani e costruire, peraltro a spese del Messico, invalicabili muri lungo ogni frontiera. Un garrulo e vanitoso fanfarone che, con l’arroganza e la grossolanità d’un bullo di periferia, divideva il mondo in “winners and losers”, vincenti e perdenti, e che, totalmente impunito, mentiva su tutto e su tutti, senza remore flirtando con i più meschini istinti dall’America più reazionaria e bigotta.
Da quel mortificante esilio politico Bobby Jindal non è più uscito. E di quella sua “autopsia” non restano, oggi, neppure le ceneri. La vittoria di Donald Trump ed i suoi quattro anni di presidenza – sigillati dall’assalto al congresso del 6 gennaio del 2021 – hanno chiuso, e chiuso in senso diametralmente ed irreversibilmente opposto, la parabola della trasformazione del Grand Old Party. Il “partito conservatore ma aperto al nuovo” ipotizzato dalle analisi del 2013, è diventato la copertura del più chiuso ed autocratico dei culti antidemocratici, il punto di raccolta delle più bizzarre e reazionarie teorie cospirative. A tutti gli effetti: il partito della “paura bianca”. Al termine d’un lungo processo, Donald Trump – che della malattia è, non la causa, ma il definitivo sintomo – s’è mangiato in un solo boccone, non solo ogni ipotesi di rinnovamento, ma anche, senza nulla risparmiare, quel restava della ‘intelligenza’ repubblicana: dal quasi nulla che sopravviveva di Abraham Lincoln, al “compassionate conservatism” di Bush padre e dell’establishment pre-reaganiano, dal neoliberalismo di Milton Friedman, all’antistatalismo di Frederick Von Hayek, dall’esasperato individualismo ‘oggettivista’ di Ayn Rand e, persino, all’ancor vivo e nefasto, ma in qualche modo ideologicamente riconoscibile, ricordo dei ‘neocon’ che accompagnarono gli orrori della “guerra infinita” di George W. Bush…
È in questo senso che la candidatura di Nikki Haley appare “storicamente” perfetta. Avesse – anche solo in piccola parte – il “Growth and Opportunities Project” raggiunto i suoi obiettivi, l’ex governatrice del South Carolina, sarebbe stata una, o forse “la”, candidata repubblicana ideale: donna, figlia di immigrati indiani, scevra d’ogni forma di bigottismo e, per personale esperienza, pronta politicamente e culturalmente a confrontarsi, nel nome d’una moderna visione conservatrice – meno governo e meno tasse, più potere ai cittadini – con ad un’America sempre meno “bianca”. Durante le primarie del 2016, questo Nikki Haley aveva detto di Donald Trump, con riferimento al fatto che quest’ultimo aveva, senza batter ciglia, incamerato il sostegno di David Duke, Gran Dragone del Ku Klux Klan: “Mai e poi mai smetterò di combattere contro chi ha scelto di non ripudiare la più apertamente razzista delle organizzazioni”. Ed aveva aggiunto: “Tremo al pensiero che, a scuola, ai miei figli possano insegnare i disvalori di cui Trump è portatore”.
Un rossiniano crescendo di elogi
Altri tempi, altre Nikki. Come molti altri “innovatori”, la Haley non ha, a dispetto di quel “mai e poi mai”, faticato molto per adattarsi a Donald Trump. Lo ha fatto accettando da lui l’incarico di ambasciatrice all’Onu. E lo ha fatto, soprattutto accogliendone, senza riserve – o tacendo le sue riserve – i principi e la guida. In un libro autobiografico pubblicato mesi fa come ovvio viatico per la sua candidatura presidenziale – ed il cui titolo, “With All Due Respect”, col dovuto rispetto, evidentemente mira a rimarcare una fresca e sbarazzina, quasi ribelle, volontà di raccontare “verità scomode” in faccia a “chi comanda” – Nikki Haley ha per ben 163 volte, in un rossiniano crescendo di elogi, fatto enfatico riferimento all’uomo dai cui “disvalori” voleva, un tempo, salvare i suoi pargoli. Senza mezzi termini rivelando, per contro, quale sia oggi, vista finalmente la luce, la prospettiva che più la terrorizza: sarebbe terribile, scrive, se “l’America tornasse ai tempi prima di Trump”.
