La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Questi erano – come ben sanno tutti coloro che hanno letto 1984 di George Orwell – i tre principi che, in Oceania, ispiravano l’agire del ministero della Verità. E proprio a questo – a una versione sbrindellata e cialtrona, ma altrettanto sinistra del “Grande fratello” – vien da pensare osservando i primi goffi movimenti dell’Asamblea nacional constituyente (Anc), di recente partorita, via frode, dal regime bolivariano del Venezuela. Non foss’altro che per il fatto che proprio questo, un ministero della Verità (o più esattamente una commissione della Verità), è stato quel che la Anc s’è affrettata a creare. E ancor più per il fatto che tutto, in quest’ultima versione del regime chavista, appare in effetti orwellianamente capovolto. Tutto, tranne quello che del chavismo sembra essere il più duraturo e significativo lascito: la corruzione. Perché proprio questo, per quanto il newspeak si sforzi di rivoltare le parole e i fatti, è quel che palesemente trasuda da ogni gesto del “governo di fatto” che ha preso possesso del Venezuela: la realtà di un paese ridotto in rovina da un regime, non solo autoritario ed inetto, ma intrinsecamente corrotto.
Proviamo, in un breve riassunto delle precedenti puntate, a considerare l’accaduto. Ovvero, quella che – parafrasando una celebre teoria economica di Pietro Sfraffa – possiamo chiamare una “produzione di frodi a mezzo di frodi”. Ai primi di maggio, la nuova Anc era stata infatti convocata in modo fraudolento – saltando l’obbligo d’una consultazione del popolo sovrano – dal presidente Nicolás Maduro. Ed era stata poi fraudolentemente eletta usando un sistema di votazione tanto improvvisato quanto palesemente truffaldino (il governo non poteva che vincere, grazie a una burlesca distribuzione territoriale dei seggi e a una ancor più burlesca assegnazione di seggi “per settori”). Una volta fraudolentemente installata, grazie a risultati elettorali palesemente falsificati, la nuova Anc aveva infine fraudolentemente (repetita iuvant) attribuito a se stessa poteri assoluti.
Primo e molto orwelliano passo del regime (ora non più “ibrido”, ma pienamente dittatoriale): la definizione d’una Verità di Stato. O, più propriamente: l’istituzionalizzazione della menzogna, attraverso la creazione d’una apposita commissione (la summenzionata comisión de la Verdad, tropicale scimmiottatura dei comitati di salute pubblica di buona memoria), incaricata d’individuare e punire i “nemici della patria”, tutti ovviamente già identificati tra i parlamentari dell’opposizione che, presto spogliati dell’immunità, dovranno infine pagare il fio delle proprie colpe. Questo processo di “igiene rivoluzionaria” necessitava tuttavia un ampiamente preannunciato ed immediatamente consumato preludio: il licenziamento della Fiscal general Luisa Ortega Díaz. Vale a dire: del personaggio che, dopo essere stato per lunghi anni garante della subordinazione della giustizia ai voleri del governo, s’era di recente trasformato in un’implacabile critico della deriva autoritaria-dittatoriale del medesimo, incarnata dalla fraudolenta formazione dalla nuova Anc.
E proprio qui comincia la storia – un vero e proprio concentrato di squallore – del “nuovo” Venezuela di cui la Anc rappresenta il “rivoluzionario” motore. Illegalmente licenziata (solo il parlamento ha, secondo la Costituzione, la facoltà di nominare o mettere alla porta il responsabile del ministerio Público), Luisa Ortega è stata immediatamente accusata d’ogni peccato. In particolare d’essere – in combutta con il marito, Germán Ferrer, un parlamentare “traditore” del partito di governo Partito socialista unito del Venezuela (Psuv) – alla testa d’una organizzazione dedita all’estorsione ai danni di imprese affiliate alla compagnia petrolifera di Stato, la Petróleos de Venezuela S. a. (Pdvsa). Accusa alla quale la Ortega – prontamente esiliatasi – ha replicato sostenendo (cosa credibile dato il suo precedente status) di avere le prove di reati di corruzione allegramente consumati da, in pratica, tutti i grandi boiardi del regime.
A cominciare dal presidente Maduro, vero proprietario dell’azienda messicana che vende al Venezuela – ovviamente a prezzi gonfiati – il cibo (le cosiddette Clap) razionato dal governo. E a finire con il capitano Diosdado Cabello – il molto gorillesco “uomo forte” che, in questi giorni, dirige il gran coro della Anc – sui cui conti bancari spagnoli, intestati a stretti parenti, la Oderbrecht (l’impresa costruttrice al centro dello scandalo “lava Jato” brasiliano) avrebbe depositato una più che discreta quantità di milioni di dollari.
Le parole abbondano e le prove ancora latitano, da entrambi i lati della barricata. Ma una verità (e non una verità di Stato) già prepotentemente emerge da questa pantomima. Per dirla con la brutalità di un’antica espressione nostrana: “nel governo bolivariano – quello pre e quello post Anc – il più sano ha la scabbia. Quale che sia il gioco, vince la corruzione. E il tutto in un susseguirsi di grotteschi dettagli. Giorni fa, per dimostrare la corruzione della Ortega, la televisione di Stato ha trasmesso in diretta la perquisizione della sua abitazione alla scoperta di abiti e borsette “firmate”, gli uni e le altre solennemente esibiti di fronte alle telecamere.
Peccato che quegli stessi abiti e quelle stesse borsette fossero state visti (e dal web denunciati) anche nelle mani di Delcy Rodríguez (attuale presidente della Anc) e della “primera combatiente” Cilia Flores (la moglie di Maduro).
Fosse un film, il titolo potrebbe essere: “La rivoluzione veste Prada“. Solo che il Venezuela di oggi non è un film. È una tragedia politica e umana di cui difficile è intravedere la fine.