È stata, secondo gli esperti, la più spettacolare e “strana” rimonta della storia delle primarie presidenziali. Spettacolare per le sue inattese, perentorie dimensioni. E strana perché sebbene spiegabilissima – anzi, pressoché solare nei meccanismi politico-elettorali che l’hanno determinata e nel messaggio politico che ne è scaturito – difficile è elencare i meriti, le virtù ed i pregi grazie ai quali il grande protagonista di tanta impresa ha raggiunto il traguardo. Difficile, anzi, di fatto impossibile, perché di questi pregi e di queste virtù non v’è, al momento, traccia in alcun luogo.
Venendo al dunque. Joseph Robinette Biden Jr., da sempre noto come Joe Biden, o “uncle Joe” per i più intimi, ha vinto – e vinto in termini assolutamente travolgenti – la tenzone del super-Tuesday. Ovvero: la più ampia e ricca (in termini di delegati) tra le collezioni di primarie in vista della Convention democratica di Milwaukee, Wisconsin (13-16 luglio).
Più che d’una vittoria, quella di Biden è stata, in realtà, un vero e proprio miracolo di resurrezione. Dopo le prime tre (e fino a ieri ritenute “profetiche”) prove elettorali – quelle di Iowa, New Hampshire e Nevada, tutte da lui rovinosamente perdute – la candidatura di Joe Biden era stata dai più considerata morta. Non ancora sepolta, ma sicuramente morta e per di più – ignorando il rispetto che si deve ai defunti – fatta oggetto d’irrisione e di scherno. Dopo la quarta prova – quella del South Carolina, da Biden vinta ampiamente, grazie al voto afro-americano – la si era scoperta ancora sorprendentemente in vita, ma condannata ad una terapia intensiva, probabilmente vana a fronte della terribile e molto ravvicinata prova (quella, per l’appunto, del super-Tuesday), che l’attendeva.
Insomma: nel futuro di Joe Biden non pareva esserci, più prima che poi, che la tristezza d’un funerale – il suo e, in pratica, quello dell’intero establishment democratico di cui era espressione – seguito dalla terrificante ipotesi d’una “brokered convention”. Vale a dire: d’una convenzione nella quale, non avendo alcuno dei candidati raggiunto il “numero magico” – 1991, tanti quanti sono i delegati che occorrono per avere la maggioranza assoluta – sarebbe toccato ai cosiddetti “superdelegati” (i non eletti delegati d’apparato presenti di diritto alla Convention) decidere a chi dovesse toccare, a novembre, sfidare – e sfidare con queste tragiche premesse di disunione e disaccordo – Donald Trump. Il tutto complicato dal fatto – considerato pressoché inevitabile prima del super-Tuesday – che il vincitore delle primarie, il candidato con più delegati, fosse destinato ad essere Bernie Sanders. Il “ribelle” Bernie Sanders, l’irriducibile Bernie Sanders, il “socialista Bernie Sanders”, il candidato per sua natura più allergico ad ogni richiamo unitario e ad ogni compromesso, l’avversario da Donald Trump più amato – il presidente in carica mai ha fatto mistero di questo – perché da lui considerato il più battibile nel nome della difesa della Madre Patria (l’America “made great again”, grazie a lui tornata ad essere grande) dall’incombente “pericolo rosso”.
Martedì notte questa logica politica è stata letteralmente rivoltata come un guanto. E ad ogni nuovo risultato – in un lungo viaggio da Est verso Ovest, fuso orario dopo fuso orario – è stato come se un coro d’angeli stesse, per volontà divina, accompagnando il vincitore, non verso una Convention, ma verso il Regno dei Cieli. Il cadavere di Joe Biden non solo è, come Lazzaro, uscito dal sepolcro ed ha camminato, ma ha cominciato a correre ad inimmaginabili velocità, lasciandosi tutti – il socialista Bernie Sanders, il miliardario Mike Bloomberg e la progressista Elisabeth Warren – non solo ampiamente alle spalle ma, nel caso di Bloomberg e della Warren, addirittura nella polvere.
