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Trump+Musk.“The party of stupid” conquista gli USA

“We’ve got to stop being the party of stupid”, dobbiamo smettere d’essere il partito degli stupidi. Ieri Donald J. Trump è trionfalmente tornato alla presidenza degli Stati Uniti d’America. E vale la pena partire da qui, da questa frase, per cercare di capire le ragioni o, quanto meno, per cogliere la portata e le possibili conseguenze di quello che è a tutti gli effetti uno straordinario evento, un indiscutibile punto di svolta (forse un punto finale) nella storia della “più antica democrazia del mondo”. E, partiti da qui, continuare quindi a viaggiare nel tempo per approdare infine, al termine d’una più che decennale odissea, in un’isola che solo qualche giorno fa è emersa nelle più torbide acque di quella che è certo stata una delle più torbide campagne presidenziali fin qui consumatesi negli USA. Un’isola d’immondizia (“a floating island of garbage”) che – “called Puerto Rico”, chiamata Puerto Rico – va galleggiando nell’oceano Atlantico.

La frase di cui sopra – la prima, quella relativa a “the party of stupid” – risale, infatti, a quasi 12 anni fa. Ed a pronunciarla era a suo tempo stato Bobby Jindal, allora governatore della Louisiana, durante il tradizionale ‘winter meeting’, la riunione d’inverno del Republican National Commitee. Era il 25 gennaio del 2013 e la sonora sconfitta elettorale di Mitt Romney, il candidato repubblicano contrapposto al presidente uscente, Barack Obama, era vecchia d’appena un paio di mesi. Il che inevitabilmente trasformava quell’incontro dello Stato Maggiore del “Grand Old Party” nel primo atto d’un processo di contrizione e revisione. O, più esattamente, come molti scrissero, nella prima puntata di quella che intendeva essere una spietata autopsia del proprio cadavere.

Un partito troppo bianco e troppo vecchio

Di che cosa era “morto”, due mesi prima, il Partito Repubblicano? Per l’appunto: di “stupidità”, aveva allora provocatoriamente risposto Bobby Jindal, primo governatore d’origine asiatica nella storia degli Stati Uniti. E, così dicendo, aveva affondato il coltello in quella che non solo lui, dopo quella sconfitta, percepiva come una delle più infette piaghe della politica repubblicana. Vale a dire: l’ostentato antiintellettualismo che – in dichiarata contrapposizione ad un ipotetico “establishment cultural-mediatico”, nonché, ovviamente, al vituperatissimo“politically correct” – era progressivamente divenuto una dei più visibili vessilli del GOP. E che, a sua volta, altro non era che uno dei risvolti della strategia d’un partito rimasto politicamente e demograficamente immobile in un paese che andava profondamente trasformandosi.

Il rimedio? In una molto dettagliata analisi, pubblicata appena un mese più tardi sotto il titolo “Growth and Opportunities Project”, il partito aveva offerto un minuzioso esame dei voti perduti. Chi sono gli elettori che, dopo il 2008, hanno smesso di votare (o hanno scelto di non votare) repubblicano? E perché l’hanno fatto? Lo hanno fatto, rispondeva il rapporto citando i dati raccolti da un sondaggio all’uopo commissionato, perché il Grand Old Party veniva da loro percepito come “scary”, “narrow minded”, “out of touch”. Ovvero: come il partito della paura, intellettualmente limitato e distaccato dalla realtà. In sintesi: come il partito degli ‘stuffy old men’, dei vecchi ammuffiti. Vecchi, maschi, bianchi e d’assai modesto curriculum scolastico (gli “stupidi”, per l’appunto), stoltamente impantanati nel passato, spaventati dai flussi migratori che, praticamente da sempre, vanno cambiando il Paese, cascami avversi ad ogni sfumatura d’ambientalismo, sospettosi verso ogni forma di scienza e, per contro, disposti ad accettare e promuovere le più bizzarre teorie cospirative. Conclusione: per mantenere qualche seria possibilità di riconquistare la Casa Bianca, il GOP doveva ripulire la propria immagine ed allargare la propria base elettorale adattandola ad una realtà in rapida trasformazione. Doveva ristabilire, o dove già c’erano prendere più visibili i contatti con le élite intellettuali ed estendere il proprio messaggio a minoranze che, se valutate nel loro complesso, ormai da tempo non sono più tali: donne, “latinos”, afro-americani, immigrati d’ogni origine. Il Partito Repubblicano doveva cessare d’essere – per tornare all’appello di Jindal – “the stupid party”: bianco, maschio ed incolto…