Per tutto questo, sebbene perfetta sul piano storico (storico d’una storia che non è stata) la Haley è con ogni evidenza – anche se come tale pretende presentarsi – la più inconsistente, fragile e per molti aspetti ridicola alternativa all’uomo che con tanta adorazione ha servito. E che con tanto immutato, anche se ora più silenzioso, ossequio continua oggi a trattare. Impossibile, nel discorso con cui ha lanciato se stessa nella contesa per la nomination repubblicana – un discorso che, all’atto pratico, altro non è che una sequenza di luoghi comuni sulla necessità di affermare “forze nuove” – trovare una sola volta la parola “Trump”. Haley sventola con grande ardore la bandiera della propria gioventù (ha da poco compiuto 51 anni) e baldanzosamente annuncia la volontà di combattere con armi femminili – un “calcio dato con una scarpa con tacco a spillo fa molto più male”, ha detto tra il serio e il faceto – ogni forma di prepotenza maschile. E questo senza mai pronunciare il nome dell’oggetto della sua eroica sfida: quello del presidente che, da lei fino a ieri disciplinatamente servito e riverito, aveva a suo tempo molto chiaramente illustrato quale fosse, in materia di donne, la sua filosofia. A lui, celebre e bello, aveva detto, bastava “Take them by the pussy´, afferrarle per la vagina, perché qualsivoglia femmina gli si concedesse, non solo senza resistenza alcuna, ma con abbandono e gratitudine.
Un’ipocrita rappresentazione di quel poteva essere ma non fu
In breve: richiamando, peraltro in termini assai vaghi e nel nome d’un non identificato avvenire, un passato che non ritorna, Nikki Haley a non ha, in sostanza, fatto che cancellare il presente – quello di cui si pretende alternativa – con i suoi veri, palpabili (e nel caso di Trump, materialmente, ostentatamente e orgogliosamente “palpanti”) prepotenti di sesso maschile. La sua candidatura – da tutti gli analisti ritenuta “a long shot”, destinata ad un quasi certo insuccesso – non è, in fondo, che questo: una rappresentazione in chiave patetico-nostalgico-ipocrita di quel che poteva essere, ma non fu. E del collasso etico-politico del Partito Repubblicano nei suoi ultimi sei anni di vita.
Vale la pena, per afferrare, in tutta la loro volgarità, i termini di questo collasso – nonché per comprendere quanto improbabile sia oggi, non solo per Nikki Haley, ma in pratica per pressoché ogni repubblicano presentarsi come “alternativa” a Donald Trump – ritornare per un attimo alle elezioni di midterm e ad un episodio accaduto in quel di Youngstown, in Ohio, durante un comizio di James David Vance, candidato repubblicano ad uno dei seggi senatoriali di uno Stato da tempo solidamente nelle mani del G.O.P.. Il caso è particolarmente interessante perché il protagonista non è in alcun modo un qualunque “MAGA-republican”, né un qualunque candidato. J.D. Vance – come di norma si presenta – è, infatti, l’autore d’un eccellente libro di memorie familiari – “Hillbilly Elegy”, pubblicato nel 2016 e poi, nel 2020, tradotto da Ron Howard in un film che, grazie soprattutto ad una splendida interpretazione di Glenn Close, ha conquistato un buon numero di nomination all’Oscar – a suo tempo accolto da critica e lettori per quello che in effetti era. Vale a dire: il molto vivido e a tratti poetico ritratto d’una America periferica, dimenticata e disperata (quella profonda degli “hillbilly”, per l’appunto) che, con didascalica chiarezza ed in termini nient’affatto trumpiani, mostrava alle “élite liberali” le ragioni dolorosamente umane dell’allora ancora incompiuta e, per molti aspetti insospettabile ascesa d’un folclorico ed inarticolato “uomo della Provvidenza” dall’impresentabile capigliatura e dall’ancor più impresentabile curriculum politico.
