20 settembre 2007
di Massimo Cavallini
Hugo Rafael Chávez Frías considera se stesso – oltre che un bolivariano e, ovviamente, il più entusiasta dei chavisti – un fervente e rigoroso marxista. Ma la sua passione per il pensiero e per le opere del padre del socialismo scientifico non gli ha impedito di scegliere, per il referendum che doveva sancire il principio della sua perenne rieleggibilità, una data a suo modo imbarazzante: il 2 dicembre. La stessa in cui, nel lontano 1851, Luigi Bonaparte assunse poteri autocratici in Francia, preludio della sua incoronazione con il titolo di Napoleone III esattamente un anno più tardi. Ed anche la stessa che, nel 1852, ispirò uno dei più noti saggi di Marx, quel “Il 18 brumaio di Luigi Buonaparte” che regalò al mondo, non solo un’analisi storico-politica di straordinaria profondità e bellezza, ma anche una delle più brillanti (e, proprio per questo, spesso abusata) citazioni marxiane. “Hegel sostiene – così si apre il saggio – che tutti i grandi eventi della storia del mondo si ripetono, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in forma di tragedia, la seconda in forma di farsa. Caussidiere per Danton, Louis Blanc per Robespierre, la Montagna del 1848-1851, per la Montagna del 1793-1795, il nipote per lo zio…”.
Lo zio di Luigi Bonaparte era, nel caso specifico, quel Napoleone Bonaparte che, con un gesto destinato a cambiare il corso della storia universale, il 9 novembre del 1799 (il 18 brumaio secondo il calendario rivoluzionario) s’era autoincoronato imperatore di Francia. E forse – alla ricerca del senso più profondo degli inattesi risultati del referendum venezuelano – proprio da qui vale la pena di partire: chiedendosi di chi, oggi, sia nipote Hugo Rafael Chávez Frías. E quale farsesca replica della storia sia stata evitata – o quantomeno rallentata – dalla sorprendente sconfitta da lui subita nelle urne.
I primi nomi che vengono alla mente sono, com’è ovvio, quello del “Libertador” Simón Bolivar – da cui prende nome la rivoluzione lanciata da Chávez – e quello di Fidel Castro, leader che (appassionatamente contraccambiato) Chávez non soltanto quotidianamente venera, ma anche non esita a scimmiottare (evidente, nella mistica chavista, è il tentativo di equiparare il golpe fallito del 1992 con l’assalto al cuartel Moncada). Né mancano, nell’elenco dei possibili “zii”, nomi assai meno lusinghieri (e proprio per questo più spesso citati da quanti dell’attuale presidente criticano le attitudini autoritarie): da quello, immancabile, di Benito Mussolini, la cui pagliaccesca retorica non di rado riecheggia nelle parole e nei gesti di Hugo Rafael, a quelli di José Vicente Gómez (“El Benemérito”) e Marcos Pérez Jiménez, i due ultimi dittatori militari della storia venezuelana. O, ancora, quello di Cipriano Castro, un pittoresco presidente (1899-1908) dalla pessima fama che, in questi anni, Chávez ha, per così dire (e non senza qualche ragione) riscattato dall’immondezzaio della Storia; perché, a suo tempo, aveva, lui pure, ipotizzato un ritorno alla “Grande Colombia” di bolivariana memoria, nonché cercato di varare una costituzione che ingigantiva i poteri della presidenza. Ma probabilmente sbagliato sarebbe limitare ad un solo “zio” (o ad una manciata di zii) il senso dell’eredità di cui il presidente bolivariano è più o meno farsesco portatore. Perché ciò che in Chávez (e nella sua riforma ora nel freezer) a conti fatti si riflette è in realtà un retaggio – quello del caudillismo populista latinoamericano – ben più variegato e complesso, pesantemente alterato dalla realtà d’una “bonanza petrolifera” senza precedenti e dall’inedito tentativo di trasformare in una nuova forma di socialismo (ed un socialismo con dichiarate ambizioni continentali) il grande flusso di ricchezza da questa bonanza generato.
La riforma che l’elettorato Venezuelano ha ieri bocciato era fondamentalmente questo: un tentativo furbesco e, al tempo stesso, smisuratamente ambizioso di sanzionare costituzionalmente, tanto questo socialismo (il famoso “socialismo del XXI secolo”), quanto, ovviamente, la sua indispensabile premessa storico-politica: il potere, non solo di fatto illimitato, ma illuminato da un sempre più pronunciato culto della personalità, del suo fondatore. Furbesco perché tale è stata la decisione di far passare – con la complicità di un’Assemblea Nazionale priva di opposizione – per una semplice “riforma” della Costituzione del 1999 (un parto, anch’essa, del medesimo Chávez) quella che era, in realtà, una profonda trasformazione della sua natura (tanto profonda da richiedere, come molti giuristi hanno reclamato, un ritorno al “potere costituente originale”. Ovvero: alla convocazione di elezioni generali per la formazione d’una nuova Assemblea Costituente). E perché furbesco è stato anche (forse ancor più) il tentativo d’accoppiare la proposta di “rielezione infinita” (non particolarmente popolare) con alcuni “zuccherini” (la giornata lavorativa di sei ore e la pensione per i lavoratori informali) che poco o nulla hanno a che vedere con le leggi costituzionali (e che, anzi, Chávez avrebbe potuto in tutta tranquillità far varare, come normali leggi, dal parlamento che controlla, nel corso dei suoi nove anni di potere).
