Barack Obama è diventato una star del firmamento democratico – ed un popenziale primo presidente nero degli Stati Uniti d’America – adottando una semplice ed assai efficace filosofia. Ovvero: promettendo un cambiamento radicale non attraverso il conflitto, bensì attraverso la conciliazione – Ora il suo conflitto con Hillary per la nomination democratica gli impone una inversione di rotta. Riuscirà a sopravvivere?
13 dicembre 2007
di Massimo Cavallini
“Wuod Kogelo dwaro Golo Bush e kom”. Un figlio del clan di Kogelo sfida Bush per la presidenza degli Stati Uniti d’America. La storia della corsa alla Casa Bianca di Barak Hussein Obama – o, quantomeno, la storia della sua contesa per la nomination democratica – potrebbe partire proprio da qui: dal titolo dell’articolo con il quale, nel maggio del 2004, l’edizione in swahili del Nairobi Times salutò la sua ascesa agli onori delle cronache politiche nel cuore del “Primo Mondo”. E ciò per almeno due eccellenti ed interconnesse ragioni. La prima: perché, per quanto piuttosto grossolanamente sbagliato alla luce della cronaca, quel titolo potrebbe presto rivelarsi, alla luce della Storia, involontariamente, ma assai nitidamente profetico. E soprattutto perché – seconda ragione – proprio in quanto sbagliato e, nel contempo, potenzialmente profetico, quel titolo a suo modo rivela, con quasi visuale efficacia, quella che è probabilmente la più marcata caratteristica del candidato Obama: la sua capacità d’offrire “sensazioni forti” che vanno ben oltre la realtà delle cose e delle parole. O, se si preferisce, un carisma in grado, sempre e comunque, di librarsi molto al di sopra della concreta banalità delle piattaforme, dei progetti e di quelle che, nella vita di tutti i giorni, vengono di norma chiamate “proposte politiche”. Ai tempi di quel titolo, infatti, Barak Obama altro non era che un’assai promettente, ma ancor opaca stella nascente del firmamento democratico. E non stava affatto “sfidando Bush per la presidenza degli Stati d’America”, bensì misurandosi con un piuttosto sgangherato contendente repubblicano per il seggio vacante di senatore dell’Illinois. Evidenze, queste, che, tuttavia, erano sembrati semplici e più che trascurabili dettagli ad un inviato del Nairobi Times affascinato dalla magnetica personalità del “figlio del clan di Kogelo” e, forse ancor più, dalla possibilità che un keniano (almeno d’origine) potesse, un giorno non lontano, assurgere al più alto posto di comando politico-militare del pianeta Terra.
Tra qualche mese, quando le primarie democratiche entreranno finalmente nel vivo, si saprà se quei dettagli siano stati ritenuti tali – trascurabili – anche dalla Storia. O, più esattamente, se davvero toccherà a Barak Hussein Obama sfidare, non George W. Bush – ormai “impresentabile” tanto in termini strettamente costituzionali, quanto in più generale senso politico –, bensì il candidato repubblicano sul quale ricadrà il compito (ingrato, almeno alla luce dell’oggi) di correre con il fardello dell’eredità dell’attuale presidente. Ma certo è che la summenzionata capacità d’offrire “sensazioni forti” – la stessa che ammaliò allora il giornalista venuto dal “continente nero” – ha fin qui funzionato con straordinaria puntualità. La campagna di Barack in Illinois fu un’autentica marcia trionfale. Lo fu non solo (e non tanto) per gli ampi margini della sua vittoria finale, quanto per l’immagine di sé – un’immagine vincente e convincente – che il candidato aveva saputo dare nel corso d’una battaglia che, per molti aspetti, non poteva non vincere. Jack Ryan, il contendente che era uscito con la nomination dalle primarie repubblicane, aveva dovuto repentinamente ritirarsi a causa delle accuse di molestie sessuali lanciate contro di lui, nel corso d’una feroce causa di divorzio, dalla ex moglie, l’attrice Jeri Ryan. Ed al Grand Old Party dell’Illinois, precipitato dalla vicenda in uno stato di completo caos, altro non era rimasto che reclutare, in Maryland, un ultrareazionario predicatore nero, il reverendo Alan Keys, fisso (e fissamente perdente) partecipante alle primarie repubblicane per la nomination alla Casa Bianca.
