“El Presidente de la República, en uso de las atribuciones que le confiere la Constitución Política de Perú para tales fines, ha decidido conceder el indulto humanitario al señor Alberto Fujimori“. Con queste parole – che, nella loro chiarezza non necessitano alcuna traduzione in italiano – il presidente peruviano Pedro Pablo Kuczynski ha spalancato ieri, giorno della viglia di Natale, le porte della Dirección de Operaciones Especiales de la Policía Nacional de Perú (DIROES), il carcere nel quale il “signor Fujimori”, già presidente del Perù con poteri semi-dittatoriali, era rinchiuso da otto anni per reati di “lesa umanità”.
Un “indulto umanitario”? Nel caso di Fujimori le ragioni d’una liberazione dettata da ragioni di umana pietà in effetti non mancano, nonostante una condanna a 25 anni per delitti a tutti gli effetti disumani (su tutti il massacro di La Cantuta, perpetrato nel 1992, con nove studenti sequestrati ed assassinati da un gruppo paramilitare illegale chiamato “Colina” agli ordini del presidente. Alberto Fujimori – una molto controversa figura che ha, agli occhi del Paese, il merito d’aver debellato la feroce guerriglia di “Sendero Luminoso” ed il demerito d’averlo fatto violando a iosa diritti umani ed instaurando un regime autoritario e corrotto – ha ormai, infatti, quasi 80 anni ed è afflitto da una malattia terminale. Ma del tutto ovvio è che le ragioni della sua liberazione ben poco hanno a che fare con l’umana misericordia e molto hanno a che vedere con le ragioni della più pragmatica politica di scambio.
Solo poche ore prima dell’indulto umanitario, Pedro Pablo Kuczynski era uscito indenne, grazie ad una differenza di 8 voti, dal processo di impeachment che contro di lui era stato aperto – per la verità sulla base di prove molto labili – per il suo (per la verità molto marginale) ruolo nello scandalo delle bustarelle dell’impresa costruttrice brasiliana Odebrecht. Ed una parte decisiva di quegli 8 voti era arrivata proprio dal settore del “fujimorismo” controllato dal figlio di Alberto, Kenji, in aperto e clamoroso contrasto con sua sorella Keiko Fujimori che era stata tra le promotrici del processo di impeachment.
Chiaro a tutti era il fatto che questa ciambella di salvataggio Kenji non l’aveva lanciata per amore della verità e della giustizia, ma in cambio della liberazione del padre. E liberazione è stata, con una rapidità che altro non ha fatto che ulteriormente sottolineare la natura dello scambio. “Quiero agradecer en nombre de la familia Fujimori al presidente Pedro Pablo Kuczynski por el nombre y magnánimo gesto de brindarle el indulto humanitario a mi padre – ha prontamente dichiarato ieri Kenji Fujimori – Estamos eternamente agradecidos con usted presidente. Dios lo ilumine”.
Il grande paradosso di questa vicenda è, in fondo, proprio questo. Liberando Alberto Fujimori, Pedro Pablo Kuczynski non ha soltanto pagato il prezzo del proprio salvataggio politico, ma anche dato un colpo probabilmente definitivo alle ambizioni del Fujimorismo che proprio sul suo impeachment contava per rilanciare se stesso – con Keiko alla testa – come forza di governo.
Resta ora da capire quale sarà la reazione del paese di fronte ad un provvedimento che, ben oltre la convenienza politica, si presenta come un non troppo nobile baratto tra personaggi in cerca, per diversi motivi, dell’impunità.
Da leggere su questo stesso tema:
da BBC News: Alberto Fujimori: dal trionfo sulla guerriglia all’indulta “umanitario”.
da BBC News: Indulto umanitario o patto per l’impunità?
Da El Comercio: Human Right Watch protesta per l’indulto a Fujimori