America alle urne. Vincerà il fascista?

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“Do you believe Donald Trump is a fascist?”. “Yes, I do”. Lei crede che Donald Trump sia un fascista? Sì, lo credo. Questo, una manciata di giorni fa, è stato il moto secco ed inequivocabile botta e risposta tra Anderson Cooper, giornalista di CNN, e Kamala Harris, vicepresidente in carica e candidata del Partito democratico alla Casa Bianca. E gli annali ci assicurano che è questa la prima volta – la prima, ovviamente, da quando, poco più d’un secolo fa, il termine “fascista” è entrato nel lessico politico – che uno dei due contendenti fa uso di questa parola con tanto esplicita e diretta chiarezza riferendosi al proprio rivale. Per Kamala Harris – e non solo per lei, naturalmente – Donald J. Trump, già 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America ed attuale candidato repubblicano, è a tutti gli effetti un fascista. Punto e accapo.

Non era mai successo prima. O quasi mai. Nella corsa presidenziale di quattro anni fa – e, di nuovo, durante questa campagna elettorale, finché è rimasto in corsa – Joe Biden, aveva a più riprese definito “a battle for the soul of America”, una battaglia per l’anima (anima democratica ovviamente) dell’America, la sua sfida contro l’allora presidente Donald Trump. E qualche tempo fa aveva accennato a un non meglio identificato “semi-fascismo”, riferendosi, in generale, al movimento MAGA (Make America Great Again), la più chiassosa e visibile espressione (un misto di bigottismo messianico, razzismo e xenofobia in salsa complottista) del trumpismo. Ma la parola “fascista” era, fino a ieri, sempre rimasta, nella sua piena accezione, un ombroso ed impronunciabile sottinteso, una sorta di preallarme, l’implicita denuncia d’una possibile ma ancor indefinita aberrazione. Un aggettivo senza soggetto.

Per Trump fascista è la Harris (ed anche comunista e puttana)

Per completezza dell’informazione va anche aggiunto, che “the f…word” – la parola che comincia con effe, come vuole uno degli eufemismi del gergo politico Usa – è stata, nel corso di questa lunga campagna elettorale, ripetutamente e futilmente usata anche da Donald Trump contro Kamala Harris. Futilmente, perché incoerente ed invelenita parte d’un molto trumpiano florilegio di insulti che sono furiosamente andati – e continuano ad andare mentre si approssima il giorno del voto – in tutte le possibili direzioni. Per Trump, Kamala Harris non è solo (occasionalmente) fascista, ma anche (il più delle volte) una comunista, un’inveterata “liberal” di ideologia marxista con smaccate tendenze “woke”, capace di qualsivoglia nefandezza, a cominciare dal tradimento alla Patria.

Per quanto molto stupida (il “basso IQ” della candidata democratica è, per Trump, una vera e propria ossessione, nonché un’ovvia e patetica testimonianza di acuta misoginia), Kamala è, nella rappresentazione del suo rivale, anche malandrina, infida, corrotta e, come ogni vera “malafemmena”, assolutamente lasciva (“a nasty woman” una donnaccia suole chiamarla). Bugiarda ed opportunista al punto di cambiare la propria identità razziale (“She turned black”, è diventata nera, disse di lei Donald Trump mesi fa, sfidando da par suo il ridicolo, in una intervista già a buon diritto entrata, in forma di tragicomica barzelletta, nella storia di questa campagna elettorale). Tante cose ha detto Trump di Kamala. Troppe. Tutte infami e tutte, nella loro infamia, inevitabilmente destinate a descrivere, con assoluto nitore, non la personalità dell’insultata, ma quella dell’insultante.

Domanda: c’è, tra queste cose infami, anche il fascismo? Più direttamente, e tornando a bomba: è davvero un fascista Donald Trump? Oppure “the f…word” contro di lui tanto perentoriamente usato da Kamala Harris in questo finale di campagna non è, come non pochi non solo da destra sostengono, che la controproducente riproposizione d’un antico e comodo espediente polemico usato ed abusato dalle sinistre per squalificare un avversario politico?