Costretto a vincere dalle circostanze, Obama era tuttavia riuscito a battere, per così dire, anche le circostanze. Ovvero: era riuscito a trasformare in una personale apoteosi quella che era, sulla carta, una grigia e scontata vittoria. Così come, quattro anni prima – quando in uno dei distretti più neri della nera città di Chicago, aveva, a parti capovolte, sfidato nelle primarie democratiche l’ “imbattibile” ex Black Panther Bobby Rush – era riuscito a trasformare una sconfitta (ed una sconfitta piuttosto sonora sul piano numerico) in un vero e proprio trampolino di lancio. Poiché proprio questa era stata la sensazione di tutti coloro che avevano seguito l’ “iniqua” contesa dipanatasi nel South Side della “Città del vento”: che quella di Bobby Rush altro non fosse stata, in fondo, che la vittoria (una delle tante) di un nero in un quartiere nero; e che quella di Obama, al contrario, fosse stata la sconfitta d’un nero comunque destinato a librarsi ben oltre i confini del ghetto. O, per usare le parole del medesimo Barak Hussein, la sconfitta d’un nero che dal proprio essere afro-americano viene “definito, ma non limitato”.
Fu questo afro-americano che, alla fine di luglio del 2004 venne dal partito democratico invitato a tenere il “keynote address” – uno dei più importanti discorsi programmati – alla convenzione che, alla fine di luglio del 2004, ufficializzò la candidatura di John Kerry alla Casa Bianca. Ed è da quel discorso che nasce o, per meglio dire, che si rivela, con il peso della “ineluttabilità”, o della forza del destino, il Barack Obama prossimo candidato alla presidenza. Perché “da candidato alla presidenza” furono quel giorno – a detta di pressoché tutti gli osservatori – le sue parole. E, ancor più, perché da candidato alla presidenza furono il tono, il senso, l’atmosfera di quelle parole. O, per l’appunto, la “impressione” che quelle parole avevano lasciato tra quanti le avevano ascoltate.
Che cosa disse, Obama? Non è facile riassumerlo, perché difficile è descrivere qualcosa che proprio all’indeterminatezza, all’indecifrabile, “pesantissima” leggerezza dei propri sedimenti, deve la sua forza. Questa, in ogni caso, fu la frase che con maggiore frequenza venne allora (ed ancor oggi viene) citata dai media: “I politologi amano spezzettare il nostro paese in Stati blu (quelli a maggioranza democratica n.d.r.) ed in Stati rossi (quelli a maggioranza repubblicana n.d.r.). Ma io ho da riferir loro una notizia. Anche negli Stati blu gli americani hanno timor di Dio, ed anche negli Stati rossi c’è chi non ama che gli agenti federali mettano il naso nelle nostre biblioteche. Noi ci divertiamo ad allenare i nostri bambini che giocano nelle Little League anche negli Stati blu e, ebbene sí, abbiamo amici gay anche negli Stati rossi. Vi sono, in America, patrioti che si oppongono alla guerra in Iraq e patrioti che l’appoggiano. Noi siamo un solo popolo che ha giurato fedeltà alle stelle e strisce, pronti, tutti noi, a difendere gli Stati Uniti d’America… “. Una frase banale, di ordinario patriottismo? Sí, se la si legge, fuori da un preciso contesto, sulla carta stampata. Molto meno se, questa stessa frase, viene pronunciata nell’America di George W. Bush, un presidente che del più gretto manicheismo patriottardo ha fatto – specie in riferimento alla guerra in Iraq – il suo marchio di fabbrica. No del tutto, se quelle parole escono dalla bocca d’un uomo di straordinaria eloquenza che proprio nel binomio “cambiamento-conciliazione” (o conciliazione-cambiamento) ha trovato la definizione, o meglio, la non-definizione, del suo carisma.
