Una gigantesca ombra – quella, è appena il caso di ricordarlo, di Diego Armando Maradona – ha notoriamente seguito, vittoria dopo vittoria, trofeo dopo trofeo, tutta la fantastica carriera calcistica di Lionel Messi. Più che seguirla, l’ha anzi, al contrario d’una normale ombra, preceduta ad ogni tappa. E, precedendola, l’ha anche sistematicamente limitata ed irretita – talora perfino minimizzata ed irrisa – con tutta l’ingombrante ed appiccicosa molestia del refrain che, da sempre, scandisce l’esistenza di quanti, per volontà propria o per la forza degli eventi, hanno dovuto infilarsi ai piedi le scarpe di personaggi entrati nel mito. O addirittura, come nel caso di Maradona, trasfiguratisi in un vero e proprio culto. Il refrain è, naturalmente, quello che, di norma, s’apre con un molto tiepido “sì…”, ed altrettanto immancabilmente si chiude con un molto più perentorio “ma…”. Sì, è vero, il tale ha vinto questo e quest’altro, ma a dispetto di tanti allori, ancora neppure è in grado d’allacciare le scarpe che va tanto improvvidamente calzando, o nelle quali qualcuno – un “qualcuno” che, paradossalmente, quasi sempre è il medesimo che quel refrain va intonando – lo ha arbitrariamente infilato.
Più che un’ombra Diego Armando Maradona è stato per Messi, negli ultimi tre lustri, un vero e proprio fantasma. Meglio ancora: una sorta di spettrale agente delle tasse, pronto, dopo ogni vittoria, a presentargli l’elenco dei tributi ancora da lui non pagati per potere, volente o nolente – e nolente, io credo, Messi sia sempre stato – paragonare se stesso al mito. Questo fino a ieri. Perché trionfalmente consumatasi, domenica scorsa, la vittoria argentina in quel del Qatar, l’opinione corrente – e corrente al punto da assomigliare ad uno tsunami di patrio entusiasmo – sembra avere radicalmente cambiato il “titolo” della storia. Vincendo il Mundial – e vincendolo da leader indiscusso della squadra – Lionel Messi ha finalmente pagato il suo ultimo balzello all’ombra che lo ha inseguito, anzi, preceduto e angariato per tutta la sua vita calcistica. Lionel Messi si è infine “maradonizzato”. E da maradonizzato può ora sedere, degno erede, al fianco di Diego Armando.
Ma stanno davvero così le cose? Quanto definitiva, irreversibile è questa trionfale entrata di Lionel Messi nell’Olimpo maradoniano? E soprattutto: in che cosa davvero consiste la “maradonizzazione” di cui sopra? Qual è stato l’elemento decisivo, il vero “salto di qualità” che ha infine chiuso la lunga rincorsa? La risposta più semplice ed immediata è, ovviamente, quella che già abbiamo dato: la Coppa, il trionfo in Qatar. Ma si tratta anche, nella sua immediatezza e semplicità, d’una risposta sbagliata, considerato che, prima dell’avvio del Mundial, molti commentatori – e di certo tutti i numerosissimi affiliati al culto di Diego – già avevano sentenziato come, neppure con una vittoria nei deserti d’Arabia, Messi avrebbe potuto colmare, o anche solo accorciare, di per sé, le distanze che lo separavano da Maradona. E solo parzialmente può aiutare, alla ricerca d’una credibile risposta, un ennesimo ritorno alle ragioni “di carattere” che da sempre – essendo calcisticamente parlando entrambi, Maradona e Messi, parte di quel ristrettissimo circolo di semi-dei la cui qualità, tendendo all’infinito, non è né misurabile né comparabile – ha rappresentato il vero cuneo, il vero elemento di separazione tra i due.