Questa domanda può avere molto diverse e, paradossalmente, molto convergenti risposte. E questa è la prima e più ovvia. No, Donald Trump non è un fascista perché nessuna filosofia o idea politica, nessun modello di vita, nobile o aberrante che sia, può sopravvivere in uno spazio interamente occupato dall’ipertrofico (ed inevitabilmente ridicolo) ego del ricettore. Per Donald Trump tutto comincia e tutto finisce con Donald Trump, tutto si consuma e svanisce in questo totale vuoto intellettuale. Donald Trump è, da qualunque punto di vista lo si osservi – politico, ideologico, culturale o etico – soltanto una narcisistica tabula rasa, un habitat celebrale all’interno del quale solo Donald Trump può respirare e tirare a campare. Ed è proprio per questo che, sì, Donald Trump è un fascista. Perché è in questo spazio vuoto, e grazie al vuoto, che, lungo percorsi tutt’altro che facili da ricostruire, hanno potuto negli ultimi otto anni aggregarsi, in forma di culto personale, correnti di pensiero, antiche paure, nuove ambizioni, risentimenti, tossine politiche e veleni ideologici – la xenofobia, il razzismo, il fanatismo religioso – che, da sempre, come contraltare ai principi di eguaglianza che l’hanno fondata, scorrono nelle vene d’America.

Trump fascista? Neppure conosce il significato del termine…

Donald Trump non è fascista perché Donald Trump non può, ideologicamente parlando, che essere Donald Trump, uno sbiadito piazzista (piazzista di sé stesso), bancarottiere seriale e personaggio da rotocalco (o da talk show televisivo) che mente per mestiere e per vocazione. Basta, per cogliere questo dettaglio, dare un’occhiata a “The Art of the Deal”, il suo “”Mein Kampf”, il libro da lui scritto, via ghost writer, alla fine degli anni ’80 e da lui senza ironia alcuna definito secondo, per importanza, solo alla Bibbia. Di questo – e solo di questo è fatto Trump. Come il Narciso delle Metamorfosi di Ovidio, scopre la propria immagine nelle acque del torrente. E rapito dalla propria bellezza – o da quella che lui reputa tale – col torrente finisce per identificarsi in un fatale, tragico innamoramento dal quale, volendo seguire, capovolgendolo, il filo dell’antico mito, non nasce alcun fiore splendido e fragrante (il narciso, per l’appunto), ma soltanto il frutto fetido del fascismo. Trump non è, almeno originalmente, un fascista. Non può esserlo. Ma fascista è di certo il trumpismo.

A queste conclusioni non è giunta – per ragioni che fin troppo facile è liquidare come propagandistiche – soltanto Kamala Harris. Lo stesso traguardo già avevano anticipatamente tagliato, con altrettanto chiari accenti, alti ufficiali che Donald Trump avevano avuto modo di conoscere molto da vicino ed in molto significative circostanze. Il generale Mark Milley , capo di Stato Maggiore delle forze armate durante il primo mandato di Trump, non ha esitato a definire “a fascist to the core”, un fascista nel più profondo dell’anima, il suo antico Commander in Chief. Ed altrettanto già aveva fatto, mesi prima, un altro superdecorato ex-generale, quel John Kelly che per quasi due anni, nelle vesti di Chief of Staff, era stato tra i più in vista tra quelli che vennero a suo tempo definiti “the adults in the room”, gli adulti nella stanza. Vale a dire: il più prossimo al presidente tra, chiamiamoli così, i repubblicani tradizionali intenti a frenare, all’interno del governo, i perlopiù grotteschi ed infantili impulsi messianico-autoritari del curioso personaggio seduto – grazie anche alle alchimie dei collegi elettorali – dietro il famoso “resolute desk” dell’Oval Office. La personalità di Donald Trump, aveva detto Kelly, perfettamente s’attaglia, a quella che è la più comune definizione di “fascista”.

Di questa comune definizione – con la quale, va aggiunto, concorda anche, secondo un recentissimo sondaggio, quasi la metà degli americani, alcuni dei quali, il 12 per cento, giusto per questo hanno deciso di votarlo –  Trump ed i suoi seguaci hanno comunque provveduto ad offrire, in forma diretta, i più eloquenti esempi in quella che tre giorni fa, nel Madison Square Garden di Manhattan, di fatto è stata la chiusura della campagna elettorale repubblicana, l’ultima e a suo modo definitiva rappresentazione di quella che sarà, se sarà, la seconda presidenza Trump. Una presidenza, questa volta, senza “adulti nella stanza”.

Perché proprio a New York?

Molti si sono legittimamente chiesti per quale ragione Donald Trump abbia scelto di mettere in scena proprio qui, nel cuore di New York, l’ultimo atto della sua, ovviamente trionfale, marcia verso il ritorno alla Casa Bianca. Quella in corso, hanno fatto notare in molti, è probabilmente la più incerta ed insondabile battaglia presidenziale della storia degli Stati Uniti d’America. E le sue sorti quasi certamente si decideranno – se davvero si decideranno – per poche migliaia di voti in non più di tre di quelli che vanno sotto il nome di “battleground States”. Segnatamente: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Che cosa ha spinto Trump a lanciare il suo ultimo messaggio in una città che, conoscendolo, non lo ama, e nella quale, se tutto va bene, non può raccogliere che uno striminzito 20 per cento dei voti?

