Hugo Chávez trasforma la cerimonia d’inagurazione della Copa América in uno show dedicato al culto di se stesso – Per quale ragione un presidente che un dittatore non è palesa una tanto incontrollabile pulsione a comportarsi come tale? Risposta logica: perché desidera diventarlo…
12 luglio 2007
di Massimo Cavallini
Hugo Chávez non è un dittatore. Ed a riprova di questa verità stanno le molte elezioni da lui vinte, nel corso degli ultimi sette anni, battendo sul campo un’opposizione divisa e – come testimoniato dagli eventi dell’aprile del 2002 – in molte sue parti marcata da ricorrenti tentazioni golpiste. Eppure un fatto è certo: pur non essendo un dittatore – o non essendolo ancora – Chávez come un dittatore ama comportarsi. E la cerimonia d’inaugurazione della Copa América, consumatasi martedì sera nello stadio di San Cristobal, nello stato di Táchira, è stata forse, da quando Chávez ha assunto la guida della “Repubblica Bolivariana”, la più spettacolare e coreografica prova di questa sempre più inquietante contraddizione.
Che cosa è accaduto nello stadio di San Cristobal? Nulla di speciale o di particolarmente nuovo, specie per tutti coloro che hanno qualche familiarità con le cerimonie di massa che, ancor oggi, marcano le pubbliche apparizioni di leader come Kim Jong Il (o, in anni non poi tanto lontani, il di lui padre, Kim Il Sung, padre fondatore e riconosciuta divinità della Repubblica Popolare di Corea, o Corea del Nord). Perché agli ospiti della manifestazione calcistica – che per la prima volta si svolge in Venezuela, paese tradizionalmente “pelotero”, nel senso della pelota da baseball – Hugo Chávez ha in effetti offerto, come da tradizione, musica, balli e fuochi artificiali. Il tutto finalizzato però, nel caso specifico, non tanto all’esaltazione dell’evento sportivo, quanto alla incondizionata glorificazione di se medesimo, in virtù, soprattutto, dell’assai ben coordinato movimento, nella tribuna opposta a quella d’onore, di giganteschi cartelli tesi a formare, a comando, il nome ed il molto ispirato volto del “grande leader”. Raccontano che, per questo, lo stadio fosse stato opportunamente riempito, in tutte le posizioni strategiche, da chávisti di provatissima fede e di collaudata perizia in questo genere di esibizioni. E per quanto Chávez vada da tempo gridando contro la “dittatura mediatica” che, perfidamente, va diffondendo nel mondo falsità al fine d’infangare la sua immagine ed il suo buon nome, è davvero difficile pensare che quella cerimonia fosse qualcosa di diverso da quello che inequivocabilmente appariva. Ovvero: una piuttosto squallida (e non poco ridicola) operazione di regime, nella quale impossibile era individuare alcunché di “spontaneo”.
Alcunché, tranne forse una cosa. La più importante: il discorso che il “grande ed amato leader” ha in chiusura rivolto alle masse in tripudio, contravvenendo, pare, a tutte le regole della Confederazione Sudamericana del Football (Conmebol), in virtù delle quali, fino ad oggi, nessun presidente latinoamericano aveva mai usato la Copa America per discorsi che non fossero strettamente protocollari. Che cosa Chávez intendesse dimostrare con le sue infuocate ed assai divaganti parole (vedi – video 1 e video 2 – questi due esempi da YouTube), non è facile dire. Così come difficile è dare un senso compiuto alle frasi, insieme enfatiche e misteriose (o, forse, semplicemente insensate) con cui il presidente bolivariano ha bolivarianamente chiuso la sua orazione. “Simón Bolivar disse che l’America è la Patria. Per noi oggi l’America è la coppa, e la coppa è la Patria. Che Dio benedica tutte le delegazioni…”. Ma certo è che volevano, quelle parole, essere il suo personale e carismatico sigillo su una competizione sportiva destinata, secondo la narcisistica volontà del capo, ad identificarsi con le sue glorie.
Gli analisti più raffinati ci ricordano – e con moltissime buone ragioni – come Hugo Chávez vada, in realtà, giudicato non per quello che dice, ma per quello che fa. E come, dietro la non di rado pagliaccesca esuberanza della sua messianica logorrea, si celi uno uno stratega di prima qualità, tra i cui originali meriti storici indubbiamente spicca quello d’aver rotto gli antichi equilibri d;una democrazia inamidata (quella del cosiddetto “Punto Fijo”) rendendo finalmente protagoniste masse di diseredati fino ad allora escluse dal gioco della democrazia. O, quantomeno quello di avere saputo occupare, con indiscutibile intelligenza, i vuoti lasciati dalla rottura degli antichi equilibri provocata dal doloroso fallimento delle politiche neoliberali praticate dai suoi predecessori.
Tutto vero. Ma resta il fatto che su questa verità, o su questa sostanza – ancora accettabile, almeno sul piano storico – sempre più pesa la forma d’un metodo di governo sempre più basato sul culto della personalità del leader Le immagini dello stadio di San Cristobal, addobbato per accondiscendere alla deificazione di Chávez, rappresentano – soprattutto per la sinistra latinoamericana – qualcosa di più d’uno spettacolo grottesco. Sono state (e sono) un modo per rammentare, in effetti, un’altra ed altrettanto elementare verità. Se qualcuno si comporta come un dittatore, non necessariamente è un dittatore (e Chávez non lo è). Ma è molto probabile che tale desideri diventare.
M.C.
Aggiungiamo alla lista dei video anche quello che ritrae la preparazione di analoghe manifestazioni di popolare tripudio per il capo nello stadio di Merida (cliccare qui). Chi lo desidera – e desidera, nel contenpo, farsi quattro risate – puo trovare i medesimi video, politicamente chiosati, nel sito in italiano Notizie da Caracas, dal quale s’apprende che quel che si vede non è, in realtà “culto della paersonalità. ma “semplice amore delle folle”. Come in Corea del Nord, per l’appunto.