Furbesco e, al tempo stesso, di dichiarate ed immense ambizioni “universali”. O, per l’appunto, marcato dalla farsesca pretesa di determinare una svolta epocale, continentale, eroica. E proprio questo è, in ultima analisi, il punto. Delineando quella che il nuovo testo enfaticamente definiva “una nuova geometria del potere”, la proposta di riforma costituzionale sconfitta ieri nelle urne presentava due parti distinte. Una chiarissima ed inequivocabile sanzione del “Grande Geometra”, o meglio, della leadership carismatico-religiosa d’un Hugo Chávez rieleggibile a vita (o, almeno, fino al 2021, secondo centenario della battaglia di Carabobo, come, sempre attento alle simbologie bolivariane, tuttora prefigura lo stesso Chávez). E, per contro una fumosissima geometria, composta da un riassetto territoriale totalmente affidato all’arbitrio del sovrano e dei suoi viceré (Chávez poteva, con la nuova Costituzione, nominare, di fatto annullando ogni forma di decentramento dello Stato, tutti i vicepresidenti che voleva), ed accompagnata da forme di “democrazia diretta” (il Poder Popular) la cui unica identificabile caratteristica, oltre il bla-bla-bla del testo, sta nel loro non essere il prodotto di “alcuna forma di suffragio o di elezioni”. Pure astrazioni. O, in quanto tali, puri strumenti, ancora una volta, nelle insindacabili mani del re.
Questo era (ed ancora è, nonostante la sconfitta elettorale) il “socialismo del XXI secolo” delineato nella riforma chavista. Un’illusione illuminata dall’accecante luce della bonanza petrolifera, distorto da un’enorme quantità di danaro liquido anch’essa con assoluta discrezione manovrata dal “grande leader”. Hugo Chávez Frías ha avuto l’indiscutibile (storico, a suo modo) merito di dare, all’inizio della sua ora non più tanto irresistibile ascesa, visibilità agli “invisibili”, ai poveri dei “ranchitos”, ai contadini senza terra, a tutti gli esclusi (la maggioranza del paese, in effetti) da una forma di democrazia inamidata – quella del cosiddetto “punto fijo”, gestita nel chiuso circolo dei socialdemocratici di AD e dei social cristiani del COPEI – frantumatasi sotto i colpi di maglio del neoliberalismo (o del suo tragico fallimento). Ma ha anche imprigionato questo nuovo protagonismo politico nella logica d’un autoritarismo petrolifero tutto racchiuso in quello che un celebre libro di Terry Lynn Karl ha definito, dieci anni fa, “The Paradox of Plenty”, il paradosso dell’abbondanza in virtù del quale, nei paesi sottosviluppati la ricchezza del petrolio crea nuova povertà (e corruzione e autoritarismo) perché distrugge, anziché alimentare, le capacità produttive.
Basta un’occhiata alle cifre. Come molti leader populisti prima di lui, Hugo Chávez è – non v’è dubbio alcuno – molto amato dai poveri del Venezuela. Ed è molto amato perché ai poveri ha – al di là della logorroica esaltazione di se stesso e della sua politica – davvero dato molto, trasferendo verso di loro, attraverso il PDVSA (l’ente petrolifero statale ora sotto il suo completo controllo) ingenti somme di denaro. Ma – anche prescindendo dalle polemiche che concernono l’effettiva portata della riduzione della povertà negli anni di Chávez – un fatto appare incontrovertibile: questo trasferimento di risorse ha assunto la quasi esclusiva forma di danaro liquido destinato ad attività improduttive (o a cooperative che, nella loro interezza, vivono solo delle commesse di Stato). Il Venezuela di Chávez è, come tutti i paesi afflitti dalla “maledizione del petrolio”, un luogo dove non si costruisce nulla (il deficit nella costruzione di nuove case è spaventoso), dove nei negozi abbonda il caviale, ma manca il latte. E dove tutto – compresa l’immancabile camicia rossa del presidente – risplende nella falsa luce di una effimera ricchezza.
A tutto questo gli elettori venezuelani hanno detto ieri un “no” risicatissimo, ma imprevisto e, probabilmente, di grande momento per i destini di un’America Latina percorsa dalle tensioni e dalle speranze del dopo neoliberalismo. Oltre il Venezuela di Chávez c’è un continente impegnato in un processo di trasformazione che, a diversi livelli, fa i conti con la crisi della vecchia classe politica, con pericoli di disintegrazione (Bolivia) e con l’ascesa nuove personalità e di nuovi protagonismi sociali: Lula in Brasile, i Kirchner (Néstor e Cristina) in Argentina, Correa in Ecuador, Michelle Bachelet in Cile. Per questa America Latina, lo stop inflitto alla “dittatura costituzionale” che si andava preparando in Venezuela, è, in ultima analisi, un bene. Lo è al di là dei pericoli di regressione e di rivalsa che, pure, sono presenti in questa vittoria dell’opposizione venezuelana. Lo è perché libera il continente dal pericoloso equivoco – o dalla farsa – d’un 18 brumaio di Hugo Rafael Chávez Frías, il nipote di zio Bolivar in cerca della sua corona. E, soprattutto, perché tutta la storia del socialismo, anzi, tutta la storia del mondo, insegna che la liberazione dell’uomo non ha bisogno di “Uomini della Provvidenza”, di santi o di eroi. Ma soltanto di uomini che talora, votando, cambiano il corso della storia.