Repubblicano e conservatore, nato e cresciuto in quella realtà, ma capace di uscirne fino a frequentare le più prestigiose università Usa, J.D. Vance era, a quei tempi, l’antitesi del trumpismo. Lo era al punto da paragonare Donald Trump – da lui definito “un buffone”, “un razzista” ed una sorta di nuovo Hitler a stelle e strisce – all’eroina che da tempo andava (e ancora va) facendo strage di vite e di coscienze in quelle profondità sociali “left behind”, lasciate indietro, come trascurabili cascami, dall’incedere delle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione. Entrato in politica e deciso a conquistare il seggio senatoriale di cui sopra, Vance ha tuttavia, presentatosi alle primarie repubblicane, visto le sue ambizioni scontrarsi con la realtà di quello che considerava il suo partito. E, come Nikki Haley, a questa realtà non ha, con la medesima sconcertante facilità, esitato ad adattarsi. Vale a dire: in grave ed incolmabile ritardo nei sondaggi, J.D. Vance ha a lungo corteggiato (ed infine ottenuto) l’endorsment del “buffone” e del “razzista” di cui sopra, in sostanza scegliendo di fargli da “pusher” nello spaccio della droga politico-ideologica (se “ideologico” si può chiamare lo sgangherato culto della personalità di Donald Trump) di cui era il portatore. Ed è così, da pusher del trumpismo, che J.D. le primarie ha infine vinto. Pagando il prezzo che c’era da pagare. Quale prezzo? Quello che, nel corso, per l’appunto, del comizio tenutosi a Youngstown, qualche giorno prima delle elezioni di midterm, lo stesso Trump ha dal pulpito, elegantemente provveduto, con sadica ed umiliante puntualità, a pubblicamente rammentargli.
È vero, ha ricordato l’ex-presidente, in passato J.D. ha detto brutte cose su di me. Ma poi mi ha conosciuto ed ha – come poteva essere altrimenti – imparato ad amarmi. Per questo, bisognoso del mio endorsement, “he kissed my ass”, ha baciato le mie natiche (traduzione edulcorata). E le mie natiche, ha lasciato intendere l’ex presidente, J.D. deve continuare a baciare ancor oggi quando, alla ricerca del voto indipendente-moderato, la logica elettorale suggerirebbe una più prudente esposizione della sua carnale aderenza al culto (nel caso specifico addirittura privo della “t”) del gran leader. Non c’è scampo. Non c’è, nel G.O.P. di Donald Trump, né oblio, né possibile perdono. In una sorta di medievale rito di sottomissione, tutti, anche quelli che, in passato hanno svillaneggiato Donald Trump – anzi, soprattutto quelli che, come J.D. Vance, in passato lo hanno svillaneggiato – di Donald Trump hanno poi dovuto, con maggior o minor intensità a seconda delle circostanze e delle ambizioni politiche, baciare le natiche. Ed è inevitabilmente all’ombra di quelle natiche, che oggi – con molto immaginabili risultati e, quel che più conta, senza smettere d’adorare il capo – tutti devono, se lo desiderano, giocare le proprie carte “alternative”.
