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J.D. Vance vice-Trump. Galeotto fu il bacio…

Ancor fresche – anzi caldissime o, meglio, ribollenti – le immagini dell’attentato di Butler e del volto rigato di sangue di Donald Trump, s’è aperta ieri a Milwaukee, nel Wisconsin, quella che, pur formalmente e come da tradizione definita “Republican Convention”, più che mai si preannuncia come un’incondizionata celebrazione del culto di Donald Trump. Più specificamente: del culto d’un messia che, date le circostanze, è oggi anche martire-redentore (a paragonare se stesso a Gesú Cristo, già aveva a più riprese provveduto, a ridosso dei suoi numerosi processi penali, il medesimo Trump, ma non divaghiamo).

Primo atto: la nomina – dal medesimo messia-martire annunciata con un post su TruthSocial, la sua rete sociale – di quello che sarà, anzi, di fatto ormai è, il “running mate”, il candidato a vicepresidente che accompagnerà Trump nella corsa alla Casa Bianca. La scelta è infine caduta su James David Vance, attualmente senatore dell’Ohio, giovane di bell’aspetto (ha 39 anni) e– cosa piuttosto rara nelle file del trumpismo – dalle impeccabili credenziali d’intellettuale. Impeccabili, ovviamente, prima suo incontro con Donald Trump, evento che, come non di rado capita alle storie d’amore, è stato agli inizi difficile, contrastato ed ambiguo, ma che – come testimoniato dalla scelta di ieri – s’è infine concluso in modo armonioso. O, più con più precisione: che è stato, due anni fa, armoniosamente suggellato da un bacio che, per quanto soltanto metaforico, ancor oggi magistralmente illustra, non solo la sostanza etico-politica e, per dirla con Goethe, le vere affinità elettive della relazione tra Trump ed il suo attuale vice, ma anche l’ormai unica, autentica ed irreversibile natura di quello che fu – vale la pena ricordarlo – il partito di Abraham Lincoln.

“J.D. Vance is kissing my ass, he wants my endorsement “

Quello che J.D. Vance ha a suo tempo metaforicamente baciato è, infatti, il “culo” di Donald Trump. Come già mi capitò all’epoca, ancor oggi uso questa parola con grande riluttanza, dopo aver, di nuovo, esplorato ogni eufemistica variante: chiappe, natiche, sedere, didietro, fondoschiena…mi sono di nuovo spinto, come mi spinsi allora, fino al più complesso e poetico “là dove non batte il sole”, passando per tutti i più teneri diminutivi (sederino, popò) appresi nella prima infanzia. Ma a nulla è servito. Perché “culo” è, inevitabilmente, l’unico termine che davvero corrisponde, in senso letterale e filosofico, all’inglese “ass”. Perché proprio questo – “J.D. Vance is kissing my ass, he wants my endorsement “, J.D. Vance mi sta baciando il culo, vuole il mio appoggio – è quel che a suo tempo a tal proposito disse Donald Trump. E, infine, perché proprio questo fu quello che, a tal proposito, con un compiaciuto sorriso, tumide labbra ed un accenno d’inchino J.D. Vance ascoltò, il 20 settembre del 2022, durante il comizio che, in vista delle elezioni di metà mandato, l’ex presidente Donald Trump tenne a Youngstown, in Ohio, giusto per ufficialmente sancire – con la benedizione del gran capo – la vittoria di Vance nelle primarie repubblicane per la corsa ad un vacante seggio di senatore.

