12 luglio 2010
di Massimo Cavallini
Ingrid Betancourt si è suicidata. Lo ha fatto senza preavviso, con brutale spettacolarità. E del tutto misteriosi – per usare un’abusatissima formula della vecchia cronaca nera – restano i motivi del folle gesto. No, quella che fino ieri (o, quantomeno, fino ieri l’altro) era stata, in campo internazionale, il più riconoscibile (ed a suo modo “eroico”) emblema dell’intrinseca barbarie del sequestro di persona, non s’è sparata un colpo alla tempia, né si è tagliata le vene, né ha ingerito quantità industriali di barbiturici. Ed è anzi – almeno da un punto di vista meramente biologico – viva al punto che, in queste ore, va affannosamente cercando di spiegare al mondo le ragioni che l’hanno spinta ad ammazzarsi usando un’arma tanto bizzarra, quanto micidiale: una richiesta di risarcimento danni. Perché Ingrid ha deciso di uccidersi? E perché ha scelto, per distruggere se stessa e la propria immagine, un metodo tanto inusuale e ferocemente meschino, quasi volesse garantire non solo la sua morte politica, ma – in una sorta di “cupio dissolvi” della memoria – anche l’annullamento d’ogni positivo ricordo della sua esistenza?
Proviamo a riassumere. Come tutti sanno, Ingrid Betancourt è l’ex candidata presidenziale franco-colombiana che, sequestrata dalla guerriglia delle Farc il 23 febbraio del 2002, per quasi sette anni – cioè fino a quando, il 2 luglio del 2008, venne liberata con una spettacolare operazione militare – ha simboleggiato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale (più, forse, che di quella colombiana) molte cose : il dramma di tutti coloro (e sono molti in tutto il mondo) che vengono violentemente privati della propria libertà al fine d’ottenere un riscatto (politico, in denaro o, come nel caso delle Farc, entrambe le cose assieme), e gli orrori di una guerra, quella colombiana, che consumate tutte le sue originarie ragioni ideali, continua sospinta da sordidi interessi criminali che, non di rado, si fanno Stato. In Colombia c’erano (ed ancora ci sono) molti sequestrati. Gran parte nelle mani delle Farc, che proprio a colpi di sequestro, hanno, negli ultimi 15 anni, rovinato per sempre la propria reputazione politica). Altri nelle mani di organizzazioni puramente criminali. Ed Ingrid aveva finito per rappresentarli tutti. La sua resistenza, nel profondo della selva, alle pene d’uno stato di quasi animalesca cattività, era stata la resistenza di tutti. E la sua liberazione, giunta al termine d’una campagna che aveva visto impegnate– indimenticabile la mobilitazione “mondiale” del febbraio del 2008 – masse imponenti, capi di Stato e celebrità d’ogni tipo, aveva finito per diventare (quantomeno nell’immaginario collettivo) una speranza per tutti. O, forse, soltanto un colossale fenomeno mediatico, travestito da speranza. In ogni caso: una speranza.
