10 gennaio 2010
di Massimo Cavallini
“Tout sa ou ve, se pa sa”. Tutto quello che si vede, non è quello che è. Così recita, in lingua creole, un antico proverbio haitano. E tutto, oggi, nei panorami di desolazione lasciati dal terremoto, sembra smentirlo. Perché, in effetti, tutto quello che oggi si vede ad Haiti – le macerie, la morte, la polvere e il sangue – è incontestabilmente vero. E perché nulla, sembra poter esistere oltre “sa ou ve”, al di là di ciò che riempie gli occhi e lacera l’anima di chi osserva quel che resta di Port-au-Prince. Niente prima delle macerie e niente dopo. Niente prima e niente dopo quei corpi immobili, “zombificati” dalla clacina ed accumulati come spazzatura per le strade. Niente al di qua e niente al di là delle immagini d’un presente immobile ed immutabile, fuori dal tempo, come pietrificato nella propria disperazione. Eppure, anche in questo caso, come vuole il proverbio, “se pa sa”. Anche qui, in quest’inferno, l’ineludibile evidenza d’una tragedia immane “non è quello che è”. O meglio: non è che una tragica ed orripilante, ma piccola, parte d’una orripilante e tragica storia, soltanto l’istantanea dell’ultima scossa d’un terremoto – un unico, ininterrotto terremoto – che, in realtà, dura da sempre.
Molti, nel rimirare la lunga sequela di sventure che definisce la storia di Haiti, usano una parola che, ormai, anche gli haitiani hanno interiorizzato: “maledizione”. E giorni fa, negli Stati Uniti, il noto televangelista Pat Robertson – uno che vanta frequenti e molto intimi contatti con un Padreterno rancoroso e vendicativo – non ha esitato a definirla, questa maledizione, un “castigo di Dio”. “Ciò che è accaduto ad Haiti – ha sostenuto dagli schermi della sua Christian Broadcasting Network – è la conseguenza del patto col diavolo che è all’origine della storia di quel paese…”. Quale patto col diavolo?, gli ha chiesto, neppure troppo sorpresa, l’intervistatrice. E lui, serafico, ha ricordato, come, sul finire del diciottesimo secolo, gli schiavi neri dell’antica colonia avessero chiesto al Maligno – in cambio, ovviamente dell’animaccia loro – d’aiutarli a “liberarli dai francesi”. Il Maligno li aiutò. I francesi se ne andarono. E ciò che restò, in quella che sarebbe diventata Haiti, fu un’inevitabile maledizione divina i cui effetti, come ciascuno può facilmente notare guardando la tv, ancor oggi perdurano. Questo ha detto Robertson. E, pur raccontando una panzana grande come le sue frustrate ambizioni presidenziali (Robertson perse le primarie repubblicane nel 1988, anno della vittoria di Bush padre), a suo modo non ha mentito. Poiché quello che lui chiama “patto col diavolo” c’è davvero stato. Senza diavolo e senza patto, ovviamente, ma c’è stato. Ed è stato qualcosa che – come con un efficacissimo paradosso ricorda C.L.R. James nel suo “The Black Jacobins” – ha “cambiato il mondo e distrutto Haiti”.
Accadde la notte del 14 agosto del 1791, nella foresta di Bois Cayman, non lontano da Limbé e dal quel Plain du Nord dove, a ridosso di Cap Francois (oggi Cap Haitien), erano concentrate le più grandi piantagioni di zucchero. Fu lì che un negro di nome Boukman, schiavo e “houngan” (sacerdote della religione voodoo) parlò di fronte ad una moltitudine di altri schiavi – per lo più “marrons” come i francesi chiamavano quelli che erano fuggiti dalle piantagioni dandosi alla macchia – e, nel nome del “Dio giusto che si nasconde dietro nuvole, ma vede la crudeltà ‘de le blans’, dei bianchi”, li invitò ad ascoltare “la voce della libertà che canta nei nostri cuori”. Pochi mesi dopo, la testa mozzata di Boukman penzolava nel centro della piazza principale di Cap Francois – la “Parigi delle Antille”, come la chiamavano allora – sotto la scritta “Zamba Boukman, esclave rebelle”. Ma quella che era cominciata, tra rulli di tamburi e sacrifici d’animali nel Bois Cayman era, ormai, una “lavalas”, un’inarrestabile piena che scendeva a valle, la prima rivolta di schiavi in quel Nuovo Mondo che proprio sul lavoro degli schiavi andava creando se stesso. Più ancora: era l’inizio dell’unica rivolta di schiavi che, nella storia del mondo – vecchio o nuovo – sarebbe mai risultata vittoriosa. E vittoriosa – tornando al paradosso di C.L.R. James – a proprio discapito.
Era questo, l’insurrezione “de les noirs de Saint Domingue”. Era questo ed anche molto più di questo. Nata nell’eco della rivoluzione che, in Francia, andava rovesciando l’ancien regime, la rivolta chiedeva che la libertà osannata nei giorni della presa della Bastiglia valesse anche per gli schiavi delle colonie. E, così facendo, chiamava il grande bluff della nascente rivoluzione liberale, la contraddizione d’un processo che esaltava la libertà di tutti e, insieme, la libertà d’un sistema economico che proprio nella schiavitù – in una nuova e molto specifica forma di schiavitù, quella che attraversava l’Atlantico per riempire di anime morte le piantagioni del Nuovo Mondo – trovava una delle sue principali fonti di accumulazione originaria. I ribelli – ha scritto lo storico Laurent Dubois in un libro che è ormai considerato un classico – erano i “vendicatori del Nuovo Mondo”, la concreta espressione del valore universale, non sequestrabile da una razza, da una classe sociale o da una parte del mondo, degli diritti dell’uomo proclamati dalle rivoluzioni americana e francese.