“A Trump that out Trumps Trump”…
Il che, al di là dei personali destini di Nikki Haley, di J.D Vance e di quanti si preparano ad entrare nella contesa delle primarie – dalle cronache politiche emergono, con più o meno insistenza e credibilità, una mezza dozzina di nomi – ci porta ad un’ultima ed ancor più essenziale verità: in questo Partito Repubblicano, a tutti gli effetti diventato il partito di Trump, solo Trump – o “a Trump that out Trumps Trump”, un Trump più trumpista di Trump – può, in realtà, rappresentare una realistica (seppur, come vedremo, assai aleatoria) alternativa a Trump. Questo Trump senza Trump, questo Trump più che mai trumpista, ma senza l’ingombrante bagaglio d’un passato “perdente”, questo Trump senza clownerie e scandali, non inseguito da dozzine di cause giudiziarie e dall’ossessione della propria sconfitta nel novembre del 2020, questo Trump forse un po’ più noioso e grigio, ma che può esser presentato in società (quella del famoso “elettorato moderato” dal quale dipendono gli esiti delle elezioni) senza il timore che si metta, per così dire, le dita nel naso, o s’abbandoni ai disdicevoli ed indifendibili atteggiamenti che, da sempre, delineano la personalità, sembra essere, allo stato delle cose, l’attuale governatore della Florida Ron DeSantis, un personaggio la cui candidatura – per quanto non ancora ufficiale e, a parole, neppure ventilata – già è da tempo entrata nel gioco dei sondaggi con più che lusinghieri risultati (DeSantis resta, in genere almeno una decina di punti al di sotto di Trump, ma in alcuni casi minacciosamente l’avvicina o, addirittura, lo supera di misura). Meglio ancora: un personaggio la cui candidatura già è materia d’una vera o propria campagna, entusiasticamente sostenuta da quella parte della destra mediatica – Fox News ed il resto dell’impero di Rupert Murdoch – e dai danarosi gruppi di pressione (quello della famiglia Koch in prima fila) che da Trump hanno divorziato dopo l’assalto a Capitol Hill e dopo la batosta elettorale del midterm.
Come Nikki Haley – e come pressoché tutti i politici che si preparano ad affrontare impegnativi processi elettorali – anche Ron DeSantis ha scritto, o fatto scrivere a qualche professionista, un libro autobiografico che, come pressoché tutte le opere di questo genere letterario – il più tedioso e mediocre, probabilmente, tra i molti proposti dall’industria editoriale – a conti fatti non è che un altro e particolarmente avvilente esercizio d’auto-adulazione. E tuttavia, se più che certo è che, per questo suo libro, DeSantis non vincerà il Nobel per la Letteratura, altrettanto certo è che, salvo imprevedibili contrattempi, “The courage to Be Free, Florida’s Blueprint for America’s Revival”, il coraggio d’esser liberi, la Florida come modello per la rinascita dell’America – questo il suo titolo – è stato concepito come il primo essenziale passo d’un cammino destinato, nelle intenzioni, a portare l’autore, non nella Concert Hall di Stoccolma, ma nella bianca magione di 600 Pennsylvania Avenue, Washington D.C.. Ed è per questo, per presentare al mondo la sua autobiografica ed auto-osannante opera, che Ron DeSantis va di questi tempi – e da non-candidato – girando in lungo ed in largo l’intera Nazione, con particolare attenzione, guarda caso, a quegli Stati che, nella molto contorta logica elettorale americana, dai veri candidati vengono considerati chiave per il lancio delle primarie. Quale storia ci raccontano, dunque, questo libro e questa (non)campagna?
Il coraggio di impedire agli altri de’esser liberi
Come Nikki Haley nel suo libro, anche Ron DeSantis non risparmia – seppur con meno sperticata enfasi – lodi per Donald Trump (che a suo tempo, è bene ricordare, attivamente appoggiò la sua candidatura a governatore della Florida). Ma contrariamente a Nikki Haley, che affronta il futuro rievocando con molto tenui accenni un “pre-trumpiano” passato che non torna, Ron DeSantis guarda al contrario ad un presente e ad un futuro – entrambi da lui già brillantemente delineati in Florida – che, per la loro iper-trumpista natura possono ormai, senza attaccare Trump, prescindere da Trump. Grazie di tutto, Donald. Sei stato grande, ma adesso possiamo fare – e fare molto meglio – senza di te.
Che cosa è, dunque, quel che Ron DeSantis in Florida già ha fatto e si propone di continuare a fare – a beneficio del mondo intero e, presumibilmente, nelle vesti di presidente – nel resto degli Stati Uniti d’America? In che cosa consiste “the blueprint”, il progetto che, sull’esempio della Florida, è destinato a salvare l’America? E, soprattutto, da che cosa l’America deve esser salvata? Tirar in ballo George Orwell – e questo anche nel caso, come il presente, d’una comparazione tutta in negativo – è di certo un modo per concedere a DeSantis ed all’opera sua un immeritato onore. E tuttavia quasi impossibile, letta qualche pagina del suo libro e data una rapida occhiata alle cronache politiche della Florida sotto il suo comando, non pensare ai principi, o meglio, alle tre verità – la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza – che, notoriamente, regolavano la vita in Oceania.