Questo sosteneva agli albori dell’anno di Signore 2013 l’establishment del Partito che nella notte tra martedì e mercoledì scorso s’è perentoriamente riappropriato della Casa Bianca guidato da Donald J. Trump, un personaggio che – a dispetto del suo molto massiccio make-up color arancione – più bianco, maschio ed incolto, “stupido” per l’appunto, non potrebbe essere. E che proprio per questo, perché impunemente, ostentatamente bianco, maschio ed incolto – ovvero per la sua aperta, inequivocabile e stupidamente naturale avversione nei confronti di immigrati, minoranze etniche, donne e qualsivoglia sfaccettatura di cultura – ha solo non vinto, ma stravinto oltre ogni più pessimistica (o ottimistica) previsione la corsa alla presidenza.

 Come è potuto accadere? Come ha potuto la ruota della Storia girare in una direzione tanto diametralmente opposta a quella che l’allora leadership del Partito Repubblicano ed il senso comune avevano quasi all’unisono ipotizzato nel nome della propria continuità all’interno dell’ “esperimento democratico” chiamato America?

Agli albori della “democrazia piu antica del mondo”

La risposta parte, ovviamente da molto lontano. Parte, anzi, dall’inizio. Ovvero: dal fatto che la “democrazia più antica del mondo”, nata su basi egualitarie e illuministe, ma alimentata da un’economia in parte sostanziale basata sulla schiavitù – quella che i padri fondatori eufemisticamente chiamarono “la peculiare istituzione” – sempre si è, per restare nella metafora, trascinata appresso una “contro-ruota”, una controcorrente di razzismo e xenofobia, aperta al fanatismo religioso e strutturalmente antidemocratica. È, quella di questa contro-ruota”, una storia lunga, continuata e, per buona parte, istituzionale. Come istituzionale fu alle origini lo schiavismo. E come istituzionali furono, in seguito, la segregazione razziale negli Stati del Sud e le molte leggi “anti-stranieri” che, nel corso d’un quarto e passa di millennio, hanno scandito la Storia di quello che nella sua parte migliore, e non senza molte buone ragioni, ama definire se stesso “un paese di immigrati”. Non fu forse proprio Adolf Hitler a tessere, nel suo “Mein Kampf”, sperticate lodi per il Johnson-Reed Act del 1924 (per la cronaca: ufficialmente abolito solo nel 1965, nel quadro della battaglia per i diritti civili) che su basi apertamente razziste ed eugenetiche – evitare “the mixing of races”, la mescolanza di razze era il suo scopo dichiarato – stabiliva “quote” tese a drasticamente limitare l’immigrazione dal Sud e dall’Est Europa (o, volendo ricorrere all’elegante gergo trumpista oggi vittorioso nelle urne: dagli “shithole countries”, i paesi del buco del culo di quei tempi)

Per molte tappe – troppe per essere qui efficacemente ripercorse – è passata questa storia. E la sua lunga parabola s’è infine chiusa – controcorrente e sotto le più imprevedibili ma a loro modo logiche insegne – nel 2016, giusto nella tornata elettorale che, secondo la “autopsia” del 2013, doveva per l’appunto segnare la fine di “the party of stupid”. Nelle primarie di quell’anno, chiamate a scegliere chi doveva sfidare Hillary Clinton, pressoché certa candidata del Partito Democratico, nella corsa post-Obama alla Casa Bianca, i vertici del GOP avevano messo in vetrina un’ampia e variegata scelta di candidati “intelligenti”, uno dei quali, simbolicamente, era proprio Bobby Jindal. L’immigrato Bob Jindal. In tutto ben 15 nomi con un più o meno brillante – brillante dal punto di vista della tradizione del “Partito di Abraham Lincoln” – curriculum politico. O meglio 14 nomi più uno: Donald J. Trump, dai più considerato una figura folcloristica, una parentesi, una sorta di divertente e marginalissima nota a piè di pagina, se non proprio una barzelletta.