Forse per dare uno schiaffo alla città le cui cronache economiche e mondane ha, tra una bancarotta e l’altra, dominato per anni, raccogliendo molto più disprezzo che ammirazione nonostante il suo nome giganteggi, a lettere dorate, sulle facciate di non pochi dei suoi edifici. O forse per altre – narcisistiche, ça va sans dire – ragioni. Sta di fatto che, tra le possibili simbologie, una – la più ovvia ed autentica – ha finito per prevalere. Quella che ha paragonato l’adunata del Madison Square Garden, ad un’analoga manifestazione che, correndo l’anno 1939, nel medesimo luogo segnò, a detta di tutti gli storici, il più alto e visibile momento del nazi-fascismo made in USA. Più di ventimila persone riunite, tra svastiche e “sieg heil”, dal German-American Bund – un’associazione formalmente apolitica di amicizia tra Stati uniti e Germania – per strappare gli Stati Uniti dalla “innaturale alleanza” con le plutocrazie democratico-comuniste contre le quali Hitler si preparava a guerreggiare in Europa. E ancor più – e qui cominciano le analogie – per salvare l’America da “the enemy from within”, il nemico interno che ne avvelenava e minava le bianche e cristiane fattezze.

Nel 1939 quel “nemico interno” erano ovviamente in primo luogo gli ebrei, in secondo piano accompagnati da tutti gli immigrati non ariani e dai neri cascami di quella che (bei tempi!) fu la “peculiare istituzione” della schiavitù. Tre giorni fa, nel Madison Square Garden non c’erano svastiche (solo il trionfo d’un molto americano bianco rosso e blu, con tanto di stelle). E le uniche “memorabilia”, in vendita pressoché ovunque, erano quelle che con grottesca evidenza rammentavano, oltre i toni messianici, la più mercantile natura del trumpismo. Dopotutto, in fondo all’anima, Donald Trump resta quello che sempre è stato. Per l’appunto: un piazzista che, per vendere la propria merce fa di menzogna virtù. Scarpe da ginnastica, edizioni speciali della Bibbia (tutte, per la cronaca “made in China”.) Poster, tazze e portachiavi con l’effige del messia, brandelli del vestino che il medesimo messia indossava nei giorni del suo ripetuto martirio (quando lo incriminarono in quel di New York, a poca distanza dal medesimo Madison Square Garden, e quando gli spararono ferendolo di striscio all’orecchio in quel di Butler, in Pennsylvania…).

Altre scenografie, stesse parole…

Altre scenografie, altri miti. Ma accompagnate quasi identiche parole. Escludendo ovviamente quello che lui stesso ha molto benignamente battezzato “the weave”, la tessitura l’intreccio, ovvero il suo spesso delirante deambulare lungo le più svariate e sconclusionate tangenti, il discorso tenuto da Donald Trump avrebbe potuto tranquillamente, con marginali modificazioni, esser rimpiazzato da quello che, in quel medesimo luogo, 85 anni fa aveva tenuto Fritz Kuhn, il capo del German-American Bund (per la cronaca: la formale occasione dell’adunata era la celebrazione del 207esimo anniversario della nascita di George Washington, da Kuhn definito “the first fascist”, il primo fascista della storia d’America).

“Negli ultimi quattro anni – ha detto Trump – Kamala Harris ha orchestrato il più flagrante tradimento che qualsiasi leader nella storia americana mai abbia inflitto al nostro popolo. Ha violato il suo giuramento, spalancato di fronte al nemico la nostra frontiera sovrana e scatenato un esercito di bande di migranti che stanno conducendo una campagna di violenza e terrore contro i nostri cittadini. Non c’è mai stato nulla di simile in nessun paese del mondo. Kamala ha importato migranti criminali da carceri e prigioni, manicomi e istituti psichiatrici di tutto il mondo”. Nessun dubbio, dunque, nessuna esitazione. Gli Stati Uniti, ha aggiunto l’uomo che, il prossimo gennaio, ha eccellenti possibilità di tornare a sedersi dietro il “resolute desk”, sono oggi “un paese occupato”. E quella che comincerà dopo la sua vittoria elettorale sarà, a tutti gli effetti, una “guerra di liberazione”. Spietata e senza sconti. Deportazioni di massa, punizioni per i “traditori”. Vendetta, tremenda vendetta.