La storia è stranota. Diego l’indomabile “pelusa”, Diego il ragazzino spavaldamente “porteño” che, cresciuto in uno dei tanti “potreros” della Provincia di Buenos Aires, ha saputo sfidare e costringere ai suoi piedi il mondo intero. Lionel il timido “rosarino” – così si chiamano gli abitanti della città di Rosario dove Lionel è nato– che, reclutato dai talent scout del Barcellona, ha lasciato l’Argentina quando ancora era un bambino dai piedi incantati, ma afflitto da una rara forma di rachitismo. Diego il ribollente concentrato di pura “argentinità”, Diego il vulcano in perenne eruzione. Lionel l’argentino “per modo di dire”, il “pecho frío”, Il petto freddo che della “argentinità” di cui sopra mai davvero ha sentito il calore. Diego il vero leader, la vera guida. Diego la bandiera. Lionel il folletto capace di incantare per la sua leggerezza e per la leggiadria delle sue giocate, ma pronto ad eclissarsi nel furore della battaglia…
Basta tuttavia un minimo di analisi storico-calcistica per verificare l’intrinseca, direi ridicola debolezza di questa molto manichea ricostruzione degli eventi. Il “pecho frío” Lionel Messi, infatti, non ha soltanto conquistato, quando ancora non aveva compiuto i vent’anni, una delle più sofisticate ed esigenti platee calcistiche del mondo – quella del Camp Nou, con la quale, prima di incontrarsi con Napoli, la sua città del destino, Diego Armando non era, al contrario, mai davvero riuscito ad entrare in sintonia – ma di quel mitico Barça di Pep Guardiola (indiscutibilmente una delle più grandi squadre di tutti i tempi) è anche stato per molte stagioni, non solo un leader, ma il più osannato simbolo. Ed un leader, calcisticamente parlando, Messi è per molti anni stato – senza mai, come di usa dire, “tirare indietro il piedino” – anche della selección albiceleste. La stessa che, nel luglio del 2021, indossando la fascia di capitano e segnando quattro gol, già aveva condotto alla vittoria nella Copa America dopo molti anni di digiuno e in un epica finale contro i padroni di casa brasiliani.
In qualunque altro paese si fosse presentato ad un ipotetico esame di leadership calcistica, Lionel Messi sarebbe stato, già da anni, promosso con il massimo dei voti, accompagnato dal proverbiale bacio in fronte accademico. Ma in Argentina qualcosa – e qualcosa di fondamentale – gli mancava per essere il migliore. O meglio: per “essere Maradona”. Che cos’era (e che cos’è) questo qualcosa? Per capirlo è di grande aiuto dare lettura alle poche ma illuminanti righe con le quali, via Twitter, un personaggio che è da ormai un ventennio – nelle vesti di senatrice e first lady, di presidente (per due mandati), di indiscusso capo dell’opposizione ed ora di vicepresidente (o di presidente ombra, come non pochi sostengono) – non solo è solidamente al centro della vita politica argentina, ma è anche alla carismatica guida d’un movimento, il peronismo, senza il quale impossibile è capire che cosa davvero sia, politicamente, socialmente ed antropologicamente, l’Argentina. O – come non pochi sostengono – grazie al quale ormai impossibile è capire che cosa davvero sia, politicamente, socialmente ed antropologicamente, l’Argentina.
Questo “personaggio” è, ovviamente, Cristina Fernández de Kirchner. E queste sono le parole con le quali, domenica scorsa, in nome d’una indubitabilmente grande fetta del paese, ha reso omaggio ai vincitori della Coppa del Mondo. Ed in particolare al “capitán” Lionel Messi. “Grazie infinite, capitano…a te, alla squadra ed al corpo tecnico per l’enorme allegria che avete regalato al popolo” ha scritto Cristina. Ed ha subito aggiunto: “…ed un saluto particolare a te (sempre Messi n.d.r.) per il tuo maradoniano ‘anda pa’allá, bobo’ con il quale hai definitivamente conquistato il cuore degli argentini”. Per chi non lo sapesse: “Anda p’allá, bobo” – grossomodo traducibile in un “togliti dai piedi, cretino” – è la frase che, nel corso della intervista di dopopartita degli ottavi vinti (ai rigori) contro l’Olanda, un insolitamente altezzoso Lionel Messi ha, “en vivo y en directo”, rivolto ad un allora ignoto personaggio fuori inquadratura (poi risultato essere l’attacante “orange” Wout Veghorst avvicinatosi, a quanto si dice, per felicitarsi col capitano avversario).
Togliti dai piedi, cretino. Un insulto, una gratuita scortesia, un gesto maleducato e volgare o, come si dice nella stessa Argentina, una “guarangada”. Insomma: qualcosa di simile al classico “que se la chupen”, che se lo succhino (il pene), col quale il Maradona del dopo-Maradona (ovvero, il Maradona tecnico-allenatore) usava rispondere a quanti criticavano il suo operato. Questo era dunque l’ultimo passo, l’anello mancante, la chiave per potersi, infine, sedere al fianco di Diego Armando. Lionel Messi doveva, semplicemente capire come, per l’Argentina maradoniana (che è poi anche l’Argentina che, alla lunga, ha ucciso Maradona) non esiste una vittoria – per quanto importante sia – se non la puoi in qualche modo gettare in faccia a qualcuno con un “vaffa” o con un “che c…o vuoi”. O – per citare un molto concreto e recentissimo esempio – con un “prenditela in quel posto”, come – in quella che indiscutibilmente resterà una delle immagini simbolo di questo Mundial petrolero – molto efficacemente ha infine illustrato, su scala planetaria, “el Dibu” Mártinez nell’usare il “Guanto d’Oro” meritatamente vinto come miglior portiere del torneo, in una simulazione d’erezione e coito elegantemente dedicata ai perdenti. Questo Messi doveva capire. E questo Messi ha infine capito, fugando i dubbi anche degli ultimi scettici maradoniani, allorché con queste parole ha iniziato, ancor fresco il sudore della battaglia, la sua prima pubblica intervista televisiva da campione del mondo: “La concha de su madre, somos campeones!!”. Traduzione letterale: la conchiglia (metafora volgarizzata per “vagina”) della loro madre (la madre, evidentemente, di quanti tifavano contro l’Argentina o, comunque, non tifavano Argentina) siamo campioni!!
