Era già accaduto quando, il 23 di gennaio, in quel di Cucuta ai confini con la Colombia, Juan Guaidò s’era posto alla testa d’un convoglio di aiuti umanitari pronto a varcare la frontiera. È accaduto di nuovo il 30 di aprile quando, fiancheggiato da Leopoldo López e da un gruppo di uomini in divisa, Juan Guaidó è tornato ad annunciare l’inizio della “fase finale” del governo illegittimo ed usurpatore di Nicolás Maduro. Condizione di questo inizio e di questa fine: l’appoggio delle forze armate, pronte ad abbandonare il presidente illegittimamente eletto ed a schierarsi – cosa che già avrebbero dovuto fare ma non fecero il 23 gennaio – a favore d’un processo di transizione democratico.
Già la mattina seguente, mentre nelle strade di Caracas e di altre città si fronteggiavano manifestazioni contrapposte, era tuttavia evidente che quella condizione non s’era concretizzata. E che le forze armate continuavano – praticamente nella totalità dei loro vertici – a sostenere Maduro e la sua dittatura, come testimoniato dalle ripetute dichiarazioni del ministro della difesa, generale Vladimir Padrino López e dalle r appareiterateizioni del medesimo Maduro circondato da militari a lui osannanti.
Che cosa aveva spinto, dunque, il giovane Guaidó ad annunciare con tanto frettolosa solennità l’inizio della fine della dittatura? Difficile dirlo. Stando a quanto sostenuto dai più alti rappresentanti della diplomazia USA – ovvero dalla banda di nostalgici della “Monroe Doctrine” che circondano Donald Trump – il sunnominato Vladimir Padrino, il presidente del Tribunale di Giustizia, Maikel Moreno ed il capo della guardia presidenziale, Ivan Hernández, già avevano concordato (non si capisce bene con chi ed in che termini) l’uscita di scena di Maduro, ma hanno poi cambiato idea (“hanno spento i cellulari” ha spiegato senza alcuna ironia, l’incaricato speciale per il Venezuela Eliott Abrams) su pressione della Russia. Molto più probabile e logica appare tuttavia la tesi di quanti sostengono che i russi – o chi per loro – abbiano teso al giovane Guaidó (ed agli Usa, che, nella vicenda venezuelana continuano a mantenere un ingombrante, controproducente ed assai “bullistico” protagonismo) una trappola nella quale è caduto, in compagnia di John Bolton, Mike Pompeo, Eliott Abrams ed altri guerrafondai al sevizio del gran ciarlatano che oggi occupa la Casa Bianca.
Non manca chi crede – e chissà che non abbia ragione – che la (seconda) “fase finale” svanita nel nulla il primo di maggio non sia stata, in realtà, che una sorta di antipasto. E che, avendo questo “antipasto” rivelato le crepe che, dietro la facciata, affliggono l’alleanza tra Maduro e le Forze Armate, la portata principale (ovvero: la caduta di Maduro) sia ormai in arrivo. Quella che però sembra davvero in arrivo è, al momento, soltanto l’ondata di repressione governativa in risposta al “golpe” che non fu. E quel che si vede, nel futuro del Venezuela, non è, per ora, che una fase di stallo sullo sfondo di un paese in rovina.