Una farsesca riedizione del “Grande Fratello”
Il “coraggio di essere libero” millantato da DeSantis altro infatti non è – in una farsesca ma non per questo meno tenebrosa e dannosa riedizione del “Grande Fratello” – che un tentativo di limitare, nel nome d’una libertà superiore, la libertà, anzi, le libertà degli altri (laddove per “altri” si intendono tutti coloro che non appartengono alla tua parte politica o che non la pensano come te). Ron De Santis ha” il coraggio di esser libero” – e di rendere davvero liberi i cittadini nel cui nome governa – perché, come gli antichi giudici della Santa Inquisizione, non esita ad affrontare con ogni possibile mezzo il Male che li schiavizza. Ron DeSantis non ha ovviamente (non ancora almeno) ripristinato la tortura, né ha mandato al rogo quanti si negano alla libertà da lui generosamente ed audacemente offerta, ma nei suoi due anni di governo ha proposto e fatto approvare da un Congresso dove gode di ampia maggioranza un’industriale quantità di leggi e decreti che il Male implacabilmente affrontano sempre ed ovunque si trovi, ma soprattutto dove si trasforma, riproducendosi, in idee, cultura, stili di vita, futuro. Nelle scuole, nelle biblioteche e nelle librerie, nelle università, nei giornali, in ogni anfratto della cosiddetta “società civile”, nella burocrazia (il famoso “deep State”) e, persino, nei consigli d’amministrazione delle grandi corporation.
“Wokeism”, il Male assoluto
Ovvia domanda: che cos’è, per Ron DeSantis, il Male? E questa è la illuminante risposta (illuminante perché mette in luce quella che ormai da tempo è la strategia, o la non-strategia, o quel che resta di una strategia che fu, dell’intero Partito Repubblicano ai tempi di Trump). Male, per DeSantis (e per l’intero G.O.P.) è il “wokeism”, un neologismo che, derivato dall’aggettivo woke, come “conscio ed opposto alle ingiustizie sociali”, il Cambridge Dictionary così molto anodinamente definisce: “Termine, usualmente dispregiativo, che indica la promozione di idee liberali e progressiste, espressione di sensibilità nei confronti di discriminazioni e pregiudizi sistemici”. “Wokeism” – o “wokeness” – è però, nella visione repubblicana diventata il grido di battaglia di Ron DeSantis, qualcosa che va ben oltre il semplice “dispregiativo”. “Wokeism” è, in realtà, un vortice di perdizione, un indistinto, orrido e satanico magma nel quale confluisce tutto quello che corrompe le coscienze e cancella i valori – Dio, Patria, Famiglia – che dell’idea di America sono da sempre la base. “Wokeism” è un virus che avvelena le menti, soprattutto quelle deboli dei bambini, dal “wokeism” costretti ad odiare la propria razza e, persino, a rinnegare il proprio sesso. Non sorprendentemente, come nelle più allucinate teorie del QAnon – ormai, come si è visto, tutt’altro che marginali all’interno dell’odierno G.O.P. – al fondo di ogni forma di “wokeismo” c’è quasi sempre il più sordido dei peccati: la pedofilia.
In ultima (e talora anche in prima) analisi, pedofili sono, per DeSantis e per il Partito Repubblicano, tutti coloro che reclamano una “identità di genere”. Pedofili sono i “marxisti radicali” che, a loro volta controllati dalle più estreme frange del movimento LGBTQ, controllano l’Amministrazione Biden. Pedofili – le cui idee non sono che pratiche di “grooming”, verbo di norma usato per la strigliatura dei cavalli, ma dall’ “anti-wokeismo” adoperato per indicare le più diverse, laide e depravate forme di deturpazione dell’innocenza infantile – sono gli insegnanti che propugnano la necessità di una più diffusa educazione sessuale nelle scuole. E, non solo pedofili, ma volgari seminatori d’odio e di divisione sono tutti coloro che, nelle scuole o in qualunque altro luogo, pretendono d’insegnare la storia dello schiavismo e della suo più avvelenato lascito: il razzismo sistemico che, ancor oggi, caratterizza la vita di gran parte della società americana.
