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Obama v Cheney, una battagla per l’anima della Nazione

Nel ribadire la sua decisione di chiudere la prigione di Guantánamo, il presidente richiama i valori fondamentali che “hanno fatto grande l’America” – Ed il vecchio “tutor” di George W. Bush da par suo subito replica millantando le “migliaia di vite umane salvate” grazie all’uso della tortura – “Nella lotta al terrorismo – afferma Cheney – non esiste una via di mezzo”. E, su questo punto, paradossalmente, è proprio lui ad aver ragione…

 

7 maggio 2009

di Massimo Cavallini

 

“A Thrilla Near the Hilla”, un thriller nei pressi della collina. Così Dana Milbank, uno dei columnist del Washington Post, ha fantasiosamente definito il duello oratorio-politico-televisivo che, giovedì scorso, ha contrapposto, in materia di sicurezza nazionale, il neo-presidente Barack Obama e l’ex vicepresidente Dick Cheney. La collina, o “The Hilla” – come con aperta concessione alle storpiature linguistiche dell’ “ebonics”, l’ha chiamata il giornalista – è, ovviamente, Capitol Hill, l’imponente sede del Congresso Usa, all’ombra della quale, uno dopo l’atro, i duellanti hanno tenuto i rispettivi discorsi (nella “rotunda” del National Archives Building, Barack Obama, nella sede dell’American Enterprise Institute, tra la 17esima e M, il non dimenticato vice di George W. Bush). Ed il “Thrilla” (ovvero, l’evento storico-sportivo di riferimento) è, altrettanto ovviamente, quello che, all’istante, riaccende la memoria del celeberrimo – almeno per gli appassionati di pugilato – match (“A Thrilla in Manila”, per l’appunto, da molti considerato il più grande di tutti i tempi) che, nella capitale delle Filippine, regnante il dittatore Ferdinand Marcos, il primo ottobre del 1975 vide Mohammed Ali battere Joe Frazier per KO tecnico al 14esimo round.

Che le similitudini tra “A Thrilla Near the Hilla” e “A Thrilla in Manila” siano in realtà, anche sul piano meramente metaforico, decisamente limitate, è piuttosto evidente. In quella indimenticabile notte di 34 anni orsono, Muhammad Ali e Joe Frazier si massacrano a vicenda in un match che, di fatto, marcò la fine delle rispettive carriere pugilistiche (Frazier venne fermato dal suo manager prima dell’inizio dell’ultimo round perché ormai cieco; ed Ali, esausto, svenne sul ring subito dopo esser stato proclamato vincitore). Obama e Cheney, invece, non solo si sono scontrati senza mai materialmente incontrarsi, ma il loro scontro ha in effetti aperto, e non chiuso, sul tema della tortura, una battaglia etico-politica destinata a durare ed a marcare nel profondo i prossimi anni. Una cosa, tuttavia – se davvero vogliamo fare qualche passo in più lungo la scivolosa china dei parallelismi – forse si può aggiungere. Ed è questa: anche giovedì pomeriggio a Washington D.C., come a Manila nel 1975, uno dei due contendenti (Barack Obama) ha “danzato come una farfalla e punto come un’ape”, mentre l’altro (un Dick Cheney ancor più tetro di quello dei giorni del potere) ha attaccato a testa bassa con una furia che, nel suo caso, neppure aveva la giustificazione (sacrosanta, in Joe Frazier) delle ripetute (e molto volgari) provocazioni verbali del rivale.

Finalmente fuor di metafora. Con tutt’altro che casuale coincidenza temporale, il presidente e l’ex vicepresidente hanno da contrapposte trincee affrontato un tema – quello di Guantánamo e dintorni – reso ancor più d’attualità da un altro evento consumatosi all’interno di “The Hilla”. Ovvero: il soverchiante voto – 90 contro 6 – con il quale il Senato aveva, all’inizio della settimana, rifiutato di stanziare gli 80 milioni necessari per procedere, come deciso dal presidente, alla chiusura del carcere speciale creato dal Bush nella base militare Usa in territorio cubano. “Tradito” dai democratici – a cominciare dal capo della maggioranza, Harry Reid – Barack Obama ha preso la parola per ribadire, con la consueta, didascalica eloquenza, un basilare concetto: non esiste, non può e non deve esistere alcuna contraddizione tra la difesa della sicurezza nazionale e le idee che “hanno fatto grande questa nazione”. Ergo: occorre chiudere Guantánamo, ripulire i suoi dintorni, cancellare per sempre la vergogna della tortura e ridare all’America “la forza dei suoi principi”. Questo ha detto il presidente. E Dick Cheney gli ha fatto immediata eco (o meglio: ha fatto immediata eco a se stesso, non appena Obama ha terminato il suo discorso) sostenendo l’esatto contrario. Vale a dire: il paese è in guerra e la guerra ha le sue regole. Chiudere Guantánamo e rinunciare a quelle che Cheney, con macabra ipocrisia, chiama, “enhanced interrogation tecniques”, tecniche rafforzate di interrogatorio, significa mettere a repentaglio la sicurezza del paese.