Trump scendeva in campo per “fare l’America di nuovo grande”. Ed al suo arco non aveva, apparentemente, che una spuntatissima freccia politica. Spuntatissima, ma in grado di trafiggere, come quella di Cupido, i cuori dell’America “stupida” e razzista, quella dalla quale, guardando a futuro, il Gotha repubblicano voleva distanziarsi. Già quattro anni prima Trump aveva infatti, senza successo, provato a scendere in campo, sventolando un’unica credenziale: la verità, finalmente, sul “vero” luogo di nascita del primo presidente nero della storia d’America. Obama, sosteneva Trump riprendendo una ridicola teoria in circolazione da tempo, è nato in Kenya. E per questo – sancendo la Costituzione che solo i nati in America possono assurgere alla presidenza – era a tutti gli effetti un usurpatore. Per provarlo al di là d’ogni ragionevole dubbio, andava in quei giorni ripetendo Trump di talk-show in talk-show, lui, Donald Trump già aveva provveduto ad inviare suoi detective in quel di Honolulu (la città hawaiana nella quale Obama era ufficialmente nato). E già aveva da loro ricevuto primi ed “assai interessanti” rapporti. Era, naturalmente (o, se si preferisce, trumpianamente) tutto falso. Falso che Barack Obama fosse nato in Kenya, falso che Trump avesse mandato i suoi ispettori ad Honolulu e falso, com’è ovvio, che questi ultimi gli avessero inviato rapporti di sorta.

La vendetta degli stupidi. E dei bugiardi

Ora, quattro anni dopo, Trump era tornato in campo, continuando imperterrito a sventolare quella falsa credenziale, ma con un ancor più diretto e volgare appello all’America “stupida”. L’America che lui voleva “far tornare grande” era ovviamente – in un più che ovvio sottinteso – l’America bianca. E di quell’America quasi d’acchito era diventato il leader indiscusso, vincendo, con la naturalezza di chi raccoglie un frutto ormai maturo, primaria dopo primaria. Alla guida del “partito degli stupidi” che doveva essere liquidato, Donald Trump si mangiò in un sol boccone quel che ancora restava della intellighenzia repubblicana. E, non per caso, il primo a cadere tra i suoi 14 rivali, fu proprio il governatore della Louisiana Bobby Jindal, ingloriosamente uscito sbandando alla prima curva, dopo non aver mai raggiunto il 5 per cento dei voti.

Del Partito Repubblicano in quelle primarie del 2016, Donald Trump si divorò tutto, senza nulla risparmiare e senza nulla capire di quel divorava: dal poco o dal nulla che ancora sopravviveva di Abraham Lincoln, al “compassionate conservatism”, dal neoliberalismo di Milton Friedman e di Frederick Von Hayek che fecero da sfondo (uno sfondo che perdura) al crescere del reaganismo, all’esasperato individualismo “oggettivista” di Ayn Rand, dall’ancor vivo e nefasto ricordo dei ‘neocon’ che accompagnarono gli orrori della ‘guerra infinita’ di George W. Bush, all’intero patrimonio storico-intellettuale del GOP. Come in una riedizione del “Der Zauberlehrling”, l’apprendista stregone di Wolfang Goethe, tutte le più sinistre forze dal Partito Repubblicano nel tempo evocate per conquistare il consenso dell’America bianca – dalla “southern strategy” nixoniana, ai sempre presenti e crescenti fanatismi evangelici, ai chiari sottintesi razzisti della politica reaganiana, piatti, questi, sempre serviti in salsa anti-intellettuale – s’erano infine incontrate con i rancori e gli squilibri generati da processi di globalizzazione che creavano nuove diseguaglianze e nuove ingiustizie, con la rabbia di un’America che, a torto o a ragione, si sentiva “left behind”, abbandonata e pronta raccogliersi dietro il populismo reazionario e xenofobo, antiscientifico ed anti-intellettuale (il “popolo” contro le élite) offerto da uno sgrammaticato uomo della Provvidenza che (“make America great again”) come nella tradizione d’ogni fascismo prometteva alla Nazione il ritorno ad una grandezza farlocca, mai esistita.

