La più affermata poetessa cubana parla degli anni in cui, nel suo “salotto” letterario – isola di libertà e di creatività in un paese affamato – si “mangiava linguaggio”. Di quegli anni, dice, non restano che quadri alle pareti. “Il mio desiderio? Potermene andare di qui per potere, poi, tornare…”
di Gabriella Saba
Finiti i tempi della creatività, e ormai lontani. I pochi talenti che si aggirano per Cuba sarebbero così rari che perfino l’azotea di Reina María Rodríguez è diventata un luogo quasi vuoto di gente e popolato da piccoli quadri alle pareti, qualche amico che va e che viene ma sono pochi, perché la maggior parte ha lasciato l’isola. “Non posso rimpiazzare la genialità né quello che ci fu negli anni Novanta”, spiega la Rodríguez. “Era un’epoca in cui non c’era da mangiare, né si potevano pubblicare libri, però mangiavamo “linguaggio”, ci passavamo i romanzi di mano in mano, discutevamo, facevamo progetti. C’erano qualità e impegno, e desideri, e l’energia di un movimento letterario eterogeneo e vivo che è sparito”.
Reina María non è solo la più affermata poetessa dell’isola, autrice di una dozzina di libri di poesia e di due romanzi, pluripremiata in patria e fuori e neppure è, a rigore, un’intellettuale classica. A metà strada tra la mecenate senza mezzi e la promotrice di svariate attività culturali, è un’anomalissima leggenda vivente, secondo lo scrittore e poeta Antonio José Ponte. Per esempio, da molti anni organizza tertulias nella sua casa all’Avana (salotti letterari in versione locale) e inoltre ha fondato, qualche anno fa, una casa editrice e una rivista insieme a un altro totem della cultura cubana, lo scrittore Antón Arrufat. La rivista si chiama Azoteas ed esce per ora una volta all’anno, la casa editrice è la Torre de Letras ed è piccola e casalinga: pubblica libri rari e bilingui (e inediti a Cuba) in 150 copie che vengono stampati con una macchina Rizzo e cuciti a mano. Tradotti da scrittori, quei libri sono considerati, nell’isola, una cosa molto raffinata, una chicca.
A 54 anni, la poetessa si consola in questo modo del declino di quell’epoca d’oro che ha rappresentato per l’arte, paradossalmente, il Periodo Especial, quando decine di scrittori, poeti, editori e critici si ritrovavano il giovedì sera (e spesso si trattenevano fino al mattino) nella sua azotea: una terrazza al quarto piano di un palazzo scalcinato in calle Animas, nel vecchio e popolare quartiere di Centro Avana, dove i bambini giocano a baseball e gli anziani passano le giornate seduti sui gradini di case ingiallite e opache per il tempo. Dalla terrazza si vede un panorama di edifici antichi e sbrecciati e di tetti rosso scuro, coperti di tegole smosse. “Ci chiamavano “gli Illuminati”, perché la mia casa era dotata di un veccho impianto elettrico che ci permetteva di sfuggire agli apagones (i black out molto frequenti nel Periodo Especial, ndr)”, ricorda. Gli scrittori leggevano ad alta voce le opere che nessuno poteva pubblicargli per mancanza di carta, di corrente per le rotative e di interesse degli editori, e discutevano di letteratura e di arte. Reina offriva loro un té leggero che “preparavamo con quello che c’era” e le tazze giravano tra gli ospiti paludati che dissertavano di Barthes e Derridá e i giovani artisti con i capelli lunghi e lo sguardo oltre il mare.
“Altri tempi”, dice una Rodríguez che si affanna, oggi, a seguire la sua casa editrice e a organizzare festival di poesia, convegni e charlas nella sede di questa, la Torre del Palacio del Segundo Cabo: un edificio barocco nel cuore della città coloniale che lei e i suoi amici hanno addobbato con lampade antiche e trasformato con pochi mezzi in un locale adatto a ricevere artisti e delegazioni straniere. La Torre ospita talleres (laboratori) il martedì e giovedì, e in generale le attività sono vivissime e gli ospiti illustri frequenti: traduttori di Lezama Lima e Borges, e accademici delle università di Berkeley e della Columbia.
E’ In questa fase nostalgica e rivitalizzante della sua vita che l’iperattiva poetessa ha deciso di scrivere il suo primo romanzo, Tre modi di toccare un elefante, uscito nel 2004 in patria (dove ha vinto il Premio Calvino) e pubblicato in Italia dall’editore Manni qualche mese fa: una storia allucinata in cui l’io narrante si triplica e frammenta nei personaggi femminili che lo porteranno alla follia, un musicale gioco di specchi che rimanda alla poesia della Rodríguez, o meglio a una versione in prosa di quella e in sottofondo una domanda leitmotiv: qual è la realtà e dove finisce, qual è il suo senso. “Mi è costata molta fatica mettere insieme questa vicenda in cui i personaggi parlano per tutto il tempo ognuno con se stesso”, racconta oggi e intanto annuncia che il suo secondo romanzo, appena terminato, è un’altra cosa: più semplice e raccontato, perché non c’è nulla che lei detesti di più della poesia messa in prosa, meno che l’idea stessa di abbandonare la poesia. “Le poesie sono la mia terapia, mi curano”, spiega spostando in giro gli occhi scuri, nervosi. “A volte si nascondono e dopo, però, ritornano con molta forza e desiderio, arrivano con il salnitro e il vento, la luce, come succede agli animali in calore. Sono come un innamoramento, mi attaccano e poi, per un bel po’ spariscono”. D’altronde, è proprio l’ossessione per il corpo la dominante delle sue opere o meglio, per dirla con le parole di un critico, “la proiezione del suo corpo privato nello spazio pubblico del libro”. Di certo c’è poca Cuba nei suoi versi (o poco della rappresentazione consueta di essa), e mancano il folclore e il real maravilloso. Semmai, affiorano spesso il senso di perdita e la nostalgia: della giovinezza e degli amici che se ne vanno, lasciando nella vita spazi vuoti.
Anche il nuovo romanzo è una “storia di perdita, utopia e “incontro mancato” tra il mondo promesso e quello reale”. La protagonista vince una borsa di studio a San Pietroburgo, dove lascia la figlia perché non vuole che cresca in povertà a Cuba. Però tornerà in quella città che ama, mentre la ragazza ignara cercherà la madre nell’isola.
Nemica ostinata di qualunque censura, la Rodríguez giudica “inaccettabile che un autore venga attaccato per ragioni extraletterarie”. Da quarant’anni tiene un diario che scrive la mattina, in un caffé vicino al Prado, a partire dalle nove e fino a pranzo. Si è sposata due volte e ha quattro figli, due nipoti, un gatto di quindici anni, Dedalus, e comincia a sentirsi “un po’ vecchia, un po’ stanca”. E però alle cinque è già in piedi, a rispondere alle mail e a scrivere agli amici lontani (benché non abbia internet, ma solo la posta elettronica). Per due volte ha vinto il prestigioso Premio Casa de las Americas con le raccolte Para un cordero blanco e La foto del invernadero. Le piace il giorno, ogni giorno, ma la sua vita nel suo complesso la vede amara. “Avrei desiderato alcuni amori che non ho potuto avere, che molti amici non fossero lontani. Chiamarli normalmente. Potermene andare di qui e poi tornare”.