Nella sua indefessa lotta contro il Male – questo Male – RonDeSantis ha, legge dopo legge, decreto dopo decreto, imposto molti silenzi, chiuso molte porte, proibito molti corsi (tutti quelli dedicati alla “Black History) e censurato molti libri. Troppi silenzi, troppe porte, troppe censure, in effetti, per essere elencate nella loro interezza. Tra le vittime più illustri e significative – tutte brutalmente epurate, nel nome della lotta al “wokeism” dagli elenchi dei libri scolastici – anche un classico della letteratura per l’infanzia: “The Storyteller” di Jodi Picoult, che racconta d’una bambina, nipote d’una vittima dell’Olocausto, che incontra un ex ufficiale delle SS. La ragione? Troppe memorie violente. E, ancor più imperdonabile, la descrizione di un suicidio assistito. E poiché anche tra i numeri si nasconde oggi il demonio, l’implacabile mannaia di DeSantis non ha risparmiato neppure i testi di matematica. Colpevoli, pare, di usare i dati della povertà in America nelle lezioni dedicate alla statistica, almeno una quindicina sono stati mandati al macero. E la mano di DeSantis non ha tremato– quale miglior prova del suo “coraggio d’esser libero” – neppure quando s’è trattato di colpire una “vacca sacra” ed una super-potenza come la Disney Coprporation e il suo famoso e frequentatissimo “DisneyWorld” in quel di Orlando, fin dalla nascita di fatto una sorta di indipendente e, dal punto di vista delle facilitazioni economico-fiscali, super-privilegiato enclave.
DeSantis vs Mickey Mouse
È accaduto quando l’allora CEO della super-corporation si è permesso di pubblicamente criticare la legge che, varata da DeSantis e conosciuta come la “Don’t say gay”, non dire gay, proibisce ogni accenno alla omosessualità nelle scuole. Senza esitare il governatore della Florida ha risposto alla critica annunciando – e poi di fatto varando al grido di “è finito il tempo dei privilegi” – un nuovo statuto che regola i rapporti con la Disney. Una rivoluzione? Una testimonianza, di assoluto valore anti-woke? Una sfida ai cosiddetti “poteri forti”? Non proprio. Nel nuovo statuto, infatti, tutti i privilegi economici e fiscali della super-corporation – che, sia detto per inciso aveva a suo tempo generosamente contribuito alla campagna elettorale di DeSantis – rimangono assolutamente intatti. Viene però stabilita, con fini anti-woke, un “Oversigfht Board”, una sorta di “commissione di vigilanza morale” alla cui testa DeSantis ha molto opportunamente posto un uomo fidato: Ron Peri, capo d’una comunità religiosa e convinto assertore d’una non propriamente scientifica tesi: quella secondo la quale l’omosessualità è una conseguenza dell’eccesso di elementi estrogeni contenuti nella – ovviamente woke – acqua potabile .
E non si tratta solo di DeSantis e della sua mannaia. Come ha di recente scritto sul Washington Post Jennifer Rubin, analista politica super-conservatrice orgogliosamente entrata nelle file dei “never-Trumper “, l’anti-wokeism ha assorbito, ormai, in qualsivoglia latitudine del G.O.P., ogni capacità strategica, ogni ideologia ed ogni progettualità politica del Partito Repubblicano. Tutto comincia e tutto finisce con il “wokeism”. Niente più proposte economiche, niente più idee. Soltanto la rivendicazione d’una “guerra culturale” senza quartiere, i cui termini, lo scorso 8 di febbraio – in quella che era la ufficialissima risposta del G.O.P. al tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione del presidente Joe Biden – la governatrice dell’Arkansas Sarah Huckabee Sanders (già addetta stampa di Donald Trump), ha definito con allucinata chiarezza. Ci troviamo, ha detto, di fronte ad una “scelta tra la normalità e la follia”.