Biden ha stravinto in tutti gli Stati del Sud – Virginia, North Carolina, Tennessee, Alabama, Arkansas, Oklahoma. Ha sorpreso tutti arrivando primo in Texas (insieme alla California il più grande Stato in lizza). Ed ha vinto anche negli Stati – e proprio qui sta, tornando a bomba, la “stranezza” di questa spettacolare rimonta – dove non aveva fatto alcuna campagna, né speso un solo dollaro, perché considerati “inconquistabili”. Vale a dire: nel Massachussets (lo Stato che ha eletto senatrice Elisabeth Warren), del Minnesota e del Maine. Né è questo, se vogliamo, il lato più “miracoloso” della vicenda. La resurrezione di Joe Biden era, in realtà, cominciata ancor prima che gli elettori del super-tuesday si recassero alle urne nei 14 Stati designati.
Più esattamente: era cominciata quando, la scorsa domenica, conosciuti i risultati del South Carolina, tre dei candidati in lizza, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Tom Steyer, avevano, in rapida sequenza, deciso di ritirarsi dalla corsa, in questo modo ricompattando l’ala, diciamo così, moderata della contesa. Di quell’ala Joe Biden era a quel punto automaticamente diventato – con la non ancora sperimentata eccezione del miliardario Mike Bloomberg, che di fatto debuttava nel super-Tuesday – l’unico visibile rappresentante. Ed in quanto tale s’era – senza muovere un dito, o grazie alle dita che per lui avevano mosso gli alti vertici del partito, spingendo per uno sfoltimento del campo – trasfigurato nel destinatario d’un inequivocabile messaggio politico. Questo: ciò che davvero conta, la priorità politica assoluta è sconfiggere Donald Trump. Perché quelle che si preparano non sono, in nessun modo, elezioni “normali”. Sono, a fronte della crisi del sistema politico – una crisi di cui Trump non è che il più vistoso e volgare simbolo – in gioco non c’è solo, come vuole la storia, l’alternanza tra due partiti, ma la stessa essenza della democrazia Usa. La “rivoluzione” – quale che sia il significato che Bernie Sanders dà a questa parola – può attendere.
I risultati del “miracolo” sono, ora, sotto gli occhi di tutti. Biden era entrato nel tunnel di questo super-Tuesday come aspirante cadavere e ne è uscito come indiscutibile “front-runner”, come uomo da battere. Bernie Sanders – che si è assicurato il Vermont (casa sua), lo Utah, il Colorado e, sia pur solo di stretta misura, la California, il più grande ed appetitoso dei trofei in palio – ne era entrato come indiscutibile “front-runner” e ne è uscito come inseguitore. Ed ora, contato l’ultimo voto, intorno a Joe ed a Bernie, non c’è ormai che il deserto. Mike Bloomberg – dopo aver speso, per questo super-Tuesday somme colossali, pari, si calcola, a dieci milioni di dollari per ogni delegato da lui conquistato – ha già annunciato il suo ritiro dalla contesa. Elisabeth Warren ancora non l’ha fatto, ma lo farà. Il suo cammino è, senza rimedio, finito con questo super-Tuesday, con molto rammarico per quanti, come chi scrive, avevano visto in lei la versione – chiamiamola così senza offesa per Sanders – “intelligente” della rivoluzione “bernista”, la sua proposizione meno populisticamente demagogica, meno ideologicamente rigida, ma altrettanto radicale e, certo, più documentata.
In un solo “miracoloso” martedì, tutto si è ribaltato nella corsa verso la nomination democratica. Il cane è diventato lepre e la lepre cane. E ribaltate si sono anche le responsabilità politiche . Prima del super-Tuesday era Bernie Sanders a dover misurare – cose che molti dubitano avrebbe fatto – la sua rivoluzione ed il suo “socialismo” con la necessità d’una candidature unitaria, capace di rappresentare, in tutte le sue anime, l’intero partito democratico. Ora è Joe Biden a dover dare alla sua candidatura un senso che vada oltre la molto inerziale “ufficialità” del suo essere “il candidato del partito”.
Se vuole essere all’altezza dell’assoluta priorità politica che lo ha “miracolosamente” trasformato in front-runner – quella di battere Donald Trump – Joe Biden deve saper dare una risposta al bisogno di giustizia di cui la rivoluzione bernista è l’espressione. Anche perché è attorno a questa rivoluzione che – in una vera e propria frattura generazionale – si muovono le forze più giovani, diverse e vive della società americana. E sebbene la corsa si sia ormai ridotta a tre maschi, bianchi ed ultrasettantenni – Joe Biden, Bernie Sanders e Donald Trump – di queste forze c’è bisogno non solo per vincere le presidenziali, ma per vincere il futuro.
“Uncle Joe”, il risorto del super-Tuesday, non ha fin qui fatto grandi passi in questa direzione. Li farà ora, dopo il miracolo?