Nel novembre del 2016 Trump vinse a mani basse le primarie repubblicane. E poi, pur perdendo nel voto popolare, vinse anche, per uno scarto di meno di 80mila voti, anche la corsa per la Casa Bianca contro Hillary. Il resto è, come si usa dire, cronaca. La cronaca di quattro anni di presidenza marcati da menzogne che – quando, sul finire del mandato, gli esperti di fact-checking hanno, per esaurimento, smesso di contarle – andavano sfiorando le 40mila. Circa 27 al giorno, quasi due all’ora, se si considerano le ore di sonno. Di fatto una normalizzazione della menzogna. Quattro anni che, non per caso, il 6 gennaio del 2021, si sono chiusi con l’inedito atto di sovversione d’un assalto al Cogresso e con il proclamato obiettivo di bloccare la formalizzazione del trionfo di Joe Biden. Mai nessuno, prima di lui, s’era rifiutato d’accettare il verdetto delle urne, denunciando una frode elettorale che era soltanto l’ultima, più grossa e grossolana delle sue menzogne. Una menzogna impunemente ribadita per altri quattro anni.

Al nuovo appuntamento elettorale Trump è arrivato, non come leader, ma come forza messianica alla testa di quello che – riprendendo l’antico e ormai ridicolo appello di Jindal – non solo non s’era liberato della propria “stupidità”, ma che questa stupidità aveva trasformato in culto, in una religione di massa. C’è arrivato – altra prima volta nella Storia d’America – come “convincted fellon”, criminale condannato da una giuria di New York per 34 reati, nonché sotto il peso di due impeachment e di una chilometrica serie di giudizi penali ancora aperti per delitti tutti consumati, il 6 gennaio e oltre il 6 gennaio, alla luce del sole. E di tutto lo si può accusare, tranne che d’aver dissimulato la propria natura e le proprie intenzioni. Trump ha, in questi mesi di campagna, apertamente promesso di usare la violenza – quella delle forze armate se necessario – contro un “nemico interno” altrettanto apertamente indicato nei suoi avversari politici, nella sua propaganda immancabilmente descritti come demoniache figure. Ed ha altrettanto chiaramente annunciato – almeno nelle rare parti comprensibili dei suoi sempre più sgangherati discorsi – un definitivo attacco contro quello che chiamano il “deep State”, lo Stato profondo. (lui presumibilmente senza ben cogliere il senso delle sue stesse parole, i suoi più attivi seguaci con piena cognizione di causa) Vale a dire: la struttura portante, permanente d’ogni sistema democratico. Tutte da leggere solo, a tal proposito, le quasi mille pagine del “Project 2025”, in vista d’una possibile ritorno al potere di Trump elaborato dall’Heritage Foundation, il più a destra dei Think-tank di destra. Oppure il più agile ma egualmente inquietante Agenda47. La vittoria di Trump non è in alcun modo stata un episodio di “alternanza al potere”. La vittoria di Trump è, nelle dichiarate intenzioni di chi ha vinto, la fine dell’alternanza al potere.

Delinquenti, stupratori, assassini e malati mentali

In un mare di patologiche menzogne, Trump ha di sé con grande, seppur involontaria, sincerità mostrato ogni cosa, inclusi gli inequivocabili segnali di senile confusione che hanno, senza filtri, scandito i suoi ultimi sempre più sconnessi comizi. Ed è così – mostrando senza riserve, in rossiniano crescendo, questo bagaglio politico e morale – che due giorni fa, Trump ha vinto le elezioni. È in virtù di questo bagaglio, non nonostante questo bagaglio che, per la prima volta, è stato votato da una maggioranza di americani. Nel corso della campagna elettorale la sua xenofobia ha costantemente mantenuto le tonalità ed i ritmi d’una vera e propria ossessione pronta, per affermarsi, a sfidare, in un solo atto, il ridicolo e la decenza. Per Trump gli immigrati, tutti gli immigrati, non sono solo delinquenti, stupratori, assassini e malati mentali mandati in America svuotando carceri e manicomi – il tutto ovviamente, sotto la satanica regia del giudeo George Soros e del Partito democratico – ma sono ormai un vero e proprio esercito d’occupazione che va seminando terrore e sangue in ogni anfratto della Nazione. Sono il frutto d’una guerra in atto. E proprio questo sarà, prima d’ogni altra cosa, la sua nuova presidenza: una “guerra di liberazione”.

