Eccellente analisi di Aldo Garzia su Il Manifesto
La novità cilena del presidente Gabriel Boric sta nell’aver guidato una coalizione che all’italiana potremmo chiamare di centrosinistra largo (Frente amplio con dentro democristiani, socialisti, liberali più il Partito comunista) che ha saputo rappresentare uno schieramento pragmatico senza porre pregiudiziali ideologiche alla propria azione. Una coalizione, inoltre, che ha dato priorità al tema della svolta politica in un Cile chiamato a liberarsi dal fantasma del generale Pinochet ponendo fine alla lunga transizione democratica avviatasi nel 1988, ben 15 anni dopo il golpe del 1973. Quindi, una coalizione in cui convivono sinistra moderata e radicale come del resto sta avvenendo in Spagna (il governo Podemos-Partito socialista) e in altre realtà europee. Le “due sinistre” sono del resto destinate alla sconfitta, se non si contaminano e non provano a convivere.
La giovane età del neopresidente cileno (35 anni), la sua gavetta politica fatta prima come leader studentesco e poi di lotte dal segno antiliberista rende Boric – altra sua caratteristica – libero dagli ancoraggi con la sinistra che si è riconosciuta in passato nelle esperienza di Cuba, Venezuela, Nicaragua o in quella massacrata da Pinochet e dagli altri generali golpisti che hanno dominato in America latina. Boric rappresenta infatti una nuova sinistra meticcia nei riferimenti culturali e ideali capace di criticare l’autoritarismo dispotico di Ortega al potere nel Nicaragua, l’eccessivo immobilismo pur resistente di Cuba, l’impasse del Venezuela (basta ripercorrere su internet le sue dichiarazioni in campagna elettorale a proposito di quelle realtà per capire meglio la portata della novità politica che rappresenta).
Boric, ora presidente, ha sconfitto nelle primarie della propria coalizione Daniel Jadue, il candidato del Partito comunista che ha saputo superare il tradizionale settarismo. Deputato, storico leader dei movimenti studenteschi, Boric si è presentato con un programma fortemente ambientalista e potenzialmente antiliberista, puntando alla completa decarbonizzazione del Cile. Annunciando che il suo sarà «il primo governo ecologista della storia del Cile», si è dichiarato pure femminista. Boric critica il neoliberismo e vuole rendere pubblico il sistema sanitario e quello pensionistico decentralizzando i poteri dello Stato. Intende quindi costruire il welfare in un paese dove tutto è stato privatizzato dai Chicago Boys che ne hanno fatto in passato un laboratorio neoliberista. «Per vivere meglio» è così diventato uno slogan semplice e mobilitante della campagna elettorale di Boric con poca dose di ideologia astratta. Ciò non taglia i legami con il passato, come dimostra l’omaggio ripetuto di Boric alla figura di Salvador Allende.
Ecco così che con il neopresidente cileno sembra prendere forma una nuova sinistra latinoamericana meticcia plurale nei riferimenti culturali e ideali: ecologismo, femminismo, socialismo e tracce di neocomunismo oltre all’orizzonte dei diritti sociali e civili. Queste identità devono poter convivere in nuovi soggetti-partito o in coalizione e ora – in Cile, Honduras, Perù, Bolivia e forse domani nel Brasile di un altro mandato a Lula – al governo grazie a vittorie elettorali recenti. È questa la lezione cilena che si accompagna alla conclusione della lunga transizione post dittatura di Pinochet e che dovrà misurarsi con la riscrittura della Costituzione in una vera e propria fase costituente di cui sarà garante Boric, il quale intanto dovrà consolidare i propri consensi in un paese uscito dalle urne diviso a metà e che rischia la paralisi legislativa perché i margini di maggioranza parlamentare sono risicati.
Nell’immediato, occorre poi non ripetere gli errori della sinistra latinoamericana al governo. Se il Venezuela è allo stremo di una crisi economica lacerante e in Brasile si è formata in Parlamento una maggioranza anti-Roussef che ha permesso l’incarcerazione per lungo tempo di Lula oltre all’avvento alla presidenza di un fascista come Jair Bolsonaro, le responsabilità non sono solo “esterne”. Il chavismo bolivariano, dopo la morte di Chávez, ha perso smalto e progetto sempre più accerchiato dai suoi nemici. In Brasile, la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori e in alcuni settori dello stesso governo di Lula che dopo alcuni successi economici arrancava di fronte alle richieste sociali di una inedita classe media. In Bolivia, l’ostinazione di Morales a ricandidarsi per la quarta volta come presidente ha favorito la rivincita della destra poi nuovamente scalzata elettoralmente dalla sinistra del Movimento verso il socialismo.
Sul terreno sociale ed economico si è intanto logorato nelle esperienze di governo della sinistra il modello di sviluppo interamente incentrato sugli idrocarburi (lo segnalava da tempo il movimento dei cooperanti internazionali e i critici da sinistra di quelle esperienze). In Brasile, Venezuela, Bolivia – per fare degli esempi – non si sono create alternative al cosiddetto «capitalismo estrattivo». Ora serve un sinistra plurale che sappia sperimentare nuove politiche economiche.