Proprio così – “The Conciliator”, il conciliatore – recita il titolo d’una delle più brillanti e recenti analisi delle idee e della carriera di questa nuova stella della politica americana, quella scritta lo scorso maggio per The New Yorker da Larissa McFarquhar. E proprio questo è ciò che, in effetti, emerge da tutta la storia personale – tutta da raccontare e, a suo modo, anch’essa carismatica – di Barak Hussein Obama. Un “uomo del destino”, un progressista non spaventato, come molti suoi colleghi democratici, dall’etichetta di “liberal”, un affascinante “rivoluzionario” che, senza apparenti contraddizioni, con grande forza propone se stesso come agente di cambiamento radicale, non attraverso il conflitto, ma attraverso la conciliazione. Ancor più precisamente (o imprecisamente, visto che proprio dalla vaghezza dei loro confini dipende l’ampiezza degli orizzonti politici definiti, o indefiniti, da Obama) attraverso il riscatto (parole sue) di quel “minimo comun denominatore di decenza” che, proprio d’ogni americano, è andato perduto in una realtà politica dominata dalla faziosità degli interessi di parte. Volendo ripetere lo sferzante (ed ovviamente tutt’altro che disinteressato) giudizio d’uno dei suoi avversari nella corsa per la nomination: dire quel che pensa Obama è impossibile, ma certo è che “pensa in grande”. Ed ancor più certo è che proprio all’ampiezza degli orizzonti del suo pensare – infiniti perché indefiniti – Obama deve la sua diversità e la sua repentina (ed almeno fin qui) irresistibile ascesa.
Ma da dove viene, e dove può in effetti arrivare, questo “uomo nuovo”? Dal clan di Kogelo, come reclamava il Nairobi Times fin dagli albori della sua fulminante carriera? O dalle isole Hawaii, come più sobriamente informa il suo certificato di nascita (Honolulu, 4 agosto 1961)? Da entrambi i luoghi e, insieme, da molti altri “incroci di vita” o – sono sempre parole di Obama – da molte altre “conciliazioni di forze diverse”. Suo padre, Barak Obama senior, un mussulmano, era per l’appunto un membro del clan Kogelo, nella provincia di Nyanza, in Kenia. Ed era povero quanto basta per essere, a tratti, costretto a pascolare le capre del nonno, proprietario d’una modesta fattoria. Ma anche ricco quanto basta per andare a scuola e guadagnarsi una borsa di studio per l’Università di Manoa, ad Honolulu, dove, poco dopo il suo arrivo, avrebbe incontrato e sposato Ann Durham, studentessa a sua volta proveniente da Wichita, Kansas, nel più profondo “hearthland”, cuore bianco dell’America bianca. Barack Hussein nasce da questa storia d’amore in bianco e nero, intensa e breve, rarissima nell’America d’allora ed ancor oggi del tutto inusuale. Due anni dopo, il divorzio. Barack resta con la madre e, di fatto, perde di vista il padre (che dopo essersi laureato a Harvard, sarebbe poi tornato in Kenia, per morire in un incidente d’auto nel 1982, quando Barak aveva da poco compiuto i 21 anni). Ann Durham si risposa quasi subito con uno studente indonesiano, Lolo Soetoro, con il quale va, insieme al figlio, a vivere a Jakarta, dove Barak frequenta, tra i 6 ed i 10 anni, una scuola islamica. Poi il ritorno ad Honululu, ospite dei nonni materni fino alla conclusione degli studi nella Punahou High School. E, quindi, l’Occidental College, la Columbia University di New York, dove si laurea a pieni voti in Scienze Politiche, e la scelta del lavoro sociale a Chicago, destinata a diventare la sua città, il suo primo vero incontro, nel South Side, con la comunità nera d’America. E, ancora, l’ingresso nella prestigiosa Law School di Harvard, la sua nomina a direttore – primo nero a raggiungere la meta – della Harvard Law Review, il ritorno a Chicago, il suo primo vero approccio con la politica…