Normalità contro follia
Quale “normalità”? E quale “follia”? La normalità, ha spiegato la Huckabee, d’ un partito, il Repubblicano, che per la prima volta nella storia dell’Arkansas, ha eletto lei – una donna – alla guida di uno Stato. E la follia d’un presidente che, ostaggio “woke” della sinistra più distruttiva ed estrema, non è più nemmeno in grado (ovvia è qui il riferimento ad alcune correnti e in verità assai discutibili teorie “trans-fluide” n.d.r.) di “dire che cosa sia una donna”.
Ultima ed inevitabile domanda: quante concrete possibilità ha Ron DeSantis di battere Trump nelle primarie del Partito Repubblicano? Impossibile è, a tanta distanza dal voto, fare credibili previsioni. Tutto può accadere. Tutto può cambiare. Ma – seppur con questa indispensabile premessa – va aggiunto che ben poche sembrano essere, allo stato delle cose, le chance che la logica concede al governatore della Florida. Poche perché, benché lievemente indebolito dalla sconfitta nel midterm, Trump continua a mantenere, nella maggioranza dei sondaggi, un solido vantaggio su ogni potenziale rivale. Poche perché un eventuale (e molto probabile) aumento dell’offerta – vale dire la discesa in campo, oltre la Haley, di altri aspiranti “nominee” – non può che favorire, come già accadde nel 2016, Donald Trump. Poche soprattutto perché, per quanto indebolito e per quanto “divorziato” dagli apparati mediatici che l’hanno sostenuto, Trump è, dentro il G.O.P., diventato un culto. E perché, in quanto tale, è di fatto “inaffondabile”. Dovesse, per ipotesi, Ron DeSantis davvero batterlo nelle primarie, più che probabile è che Trump non accetti la sconfitta e – con catastrofiche conseguenze per il partito – continui la campagna come indipendente, trascinandosi dietro una elevatissima percentuale dell’elettorato repubblicano.
Qualcuno ha ipotizzato che ad aprire la strada a DeSantis – o ad altri candidati anti-Trump – potesse essere, nei mesi a venire, una, o più, delle molte vicende giudiziarie che, come spade di Damocle, pendono sul capo dell’ex presidente. Ma anche questa altro non è che una pia illusione. Donald Trump già ha dichiarato che continuerà la sua corsa alla Casa Bianca anche nel caso che qualcuno dei giudici che su di lui vanno indagando ufficialmente lo ponga sul banco degli imputati. E del tutto evidente che una o più eventuali incriminazioni altro non farebbero, presso la base repubblicana, che aggiungere un alone di martirio alla sua campagna. Non per caso, a metà marzo, proprio Trump ha provveduto – chiamando il “suo” popolo alla protesta ed alla rivolta – a diffondere sui social, con esaltati accenti, la notizia di un possibile suo prossimo arresto, in quel di New York, per il vecchio e sordido caso dei danari da lui pagati nel 2016 _in cambio del suo silenzio) a Stormy Daniels, una porno-star con la quale aveva avuto una relazione extraconiugale.
Qualcuno ha ipotizzato che ad aprire la strada a DeSantis – o ad altri candidati anti-Trump – potesse essere, nei mesi a venire, una, o più, delle molte vicende giudiziarie che, come spade di Damocle, pendono sul capo dell’ex presidente. Ma anche questa altro non è che una pia illusione. Donald Trump già ha dichiarato che continuerà la sua corsa alla Casa Bianca anche nel caso che qualcuno dei giudici che su di lui vanno indagando ufficialmente lo ponga sul banco degli imputati. E del tutto evidente che una o più eventuali incriminazioni altro non farebbero, presso la base repubblicana, che aggiungere un alone di martirio alla sua campagna. Non per caso, a metà marzo, proprio Trump ha provveduto – chiamando il “suo” popolo alla protesta ed alla rivolta – a diffondere sui social, con esaltati accenti, la notizia di un possibile suo prossimo arresto, in quel di New York, per il vecchio e sordido caso dei danari da lui pagati nel 2016 _in cambio del suo silenzio) a Stormy Daniels, una porno-star con la quale aveva avuto una relazione extraconiugale.