Nei due anni trascorsi da quella liberazione, molta acqua è ovviamente passata sotto i ponti. E non sempre s’è trattato, per la Betancourt, d’acqua immacolatamente tersa. Le testimonianze di alcuni suoi compagni di prigionia – quella della sua ex segretaria, Clara Rojas, in particolare – avevano non poco sgualcito il “santino” dipinto nel corso dei lunghi anni di prigionia. E lei stessa , nei mesi successivi alla “Operación Jaque”, aveva finito – conferenza dopo conferenza, intervista dopo intervista – per appannare non poco la sua immagine di novella Giovanna d’Arco. Troppo personalismo, troppa superficialità nell’analisi del fenomeno della violenza in Colombia, per sostenere la convinzione, diffusasi dopo la sua liberazione, che Ingrid fosse tornata dai quei sette anni di prigionia, così come c’era entrata. Ovvero: da candidata presidenziale o, comunque, da personaggio capace di portare qualcosa di nuovo – forse persino un vero messaggio di pace – in uno scenario politico dominato (spesso del tutto strumentalmente) dalle esigenze della guerra alle Farc. Nel febbraio del 2002, prima del sequestro, la stella politica della Betancourt appariva in franco declino (i sondaggi in vista delle successive presidenziali, poi vinte da Álvaro Uribe, non le concedevano che il 2 per cento dei voti). Ma allora non era, Ingrid, che una candidata, una donna eloquente e coraggiosa, forse un po’ supponente e, certo, troppo “aliena” alla realtà del paese (non pochi la consideravano molto più francese che colombiana) per sperare d’arrivare anche solo nei pressi di Palazzo Nariño. Ora, dopo i sette anni di sequestro, era, invece, qualcosa di diverso e di più luminoso: un’icona, una bandiera. E qualcuno aveva pensato che proprio a questa bandiera toccasse, in qualche modo, riprendere il discorso tanto brutalmente interrottosi nei giorni del suo rapimento. Quale discorso? Quello della pace, bruciatosi a fuoco lento nei quasi tre anni di trattative (mai usciti dalle fasi preliminari) di San Vicente del Caguán. Molti ricorderanno: era stato proprio nel giorno della fine di quel processo che Ingrid – molto imprudentemente addentratasi in un’area sotto il controllo della guerriglia – era caduta nelle mani delle Farc…
Non fu così. Quella Ingrid, in effetti, già da tempo non esisteva più. E ben pochi, ormai, s’aspettavano un suo ritorno da protagonista di prima linea nella vita politica colombiana. In assoluto nessuno, tuttavia, aveva immaginato di trovarsi all’improvviso di fronte al suo cadavere politico. E, soprattutto, di fronte ad un corpo che lei stessa aveva, in una sorta di raptus, provveduto a colpire a morte. Arma del delitto, come si è detto: una richiesta di “indennizzo” per 6,8 milioni di dollari da lei presentata allo Stato colombiano per i danni materiali e psichici sofferti durante un sequestro che quel medesimo Stato aveva, secondo la quereal, il dovere legale e morale di evitare.
È stato – più che prevedibilmente – un massacro, una lapidazione senza scampo. Prima di quella richiesta, Ingrid Betancourt non era più, forse, il monumento alla libertà uscito in tuta mimetica dalla jungla all’alba del 2 luglio del 2008. Ma era pur sempre una forza, un simbolo nel quale, ancora, una significativa parte della Colombia si riconosceva. Di lei, tra l’altro, si parlava come d’una possibile ambasciatrice a Parigi per il nuovo governo del neo-eletto presidente Santos (il primo dei suoi “liberatori”, visto che, all’epoca, era ministro della Difesa). Ora Ingrid è soltanto un paria, un concentrato di solitudine, un repellente riflesso d’ingordigia e d’ingratitudine dal quale tutti fanno a gara ad allontanarsi disgustati. E la vera domanda è: perché l’ha fatto? Come ha potuto non prevedere quello che non era ragionevolmente possibile non prevedere? Chi, che cosa può avere indotto in tentazione una donna che, di certo, non ha alcun bisogno di danaro? Dopo tre giorni di pietrate giunte da ogni lato, Ingrid – che solo una settimana prima aveva partecipato alla commemorazione della sua liberazione tornando ad esaltare la “valentía” di Uribe e delle forze armate – ha con inevitabile goffaggine cercato la via della resurrezione sostenendo che il suo, per quanto suffragato da alcuni chili di carta bollata e dall’avvallo d’una nutrita e molto agguerrita batteria d’avvocati di grido, non voleva essere, in fondo, che un gesto “simbolico”. Ma per lei non c’è stata – né ci sarà – alcuna Pasqua.
Ingrid Betancourt è – politicamente parlando – morta. Morta e – come un tempo si usava con i suicidi – sepolta in terra sconsacrata. Resta, invece, la tragedia della Colombia di cui Ingrid avrebbe potuto essere il simbolo, ma non è stata. Ed è possibile che proprio questo sia stato l’errore: considerarla un simbolo, cercare in lei una “eroina” che non è mai esistita. E di cui né la pace né la Colombia avevano, in fondo, davvero bisogno. Chissà: forse questo suicidio non è stato, a conti fatti, che una forma di eutanasia.