Entrambi i duellanti hanno scelto, per la loro battaglia, scenari dall’alto valore simbolico. Obama parlando nel luogo dove, in bella vista, sono conservati i testi originali della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione. Cheney, esibendosi nella sala dell’Istituto dove, subito dopo la Prima guerra del Golfo, nacque quel “Project for the New American Century”, che fu il manifesto dei “neocons” e che, per molti aspetti, definì le basi teoriche della guerra in Iraq. E qualcuno ha (con molte buoni ragioni) parlato di scontro tra “passato e futuro”, tra una politica già fallita ed una politica che, ancora, non si è formata. Ma è in realtà nel presente che s’è consumato l’aspetto forse più interessante d’una disfida che non ha visto contrapporsi soltanto due diversi ordini di valori, ma anche due diverse concezioni della politica. Da un lato (in un angolo, verrebbe da dire, riallacciandosi alla metafora pugilistica) Barack Obama, il “grande conciliatore”, un naturale centrista che, danzando come una farfalla e (molto più raramente) pungendo come un ape, appare alla perenneAC, pragmatica ricerca, d’un cambiamento – il famoso “change you can believe in” – fatto essenzialmente di compromesso, consenso, superamento d’ogni conflitto. E, dall’altro (nell’angolo opposto), il più emblematico rappresentante d’una politica che – pur accusando ogni rivale di “estremismo” o, addirittura, di “socialismo” – proprio nella “moderazione” vede l’origine d’ogni peccato. “La nuova Amministrazione – ha detto con accenti volutamente sardonici Dick Cheney – sembra orgogliosa della sua ricerca d’una sorta di via di mezzo nella sua politica antiterrorista…ma nella lotta al terrorismo non esiste via di mezzo…La triangolazione è una strategia politica, non una strategia per la sicurezza nazionale…”.

Sembra di riascoltare, in chiave farsesca, la tragica frase con la quale, nella “Battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, il generale Jacques Massu, replica ai giornalisti che l’interrogano sull’uso della tortura: “Sono io, signori, che rivolgo a voi una domanda. Volete che l’Algeria resti francese? Se la vostra risposta è sì, dovete accettarne tutte le conseguenze”. Anche giovedì pomeriggio, Dick Cheney, cambiando nome a pratiche che, da sempre, sono forme di tortura, ha con toni sprezzanti chiesto all’America di accettare “tutte le conseguenze” di una politica che, ha sostenuto, ” ha salvato migliaia, forse centinaia di miglia di vite umane…”.

Chi ha ragione? Se la domanda riguarda l’uso della tortura, nessuna persona civile può aver dubbi. Anche perché le cronache degli otto anni del regno di Bush-Cheney, ci hanno ormai inequivocabilmente rivelato come le “migliaia, forse centinaia di migliaia di vite umane”, siano, in realtà, non quelle (inesistenti o, comunque, non misurabili) salvate grazie alla pratica del “waterboarding” nelle più o meno segrete prigioni della Cia, bensì quelle (ben visibili e misurabilissime) sacrificate in una guerra (leggi: Iraq) che ha, non combattuto, ma alimentato il terrorismo internazionale. Più difficile, molto più difficile, è, invece, sciogliere il nodo della “via di mezzo”. Ovvero: esaminare e giudicare la strada battuta da un presidente che ha fin qui affrontato la pesantissima eredità del suo predecessore, dando, in materia di diritti umani, il proverbiale “un colpo al cerchio ed uno alla botte”. Decretando la chiusura di Guantánamo, ma confermando i processi attraverso le commissioni militari ed il principio, nel caso di provata “pericolosità”, di detenzione indefinita senza processo. Promettendo assoluta “trasparenza” e, nel contempo, vietando la pubblicazione delle foto relative agli abusi di prigionieri…

Il torvo Dick Cheney ha, su questo punto, paradossalmente ragione. In materia di diritti umani non esistono “vie di mezzo”. E probabilmente Barack Obama, il grande conciliatore, non potrà, a dispetto della sua eloquenza, vincere il suo duello senza fare, fino in fondo, i conti con il recentissimo ed ancor vivo passato che, giovedì pomeriggio, l’ex vice presidente è tornato a difendere con tanta iattanza. Non potrà, come sembra desiderare, pensare al futuro, un futuro senza tortura, evitando di spiegare fino in fondo come, quando e, soprattutto, perché l’America ha torturato.

Il senso del “duello” è, in fondo, tutto qui. Ed il duello è appena cominciato.

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