Semplicemente: Il Partito Repubblicano, nel 2016, s’è faustianamente consegnato nelle mani di Donald Trump. E – come già sottolineato – non può oggi liberarsi di lui senza distruggere se stesso. Questo lo sanno gli uomini dell’establishment repubblicano. Questa lo sa Ron DeSantis costretto all’impossibile missione di rimpiazzare Trump senza attaccarlo o, peggio, fingendo che non esista. E questo lo sa Donald Trump che, già ha provveduto a qualificare DeSantis – o “DeSantimonious, da sanctimonious, bacchettone, falso moralista – come l’ultimo e più miserabile dei RINO (i falsi e detestabili Republicans In Name Only, repubblicani solo di nome).
“I am your warrior. I am your justice…
Si vedrà. Di certo c’è che, in vista dello scontro, Donald Trump ha di nuovo scavalcato a destra se stesso, di se stesso mostrando, di fronte a platee più ridotte rispetto al passato, ma egualmente osannanti, un’ancor più tenebrosa ed inquietante immagine di “uomo della Provvidenza”. Nel suo ultimo intervento alla assemblea del CPAC – il più poderoso dei gruppi di pressione reazionari, ormai completamente al suo esclusivo servizio – l’ex presidente si è presentato come l’unico ed ultimo ostacolo frapposto tra il mondo e l’Apocalisse. Soltanto lui, ha detto, può evitare l’esplodere di una Terza Guerra mondiale. Soltanto lui può salvare l’America e il mondo da una totale distruzione. E per questo soltanto lui può, anzi, deve – cancellando il furto del 2020 ed in quella che a tutti gli effetti sarà, vincere o morire, una “battaglia finale” – uscire trionfatore dalle prossime elezioni presidenziali. “I am your warrior. I am your justice. And for those who have been wronged and betrayed: I am your retribution”. Io sono il vostro guerriero, Io sono la vostra giustizia. E per quelli che hanno subito torti e sono stati traditi: io sono la vostra vendetta…”.
Dall’altro lato di questa “battaglia finale”, intanto, Joe Biden l’ultraottantenne presidente in carica sembra, con rinnovata energia, prepararsi ad una nuova corsa. All’orizzonte – tramontata da tempo e per molte ragioni la stella della vice-presidente Kamala Harris – non si scorgono al momento possibili sfidanti. A dispetto di sondaggi che da un paio di mesi vedono il suo indice di gradimento in crescita, ma ancora abbondantemente al di sotto del 50 per cento (e per il disappunto dei repubblicani che lo descrivono come un rimbambito senza speranza), il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione (SOTUS) è stato, lo scorso febbraio, marcato da un molto energetico e quasi canzonatorio ottimismo. Molte – anche se la pubblica opinione non sembra riconoscerlo – sono le cose fatte. E molte quelle che restano da fare. Dunque: “Let’s finish the job”, finiamo il lavoro, ha detto Joe Biden presentando tutti i provvedimenti che, da lui promossi, hanno in questi mesi, in tempi molto difficili, tenuto a gala l’economia USA. Nella marcia verso il 2024, anche Biden sembra, come Trump, inarrestabile. Ed inarrestabile è davvero, a dispetto dell’età, proprio perché inarrestabile è Trump. Tutto divide Joe Biden e Donald Trump. Tutto, tranne una cosa: entrambi, sia pur per opposte ragioni, desiderano che Trump sia candidato.
Così, paradossalmente, stanno le cose. Le prossime elezioni presidenziali saranno, con ogni probabilità, una replica – o, per Trump, l’agognata rivincita, – di quelle del 2020. E questo a dispetto di sondaggi che mostrano come, in realtà, ben più del 60 per cento degli americani aborrisca questa prospettiva. Dimezzata dalla involuzione autocratico-trumpiana del Partito Repubblicano e sempre più estranea alla volontà dei votanti, la “democrazia più antica del mondo” sembra destinata, come nel celebre film “Groundhog Day”, con Bill Murray, a ripetere in continuazione se stessa.
La domanda è: fino a quando?