Un passo indietro, per meglio comprendere. Chi è J.D. Vance? E come giunto al bacio galeotto che gli ha regalato prima un seggio al Senato ed ora il posto di Vice-Trump? Per rispondere, meglio è partire da quello che il fresco running mate non è. Vance non è, in alcun modo un trumpiano “premarcia”. E davvero poche sono le caratteristiche che, in termini storici e personali, il nuovo vice-Trump comparte con il, chiamiamolo così, trumpiano classico. J.D. Vance è, infatti, l’autore d’un eccellente libro di memorie familiari – “Hillbilly Elegy, a Memoir of a Family and Culture Crisis”, pubblicato nel 2015 e poi, nel 2020, tradotto da Ron Howard in un film che, grazie soprattutto ad una straordinaria interpretazione di Glenn Close, ha tre anni fa conquistato un buon numero di nomination all’Oscar. Era, quel libro – ed ovviamente ancora è – il molto vivido e a tratti poetico ritratto d’una America periferica, dimenticata e disperata, travolta dalle implacabili logiche economiche d’un globalismo senza controllo. Per l’appunto, l’America profonda degli Hillbilly, dall’autore con didascalica chiarezza ed in termini nient’affatto trumpiani, sciorinata di fronte ad “élite liberal” sorde e cieche alle ragioni dolorosamente umane dell’allora ancora incompiuta ed incomprensibile ascesa d’un folclorico ed inarticolato demagogo dall’impresentabile capigliatura e dall’ancor più impresentabile curriculum politico.

Trump? Un idiota e un potenziale “American Hitler”

Ed era stato proprio così, come un perfetto idiota – “my God, what an idiot” – che nel febbraio del 2016 J.D. Vance aveva descritto Donald Trump in un’intervista televisiva con il giornalista Charlie Rose, conduttore della trasmissione “60 Minutes”. Un perfetto idiota che, in altre occasioni, Vance non avrebbe poi esitato a presentare come un potenziale “American Hitler” e come una sorta di letale droga socio-politica. Letale, sosteneva Vance, in tutti sensi. Per la democrazia, per la dignità della Nazione, ed anche per il futuro di quell’America dimenticata che, disperata, stava cadendo tra le braccia di quell’improbabile “uomo della Provvidenza”. “Oggi – aveva detto J. D. Vance a Charlie Rose – i più entusiasti seguaci di Trump, sono quelli che, per sua natura, Trump più disprezza”.

Repubblicano e conservatore, nato e cresciuto in quella realtà, ma capace di uscirne fino a frequentare le più prestigiose università Usa, J.D. Vance era, a quei tempi, l’antitesi del trumpismo, un dichiarato “never-trumper”, come si definivano, allora, i repubblicani che con orrore guardavano l’ascesa, nella casa di Lincoln, di quel nuovo astro politico. E, sempre in quell’anno, Vance aveva anche scritto un lungo saggio per la rivista Atlantic che, annunciato da un più che significativo e quasi marxiano titolo – “Opioid for the Masses” oppio per le masse – descriveva la trionfale marcia di quel tycoon immobiliare pluri-bancarottiere come una sorta di prolungamento politico della tragica epidemia d’eroina che, nella sua cittadina natale, nel più devastato cuore dell’Appalachia, in  Kentucky, come una pestilenza aveva in pochi anni decimato una popolazione d’un tempo orgogliosi e laboriosi “blue collars”.

Una droga chiamata Donald Trump

“Durante questa stagione elettorale – scriveva Vance riferendosi alla campagna presidenziale del 2016 – sembra che molti americani si siano rivolti ad un nuovo e mortale analgesico. Anche questo, promette una rapida fuga dalle preoccupazioni della vita, una facile soluzione ai crescenti problemi sociali degli Stati Uniti, comunità e cultura…È una droga che entra nella mente, non attraverso i polmoni o le vene, ma attraverso gli occhi e le orecchie, E il suo nome è Donald Trump”.

Soltanto un ampio saggio biografico – scritto con l’aiuto di un buon psicoanalista specializzato nel rapporto tra psiche e potere – potrebbe efficacemente raccontare come e perché quel J.D. Vance sia, in un quadriennio, diventato il J.D. del comizio di Youngstown e, quindi, il running mate dell’ “American Hitler”, il più visibile ed entusiasta “pusher” di quel letale “oppio per le masse”.  Interrogato in proposito, Vance si è sempre rifugiato, con molto affettata indignazione, dietro generiche considerazioni in merito alla “arroganza delle elite”, o alle “menzogne dei media”. Niente di serio. Niente di credibile.

Quel che conta è però questo. Entrato in politica, J.D. Vance ha, nel 2022, deciso di partecipare alle primarie repubblicane dell’Ohio. E, in grave ritardo nei sondaggi, ha quindi fatto quel che ogni repubblicano desideroso non solo di vincere, ma anche solo di restare nel partito deve necessariamente fare: ha a lungo corteggiato (ed infine ottenuto, si dice grazie alla mediazione del figlio maggiore di Trump, Donald jr.) l’endorsment del “perfetto idiota” da lui tanto vividamente descritto sei anni prima.