Giorni fa, durante il comizio di chiusura della campagna trumpiana nel Madison Square Garden di New York– e qui veniamo all’ “approdo” al quale si fa cenno nell’apertura dell’articolo, un comico texano che proprio per questo era stato invitato, tra una battutaccia e l’altra contro gli ispani, aveva ridacchiando annunciato la presenza in pieno oceano Atlantico di un’isola galleggiante di rifiuti di nome Puerto Rico. E qualcuno aveva pensato che Tom Hinchcliffe, questo il suo nome, fosse aa questo punto andato oltre e che quella battuta o, meglio, quell’insulto – dal quale la campagna repubblicano ha poi molto timidamente preso le distanze (“non corrisponde ai nostri valori”) potesse esser pagata con una perdita di voti latini.

Non è stato così. I risultati di ieri ci dicono che, rispetto alla campagna del 2020 contro Joe Biden, Trump ha guadagnato e non perso voti tra quelli che lui sistematicamente definisce stupratori, assassini e malati mentali parti di un feroce esercito d’occupazione. Se 12 anni fa l’idea di Bobby Jindal e dell’establishment repubblicano (oggi nella sua quasi totalità genuflesso di fronte al nuovo messia) era quella di fare un passo, per restare in metafora, verso l’isola di immondizie, le urne ci hanno detto che, in realtà è stata l’isola di immondizie a muoversi (almeno in parte perché la maggioranza dei “latinos” ancora vota democratico) a muoversi verso “the party of stupid”. Ed altrettanto, nel nome del machismo, hanno fatto anche molti maschi afro-americani.

Come è accaduto? Molto lungo, variato e contrastante è, tra analisi e controanalisi, l’elenco dei peccatori. Per qualcuno la colpa è di un Partito Democratico spostatosi troppo a destra e, per questo, perdutosi, confuso con i suoi storici avversari, in territori a lui estranei. Per altri la colpa è, al contrario, d’un Partito Democratico spostatosi troppo a sinistra e finito, per questo, tra le fauci del mostro “woke” (qualunque sia il significato che si dà a questo termine. O di Biden che troppo ha da 81enne sfidato le leggi della biologia, costringendo il partito democratico e la Harris ad un affannoso inseguimento.

“Flood the zone with shit”

Di certo un ruolo non secondario ha giocato, alle spalle della sempre più evanescente retorica di un “messia” ogni giorno più simile alla propria caricatura, la presenza di forze nuove e potenti. Quelle, soprattutto, di un capitalismo radicale convinto – sono parole di Peter Thiel, fondatore di PayPal e gran finanziatore dell’ascesa politica di J.D. Vance, nuovo vicepresidente – che vi sia ormai una “insanabile contraddizione tra la libertà (libertà di mercato n..d.r.) e la democrazia”. Elon Musk, uomo più ricco del pianeta ed altro militante di punta del più “anarchico” neoliberismo, è stato in questa coda di campagna una sorta di elettrizzata ombra di Donald Trump, organizzando a suo vantaggio riffe milionarie (di fatto comprando voti ) e mettendo in pratica attraverso X (ex Twitter, la rete sociale da lui comprata per 144 miliardi di dollari) la tecnica di disinformazione a suo tempo brillantemente enunciata da uno dei più qualificati tra i filosofi pre-marcia del trumpismo, quel Steve Bannon che, seppur oggi oscurato da alcuni guai giudiziari, mai è del tutto uscito di scena.

Diceva Steve Bannon – dichiarato ammiratore del Vladimir Lenin di “Stato e rivoluzione” – che per distruggere il Deep State e conquistare il potere occorre preventivamente “flood the place with shit”, inondare il luogo di merda, creare una cloaca, un maleodorante mare di palta nei cui miasmi impossibile diventi distinguere il vero dal falso.

Inondare. Distruggere. Desolazione e morte. Oggi, dopo il voto del 5 novembre ed il trionfo di Trump e di “the party of stupid”, il sistema etico-politico americano mostra di sé immagini molto simili a quelle, tragiche, che ci arrivano dalle strade e dalle piazze di Valencia. Per la più antica democrazia del mondo non sarà facile, né breve, uscire dal fango.

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