Che accadrà adesso? Quanto durevole sarà la maradonizzazione di Lionel Messi? Impossibile è rispondere. Ma lecito è sperare che, compiuto, al di là del trionfo, quell’ultimo passo per saziare gli appetiti del più spinto maradonismo (argentino e non solo), Messi finisca davvero in gloria la sua splendida carriera così come era cominciata nella “cantera” del Barcellona: giocando divinamente al calcio. E risparmiando e se stesso il lungo, penoso calvario percorso dall’ombra che lo ha tanto a lungo inseguito, per poi finire a sua volta inseguito dalla propria ombra, stritolato sotto il peso del proprio culto.
Vale forse la pena, per sostenere questa speranza, ricordare quello che fu il primo vero incontro tra un già maradonizzato Maradona ed un Messi ancora pienamente se stesso. Correva l’anno 2010 e si giocavano i mondiali in quel del Sudafrica. Diego Armando Maradona era, molto più per l’effetto del suo nome che per esperienza, alla testa, nei panni di direttore tecnico, d’una selección albiceleste tra le più forti di tutti i tempi. Oltre a Messi – giovanissimo ma già considerato uno dei migliori giocatori del mondo ed un predestinato erede di Diego Armando – in quella squadra giocavano attaccanti del calibro di Diego Milito, Gonzalo Higuaín, Carlos Tévez, un ancor imberbe ma già letale Kun Aguero ed un vecchio ma ancor implacabile Martín Palermo. Il tutto con una difesa blindata da Martín Demichelis, Gabriel Heinze, Nicolás Burdisso e, last but not least, “the wall” Walter Samuel (riapparso come assistente di Scaloni in questo mondiale del Qatar) e con un centrocampo esaltato dai vellutati piedi di Javier Pastore, Angel Di Maria e Juan Verón.
Gli inizi erano stati, per quell’Argentina, travolgenti. Liquidati senza problemi i tre rivali del gruppo – Nigeria, Corea del Sud e Grecia – l’Argentina s’era sbarazzata facilmente negli ottavi, con un perentorio 3-1, del Messico. Ed era così giunta, da grande favorita, ai quarti, da giocarsi con la Germania. Era costume, in quel Mundial, che le partite venissero precedute, in una testimonianza di fair play, da conferenze stampa congiunte, alle quali potevano partecipare, in rappresentanza di ciascuna squadra, gli allenatori, giocatori particolarmente famosi o, comunque, particolarmente distintisi nel corso del torneo. La Germania mandò, per l’occasione, l’allora giovanissimo Thomas Mueller, sorprendente capocannoniere di quel Mundial. E fu di fronte a lui – ed alle telecamere del mondo intero – che Diego Armando Maradona pronunciò uno dei suoi tanti “togliti dai piedi, cretino”. Anzi, peggio: fu lui, in quel caso, a togliersi spettacolarmente dai piedi con un molto tracotante: “io non condivido la scena con un raccattapalle”. Il giorno dopo – in quella che resta una delle più rovinose debacle della sua storia – l’Argentina venne sconfitta per 4 a 0. Ed a segnare il primo gol fu proprio il “raccattapalle” di cui sopra. Fu quella – se mi si concede la licenza d’una personale memoria – l’unica volta che piansi di gioia per una vittoria dei tedeschi. E non credo d’esser stato l’unico.
Ecco, questo si può augurare a Lionel Messi. Che la storia non si ripeta. E che i suoi – Cristina dixit – molto maradoniani “togliti dai piedi, cretino” e “concha de su madre” restino un tributo, l’ultimo da lui pagato, per conquistare “l’argentinità” che gli veniva negata. All’Argentina Messi ha regalato una coppa del mondo e si è, infine, potuto sedere al fianco di Diego Armando. Adesso prima si alza e se ne va – ritrovando e chiudendo la sua carriera con il sorriso bambino che illuminava i suoi primi anni al Barcellona – meglio sara’ per lui, per l’Argentina e per tutti noi che amiamo il football.