Prima di questo truce gran finale, il trumpismo s’era, con grande generosità, mostrato in tutte le sue varianti. Odio per gli emigranti d’ogni origine (sì, non è mancato chi ha riproposto la storiella, già ripetutamente smentita e ridicolizzata, degli haitiani che si mangiano i cani e i gatti dei vicini in quel di Springfield, in Ohio). Antisemitismo, di quello antico e mai assopito del “deicidio” e dei Saggi di Sion, ora trasfiguratisi nel perfido “giudeo” George Soros, demoniaca forza che, nell’ombra, muove le fila della “sostituzione etnica” che va corrodendo le più pure radici dell’americanismo. Roba, per così dire, “vintage”, antiquariato d’epoca per nulla moderato da un viscerale amore per l’Israele di Benjamin Netanyahu, nazione ammirata – fatto salvo l’antisemitismo di base – come un brillante esempio di nazionalismo a base etnico religiosa e come spietata, vedi Gaza, barriera anti-islamica. Il tutto accompagnato da insulti d’ogni tipo per Kamala Harris, ora descritta come l’Anticristo – così l’ha chiamata uno degli oratori brandendo una croce – ed ora come una prostituta “handled by her pimps”, maneggiata dai suoi magnaccia democratici. Una creatura diabolica e, insieme un’insignificante donnicciola (o donnaccia) puntualmente derisa per le sue radici etniche, nonché, di nuovo, per il suo basso (femminilmente basso) quoziente d’intelligenza.

“Chi mai può credere che una Samoana (dall’isola di Samoa n.d.r.) con sangue asiatico e con un bassissimo IQ possa regolarmente vincere le elezioni per presidente degli Stati Uniti d’America?”. Questo si è retoricamente chiesto Tucker Carlson (già commentatore di grido di Fox New e recente autore di una molto genuflessa intervista con Vladimir Putin, uomo forte e nazionalista cristiano da lui molto ammirato), anticipando una scontatissima verità. Per i trumpisti quella d’una vittoria elettorale di Kamala Harris, donna e per di più non bianca (vale a dire: non americana) è una non-ipotesi. Dovesse la candidata democratica venir dichiarata vincitrice, “there will be blood”, correrà il sangue, come recitava una quindicina d’anni fa il titolo di un bel film con un grande Daniel Day Lewis nel ruolo d’un magnate petrolifero.

Un’isola di immondizia che galleggia nell’Atlantico

La parte del leone nella rappresentazione in questo lungo psicodramma d’odio e vendetta l’hanno però fatta due personaggi tra loro molto diversi. Il primo – vistoso ed importante perché rappresenta il dio danaro e perché, molto più dello stesso Trump, prefigura il futuro del trumpismo – è stato Elon Musk, tecno-imprenditore di grande successo e uomo più ricco del mondo. Il suo intervento è stato, da un punto di vista strettamente politico-retorico, un’autentica pagliacciata, marcata da esibizioni muscolari tipo wrestler e dal fatto che si è presentato sul palco in completa tenuta nera e con un cappellino da baseball che mostrava il classico slogan “Make America Great Again” nei caratteri gotici a suo tempo tanto cari alle SS di Adolf Hitler. Soltanto una coincidenza? Può essere. Quella che invece non è una coincidenza è l’entusiastico sostegno che, con Musk alla testa, i miliardari che meglio rappresentano le idee del capitalismo radicale (quello che più o meno apertamente considera la democrazia una ingombrante vestigia del passato) vanno garantendo alla campagna elettorale di Donald Trump.

Sono centinaia i milioni di dollari che, questo capitalismo – che si considera il più avanzato ma che, la sua storia insegna, sempre finisce per incontrarsi con le più svalutate, corrotte e talora violente esperienze autoritarie) ha versato nella casse della campagna di Donald Trump. Elon Musk, per esempio, non solo ha molto generosamente donato, ma nel nome Trump ha anche direttamente organizzato, in un paio dei “battleground States”, una campagna di registrazione al voto, incoraggiata da una quotidiana e ricchissima riffa. Un premio di un milione di dollari da estrarre, ogni giorno, tra tutti coloro che partecipano all’operazione. 

