A poco più d’un anno dall’inizio del suo mandato – aperto da un discorso inaugurale dai più considerato il peggiore della storia dei discorsi inaugurali – Donald J. Trump, da tutti sondaggi indicato come di gran lunga il più impopolare presidente della storia degli Stati Uniti d’America, ha come da tradizione tenuto, di fronte al Congresso in seduta plenaria, il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione. E si è prevedibilmente trattato del peggior SOTU (State of the Union Speech) mai risuonato sotto le austere volte di Capitol Hill.
Un disastro? Nient’affatto. Perché quel discorso – il peggiore di sempre – è stato probabilmente il migliore mai tenuto da Donald J. Trump da quando, nel lontano 2011, entrò in politica annunciando sconvolgenti rivelazioni sui veri natali “kenioti” dell’allora presidente Barack Obama. Anzi: s’è trattato d’un discorso straordinariamente brillante, se misurato con i nuovi standard che la presenza di Trump ha, da più di un anno a questa parte (diciamo dall’inizio della sua campagna elettorale agli albori del 2016) imposto alla politica USA. Il presidente ha parlato – come del resto tutti i suoi predecessori da quando la tecnologia lo consente – leggendo da un teleprompter. Lo ha fatto senza alcun improvvisato “side show”, ovvero, senza alcuna delle infantili performance, degli strafalcioni e delle volgarità che caratterizzano la sua ars retorica quando parla a braccia, o quando “twitta” in solitudine nel cuore della notte. E lo fatto, tutto sommato, molto meglio del solito. Vale a dire: dando, almeno a tratti, l’impressione di capire quel che leggeva.
Molto si è già scritto, infatti, sullo stile oratorio di Donald Trump quando, come si dice, “he stays on script”, rispetta il copione che altri hanno scritto per lui. In un esilarante articolo pubblicato martedì sul New York Times, Antony Atamaniuk – il comico che meglio conosce Donald Trump visto che lo imita tutte le sere nel “President Show” del canale “Comedy Central” – ha paragonato lo stile trumpiano innanzi al teleprompter, a quello d’una nonnetta impegnata nella lettura di “Goodnight Moon”, la super-classica “bed time story” (una di quelle favole che servono a far addormentare i bambini) scritta più o meno alla metà del secolo scorso da Margaret Wise Brown. A chi scrive, invece, la cadenza del neo-presidente molto meglio rammenta il se stesso che, in prima elementare, recitava davanti alla maestra la “cavallina storna” di Giovanni Pascoli.
Martedì notte, Donald Trump ha letto e – stando ai nuovi standard – l’ha fatto con passabile fluidità, affidando la rivelazione della più intima e veritiera parte di se medesimo alla sola gestualità. Vale a dire: applaudendosi in continuazione (cosa mai vista prima), invitando i congressisti a fare altrettanto (più o meno come i giocatori usano fare con la curva), e sistematicamente esponendosi di profilo, con molto mussoliniana verve, alle ovazioni dei deputati e senatori repubblicani (i “democrats” hanno per lo più ascoltato seduti in silenzio, con qualche occasionale “boo”, le parole del presidente”).
E i contenuti? Come da sempre d’uso, Donald Trump ha speso una rilevante parte del tempo, presentando alcuni degli ospiti d’onore, perlopiù gente comune (soldati, poliziotti, pompieri) protagonisti di eroiche gesta che testimoniano la vera tempra della Nazione. Il tutto con un sovrappiù di generosità – ragione per la quale il suo discorso è stato, con la sua ore e venti di durata, uno dei più lunghi nella storia del SOTU – e con l’ovvio e piuttosto sordido intento di sostenere le sue tesi “anti-immigrazione”. Non per nulla il vero clou di questa lunga rassegna d’eroi è stata la presentazione d’una famiglia la cui figlia era stata brutalmente assassinata da membri della gang MS13, attiva negli USA – ha sottolineato Trump, ovviamente mentendo – grazie ad una politica immigratoria troppo permissiva.
Per il resto, Trump ha fatto quel che ci si attendeva facesse. Ha esaltato se stesso e la propria amministrazione attribuendosi – con la sfacciataggine dei venditori di auto usate – i meriti d’una economia che, in realtà, deve il suo più che confortevole stato di salute, o al normale ciclo economico, o alle politiche con le quali, lungo due mandati, il molto (da Trump) odiato Obama ha portato il paese fuori dalla catastrofe finanziaria del 2008. Ha esaltato gli effetti – ancora non seriamente misurabili in bene o in male – della sua riforma fiscale (un vero e proprio regalo senza contropartite a se stesso ed al resto della “corporate America”). Ed ha lanciato in direzione dei democratici una duplice (ed allo stato irricevibile) esca “bipartisan”. Da un lato una proposta di compromesso in materia di immigrazione (in estrema sintesi: chiusura delle frontiere contro la concessione della cittadinanza ai cosiddetti “dreamers”, gli illegali giunti negli Usa da bambini ed ora dallo stesso Trump minacciati di deportazione). E, dall’altro, un piano di investimenti per il rinnovo delle infrastrutture (strade, ponti, autostrade, reti elettriche, fognature) fin qui basato sul nulla di cifre inventate (1.500 miliardi di dollari) o su molto sospetti programmi di privatizzazione (“a scam”, una truffa l’ha definita ieri sul New York Times il premio Nobel per l’economia Paul Krugman).
Il risultato finale? Una prevedibile conferma, dopo un anno di presidenza Trump, dello stato di crisi profonda in cui versa la democrazia americana, finita – per molte e complesse ragioni – nelle mani d’un ciarlatano che tale è considerato da quasi il 60 per cento della popolazione. “This is our new american moment”, questo è il nostro nuovo momento americano”, ha detto il presidente Usa leggendo dal teleprompter quello che voleva essere un invito al più sfrenato ottimismo a fronte dell’apertura, grazie a lui, d’una nuova e luminosa era di prosperità e di vittorie. Qualcosa di simile a “sol dell’avvenire” o, più propriamente, considerate le assonanze mussoliniane dell’oratore, alla “ora segnata dal destino” di buona memoria.
“The State of the Union is strong”, lo stato dell’Unione è forte, ha detto raggiante il presidente, aprendo il suo discorso. Solo qualche giorno fa, Politifact, un organizzazione dedicata alla verifica della veridicità delle parole dei politici d’ogni colore, aveva calcolato il numero delle menzogne profferite da Trump nei suoi primi 12 mesi di mandato. Erano 2.127. Con questa fanno 2.128.