…e endorsment fu. Il prezzo? Un bacio e la dignità

Una scelta elettoralmente vincente che, tuttavia, in termini di personale dignità, ha reclamato un prezzo molto alto. Il prezzo del bacio che, scoccato due anni fa di fronte al pubblico plaudente di Youngstown, è immancabilmente diventato, oltre il perdono del “grande ed amato leader”, una sorta di cerimonia d’iniziazione, un giuramento d’eterna fedeltà. È vero – disse in quell’occasione Donald Trump con molto paterne e sarcastiche intonazioni – ci fu un tempo in cui J.D. Vance “andava dicendo su di me cose molto brutte”. Ma poi ha imparato a conoscerlo e – come poteva essere altrimenti – ha imparato anche  ad amarlo. Ed amandolo lo ha baciato, anzi, continua a baciarlo. Ultimo e decisivo – decisivo ai fini della sua nomina a vice – quello che Vance ha scoccato solo qualche settimana fa, nel pieno del processo di selezione, solennemente affermando che, fosse stato lui al posto dell’allora vicepresidente, Mike Pence – sì, quello che i “patrioti” da Trump convocati il 6 gennaio 2021 minacciarono d’impiccare innalzando una simulazione di forca davanti a Capito Hill – si sarebbe rifiutato di sancire, come previsto dalla Costituzione, la vittoria di Joe Biden.

È stato grazie questo ennesimo “apostrofo rosa “– chiamiamolo così citando il Cyrano di Edmond Rostand, anche se più giusto sarebbe definirlo “arancione”, considerato il colore del pesante make-up sotto il quale Trump s’illude di celare le ingiurie del tempo – che J.D. Vance ha infine potuto sedersi alla destra del capo supremo.

Qualunque fosse il suo colore, il bacio originario – quello da Trump due anni fa evocato a Yougstown – era comunque (e comunque resta) anche, anzi, soprattutto, un inequivocabile messaggio per l’intero Partito Repubblicano. J.D. mi ha baciato dove sapete, aveva lasciato allora intendere Trump ed oggi ha confermato, perché questo è il medievale ed incondizionato rito di sottomissione, il prezzo dell’amore e dei favori del capo supremo.  Il senso della nomina a vice-Trump di James David Vance è in fondo tutto qui. E tutto qui è, anche, il senso della Convention Repubblicana che si è aperta ieri a Milwaukee.

Più a destra dell’Uomo della Provvidenza

Gli analisti politici collocano oggi Vance “alla destra” di Donald Trump. Non ovviamente perché rappresenti alcuna tangibile alternativa politica, ma perché rispetto a Trump – che, nel suo patologico narcisismo non conosce ideologia di sorta, ovvero, non vede né considera nulla al di là di sé stesso – più chiaramente e radicalmente riflette un progetto di società post-democratica, autoritaria, nazionalista e cristiana. Un progetto (avremo modo di parlarne più in dettaglio) che, elaborato dalla Heritage Foundation – il più reazionario dei think-tank conservatori – in qualche modo delinea il trumpismo oltre Trump. Il bacio oltre il bacio. Il culto oltre il culto.

Che cosa accadrà in questa Convention? E, soprattutto: quale America uscirà dal voto di novembre? Tutti libri di Storia da sempre rammentano agli alunni delle scuole di base americane quel che Benjamin Franklin rispondeva a quanti gli chiedessero, all’epoca, che tipo di governo intendessero stabilire i rivoluzionari del 1776. “A republic – amava ripetere quello che degli Stati Uniti è considerato uno dei padri fondatori – if we can keep it”. Una repubblica se saremo capaci di conservarla. Un “se”, questo, più che mai attuale mentre, all’ombra dell’attentato di Butler e nel segno di un leader che, in chiave grottesca, richiama i poteri di un monarca sancito per diritto divino, si apre la Convention repubblicana di Milwaukee.

Son tempi duri questi – duri e pericolosi – per la più antica democrazia del mondo.

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