Altro che tecnologia avanzata. Altro che progresso e intelligenza artificiale. Signori, qui si comprano voti. Come ai vecchi tempi. O come nelle repubbliche delle banane. Qualcosa che, pensando all’Italia, vagamente ricorda, moltiplicata per un milione, la mitica “seconda scarpa” che, nella Napoli del dopoguerra, il sindaco monarchico di Napoli, l’armatore Achille Lauro, si dice – leggenda probabilmente falsa, ma comunque significativa – distribuisse nei quartieri spagnoli in tempi elettorali. Oggi (prima del voto) la destra. E domani (a voti contati) la sinistra.

Il secondo personaggio è stato quello che la festa (o la “lovefest”, la festa d’amore del Madison Square Garden come più tardi l’ha definita Trump) ha per eccesso di zelo rovinato. Si tratta d’un comico texano di nome Tony Hinchcliffe che, in piena sintonia con il clima della manifestazione, s’è lanciato – e proprio per questo era stato invitato – in una lunga serie di battute (in realtà si trattava di insulti nella più chiara e volgare delle forme) contro gli immigrati, quelli di origine ispana in modo particolare. “Pare – ha un certo punto affermato – che nell’Atlantico vada galleggiando un’isola d’immondizia. Mi dicono che si chiama Puerto Rico…”. Grandi risate in platea e panico nei quartieri alti. Non peraltro: per quanto mai davvero assimilati nella logica coloniale dell’America bianca, i portoricani sono cittadini Usa, ed un buon numero di loro – più di quattrocentomila si dice – figurano nelle liste elettorali della Pennsylvania, il più in bilico tra gli Stati in bilico, quello dove è più che possibile che, tra un paio di giorni,si decida chi ha vinto e chi ha perso.

Trump e Puerto Rico

“La battuta su Puerto Rico – recitava il giorno dopo un molto tiepido comunicato di smentita del comitato elettorale repubblicano – non riflette i valori della campagna di Donald Trump”. Se davvero così è – e così ovviamente non è – non li riflette per difetto, non per eccesso o, ancor meno, per estraneità. Puerto Rico ha, infatti,sempre avuto un posto d’onore nella turpe storia dell’odio anti-ispano di Donald Trump. E pur essendo parte – non del tutto integrante, ma comunque parte – degli Stati Uniti, sempre è rimasto nella lista di quelli che, con tipica eleganza, il candidato repubblicano ama definire “shithole countries”, paesi del buco del culo. Lo testimoniano le cronache del “dopo-Maria”, l’uragano che, nell’estate del 2017, distrusse buana parte dell’isola. E non solo. Stando ad un libro pubblicato anni fa, nel corso della sua presidenza, Trump avrebbe anche fatto un tentativo – ovviamente naufragato nel ridicolo – di avviare con la Danimarca un negoziato per scambiare Puerto Rico con la Groenlandia.

Saranno i davvero i portoricani della Pennsylvania ad affondare le ambizioni presidenziali di Donald Trump il prossimo martedì? Se così fosse sarebbe bellissimo, una sorta di poetica vendetta dell’umana decenza, in tempi in cui la decenza attraversa momenti di grande sofferenza. E Kamala Harris ha, perché questo avvenga, fatto il suo chiudendo la campagna giusto nel luogo del delitto, laddove più ovvia e visibile era la differenza tra lei e il suo rivale. Vale a dire: parlando, di fronte a quasi ottantamila persone a Washington D.C., nella cosiddetta Elipse, lo stesso luogo nel quale, la mattina del 6 gennaio del 2021, Donald Trump aveva pronunciato il discorso che aveva dato il là all’assalto di Capitol Hill. “Dovesse vincere Trump – ha detto Kamala indicando la Casa Bianca – tornerebbe in quegli uffici portando una lista di nemici da abbattere. Io ci entrerò nel nome di tutti gli americani e chi non ha votato per me offrirò un posto ai tavoli del governo. Perché questa è la democrazia”.

Sarà la democrazia a vincere? Tutto è possibile. Ma vinca chi vinca – e potrebbe non vincere nessuno – un fatto è certo. Il trumpismo, ovvero l’antidemocrazia, la si voglia chiamare fascismo o con altri nomi, è molto più forte oggi di quanto non fosse nel 2016, quando Trump grazie ai collegi elettorale sconfisse Hillary Clinton. E molto più forte di quanto fosse nel 2020, quando Trump perse contro Joe Biden. Vinca o perda (e dovesse perdere non accetterebbe la sconfitta scatenando il caos) il trumpismo – fascista o meno che sia – è destinato a restare. E anche se vittoriosa, martedì prossimo la democrazia americana resterà una democrazia in crisi. Una democrazia dimezzata e da ricostruire.

Dopodomani si vota. Non resta che attendere.

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