L’embargo vive. L’embargo è morto. O meglio: è un morto vivente, uno di quegli zombi che, nei film dell’orrore, si trascinano per le strade azzannando passanti. L’embargo a tutti gli effetti vive perché nessuno ha ancora ucciso – né presumibilmente ucciderà per molti mesi a venire – la legge che lo sancisce. E l’embargo è a tutti gli effetti morto perché Barack Obama – per la prima volta ammettendone in pubblico, dopo 55 anni, l’irreversibile inutilità – ne ha di fatto, mercoledì scorso, ufficialmente decretato il decesso. “…una politica priva di flessibilità, le cui origini radicano in eventi accaduti prima che molti di noi fossero nati…” Così l’ha definito Obama. E chiarissimo è stato il susseguente epitaffio: con lo scambio tra Alan Gross ed i tre “eroi” dello spionaggio cubano, ha detto il presidente Usa, la logica del confronto finisce e si apre una nuova stagione di negoziato e di dialogo. Ei fu, insomma. Senza alcuna necessità di passare ai posteri il fardello dell’ardua sentenza. Eppure, il morto continua a camminare…
Come si spiega questa contraddizione? Quando questo zombie – l’embargo, vero perno della politica americana verso la Cuba castrista – ha davvero cominciato a morire? Che cosa lo ha ucciso? E che cosa lo tiene, nonostante tutto, ancora in vita? Un luogo comune vuole che sia stata la Guerra Fredda a partorirlo e che sia stata la Guerra fredda, la sua fine, a decretarne poi il lento tramonto. Ma si tratta d’una tesi, se non del tutto inesatta, quantomeno imprecisa. L’embargo Usa, la sua “filosofia”, nacque nel giugno del ’59, quando, varata dal governo rivoluzionario la prima riforma agraria, il presidente Eisenhower minacciò (e meno d’un anno dopo attuò) il taglio della quota di zucchero destinata ad una Cuba ancora ben lontana dall’“orbita sovietica”. Ed altro non fu, in quel suo originale apparire, che un purissimo, inequivocabile gesto di prepotenza imperiale.
Fu invece proprio la logica della Guerra Fredda – uscita, alla fine del ’62, dallo spavento nucleare della crisi dei missili – a creare i primi dubbi, dal lato statunitense, sulla saggezza dell’embargo. Pressoché tutte le ricerche storiche ci raccontano come il presidente John Kennedy già avesse cominciato – nel pieno della famigerata operazione ”Mongoose”, paradossalmente, mentre agenti della Cia tentavano invano di assassinare Castro con sigari e lozioni per barba avvelenate – a sondare il terreno d’una possibile normalizzazione dei rapporti con Cuba. E certo è che fu proprio nel pieno della Guerra Fredda che si materializzarono i due più seri tentativi di superare l’embargo. Il primo lo innescò, nel 1975, quello che della Guerra Fredda fu forse il più serio e per molti aspetti feroce interprete: Henry Kissinger, allora segretario di Stato di Gerald Ford. Il secondo fu quello di Jimmy Carter.
Il primo tentativo fallì a causa dell’intervento militare cubano in Angola. Ed un libro recentemente uscito, “Back Channel to Cuba” di William LeoGrande e Peter Kornbluh, ben racconta tanto la fiducia che Kissinger aveva riposto in un buon esito del negoziato, quanto la sua furia per il “tradimento” di Castro. Un “tradimento” che lo spinse a riprendere per un istante in considerazione l’ipotesi d’un attacco militare contro Cuba, dagli Usa definitivamente archiviata dopo la crisi dei missili. Il secondo tentativo – che, pure, portò ad una parziale riapertura delle relazioni diplomatiche – s’infranse invece, con un gran fragor d’ossa rotte, contro il muro della cosiddetta “crisi del Mariel”: il biblico esodo, tra l’aprile e l’ottobre del 1980, di quasi 130mila cubani verso la Florida. Un altro schiaffo di Castro a chi gli tendeva la mano. Ed anche uno dei più turpi momenti della storia della Cuba castrista. Tanto il tentativo di Kissinger-Ford, quanto il tentativo di Carter furono in ogni caso, nonostante le molte differenze di “stile politico” e le personali convinzioni dei due protagonisti, assolutamente funzionali alla Guerra Fredda. O meglio: furono una continuazione della logica politica che, non molti anni prima, proprio nel nome della Guerra Fredda – o del ben più antico “divide et impera” – aveva spinto Richard Nixon alla sua famosa “apertura cinese”.
Questo ci racconta la Storia. E ci racconta anche come la Guerra Fredda, presunta causa dell’embargo, fosse in realtà finita da oltre un lustro, quando l’embargo si “eternizzó” Ovvero: quando, da semplice decreto presidenziale, divenne la legge Helms-Burton, cancellabile solo con un voto del Congresso. Perché è accaduto? La ragione immediata fu, notoriamente, l’abbattimento da parte dei MIG cubani di due piccoli arei civili nei cieli tra la Florida e Cuba (4 morti). Un gesto gratuito ed infame le cui vere motivazioni non è ancor oggi facile analizzare. Due però sono, al di là della contingenza, gli elementi che hanno dato forza all’embargo dopo la caduta del Muro di Berlino. Il primo e più ovvio: esaurita la pressione della Guerra Fredda, Cuba ha cessato d’essere, per gli Usa, un problema di politica internazionale, diventando, di fatto, un semplice oggetto di “baratto elettorale” con le comunità cubane della Florida e del New Jersey. Il secondo: l’embargo ha, in mezzo secolo, finito per rappresentare nell’immaginario collettivo cubano molte cose tra loro diverse: resistenza ed orgoglio, un nuovo senso di identità nazionale, da un lato. E, dall’altro (quello oscuro) un “bisogno”. O meglio: un alibi ed una giustificazione, il Golia senza il quale impossibile sarebbe reiterare il mito del Davide su cui la rivoluzione ha – con molte ragioni e insieme, come accade ad ogni mito, con grande ipocrisia – fondato se stessa.
Se lo zombie continua a camminare, lo si deve alla perversa combinazione di questi due elementi. Stanno davvero per cambiare le cose? Difficile dirlo. Di certo, mercoledì scorso, Obama e Raúl Castro hanno liberato la strada da molti detriti del passato. Ma basterà?