Nella sua prima autobiografia – “Dreams of My Father” – Barak Obama racconta, con una sincerità ed una forza letteraria assai rara nei libri scritti da “presidenziabili”, gli anni della sua adolescenza scapestrata, il suo uso di droga e la rabbiosa ricerca del suo più intimo io rimirando le immagini d’un padre e di una madre tanto diversi, eppure tanto uguali nella loro lontananza da lui. “Il dubbio che mio padre fosse altra cosa rispetto alla gente che mi circondava, lui nero come il catrame e mia madre bianca come il latte – ha scritto Barak – non mi è mai passato per l’anticamera del cervello”. Quello che a lui pesava, quello che gli doleva dentro, era che né l’uno, né l’altra (anche la madre morì di cancro nel ’95, a Jakarta, poco prima dell’uscita del libro) lo stessero accompagnando nella sua crescita, nel suo difficile incontro con la vita. E proprio questo – quello della riconciliazione con se stesso, con la sua solitudine e con i suoi rancori giovanili – è il momento chiave della biografia del “Grande Conciliatore”. Non più di due settimane fa, nel corso d’uno dei molti dibattiti televisivi tra contendenti democratici, il giornalista-conduttore ha chiesto a bruciapelo a tutti i candidati quale considerassero il più importante momento di svolta della loro vita. E Barak Obama ha senza esitazioni risposto: “Quello del passaggio dalla scuola superiore all’Università. È lí che ho ritrovato il mio punto di equilibrio, la mia ragione di vita oltre i furori della mia gioventù…”.
Tipicamente, Barak non ha spiegato quali siano queste “ragioni di vita”. Ma, altrettanto tipicamente, è riuscito a convincere molti – anche quelli, probabilmente, che alla fine non voteranno per lui – che quelle ragioni sono le stesse che covano, da sempre, nei più profondi strati del loro essere. Poiché su un punto, almeno, tutti sono d’accordo: nessuno, tra i candidati, ha l’eloquenza di Obama, la sua capacità di richiamare, come una rock star, grandi folle e, insieme, quella di creare un rapporto personale, intimo quasi, con ciascuno dei suoi ascoltatori. E tutto questo a fronte d’un curriculum politico straordinariamente scarno. Nessuna vera battaglia politica, nessuna vittoria e nessuna sconfitta capaci di tracciarne un identificabile profilo. Volendo parafrasare il Gattopardo, si può dire che Barak Obama è il candidato che tutto può cambiare, perché nulla ha fin qui cambiato e perché nessuno sa che cosa, in effetti, lui voglia cambiare.
Qualcuno ha paragonato la sua campagna a quella di Bob Kennedy che, nel 1968, parve per una breve stagione, cambiare il paradigma della politica americana. Ma il parallelo più giusto è, probabilmente, anche il più paradossale. In questa battaglia elettorale nella quale il concorrente da battere, la “lepre”, è Hillary Clinton, vera padrona della macchina elettorale del partito democratico, Barack è, in realtà – mutatis mutandi – la copia di “the man from Hope”, del Bill Clinton che, nel 1992, sbaragliò il campo delle primarie. Stesso naturale istinto “centrista”, stessa capacità di trasformare l’inesperienza in una vaga ma fascinosa promessa di cambiamento “bipartisan”. Stesso – o quasi – talento per la “triangolazione”.
Sarà una di queste clintoniane triangolazioni ad affondare, infine, la corazzata elettorale di Hillary Clinton? Per i sondaggi si tratta d’una prospettiva piuttosto remota, ma tutt’altro che impossibile, a patto che Barak “dia battaglia”. Per il “conciliatore”, insomma, s’approssimano i tempi d’un inevitabile conflitto. E, con il conflitto, quelli della definizione. Riuscirà a sopravvivere?