La rivolta cominciata nella notte di Bois Cayman durò 13 anni. E, soprattutto nella sua prima fase, non fu certo – per dirla con Mao – un pranzo di gala. I neri (che a Saint Domingue erano mezzo milione contro 40mila bianchi e 28mila mulatti – incendiarono le piantagioni che avevano visto le loro inenarrabili sofferenze, e ripagarono i vecchi padroni con la medesima, sadica crudeltà che questi ultimi avevano tanto a lungo esercitato su di loro. Uccisero tutti i “blans” che incontrarono, mutilarono i loro cadaveri, stuprarono le loro donne ed impalarono i loro bambini. Combatterono con la feroce audacia dei disperati, prima contro gli inglesi e gli spagnoli che avevano attaccato , anche a Saint Domingue, la Francia giacobina (la quale, coerente con se stessa, aveva cancellato la vergogna della schiavitù nelle colonie); e, poi, contro la stessa Francia che, dopo il Termidoro, era tornata sui suoi passi. Li guidava – dopo la prima caotica fase di pura distruzione, Toussaint de L’Ouverture, uno dei meno conosciuti, eppure uno dei più grandi leader rivoluzionari della Storia. Un capo militare e politico che sapeva parlare a neri e bianchi; e che – non fosse stato catturato e portato in Francia, a morire nel gelo d’una prigione dell’Alta Savoia – avrebbe forse potuto cambiare i tragici (seppur vittoriosi) destini di quella insurrezione. Infine – al tramonto del 1803 – i rivoltosi definitivamente sconfissero la grande armata che, al comando del generale Leclerc, Napoleone aveva mandato a Saint Domingue per “rimettere ordine ripristinando la schiavitù”. Nel 1804 – battuto quello che era allora il più poderoso esercito del mondo -nasceva il primo stato nero indipendente. Ed è proprio questo – quello di esser nata – il “peccato originale” che la Repubblica di Haiti non ha mai cessato di pagare.
Si dice che Madre Natura usi colpire con egualitaria crudeltà. E che i terremoti, gli uragani, le inondazioni, non sappiano distinguere tra ricchi e poveri, bianchi o neri. Verissimo. Ma vero – vero e, nell’Haiti di queste ore, addirittura ovvio – è anche che la povertà moltiplica gli effetti d’ogni tragedia. Ed ancor più vero che è che, in tema di povertà – di questo tipo di povertà che riproduce se stessa dilatando ogni catastrofe – Haiti è diventata negli anni una sorta di esempio in vitro. Già nel 1987, la rivista National Geographics aveva pubblicato un servizio essenzialmente composto da una lunga serie di impressionanti istantanee aeree, scattate lungo la zona di confine che divide le due parti dell’isola Hispaniola. Da un lato, verde e lussureggiante, la Repubblica Domenicana. Dall’altro, spoglia e desolata, Haiti. E, lungo tutte le coste haitiane, nella parte occidentale dell’isola, la lunga linea marrone marcata dalla terra – la rossa ed un tempo fertilissima terra della più ricca colonia delle Antille – che andava inesorabilmente scivolando verso il mare. Poiché proprio questo è Haiti: un paese senza più alberi e minato dall’erosione, un pezzo di terra nuda che, esposta ad ogni intemperie, va progressivamente “sciogliendosi” nell’oceano…
Dunque: perché la ferocia del terremoto s’è imbattuta, mercoledì 13 gennaio, in un paese tanto disperatamente povero? Le risposte sono, naturalmente, molte. E, tra esse, molte vanno ricercate nelle forze “endogene” liberate dalla stessa rivoluzione vittoriosa, nella natura autoritaria e corrotta della elite mulatta che ha, infine, rimpiazzato l’antico potere coloniale. O, persino, in alcuni disvalori generati dallo stesso orgoglio per il “riscatto nero”. La lunga, tragica notte del duvalierismo – consumatasi, sotto i buoni auspici degli Stati Uniti, tra il 1957 ed il 1985 – s’alimentò anche, almeno nella sua prima fase, della retorica “noiriste” di Papa Doc. E regalò al paese forse il più violento, arbitrario e razziatore dei regimi tirannici della storia del mondo, trent’anni di repressione e di permanente saccheggio che, ancor oggi, continuano a vivere nelle bande armate eredi dei Tonton Macoute, le vecchie ed onnipotenti guardie pretoriane del “presidente a vita” . Ma la prima risposta – quella che, a suo modo, contiene tutte le altre – resta legata all’assoluta solitudine del trionfo del 1804.
Gli schiavi di Saint Domingue (ora ribattezzata con il nome che all’isola avevano dato gli originari abitanti tainos, prime vittime del genocidio della Conquista) avevano vinto. E vincendo, avevano condannato sé stessi all’isolamento, pur all’interno d’un più generale processo di liberazione. I padri fondatori degli Stati Uniti d’America – tutti “rivoluzionari”, tutti bianchi e tutti (o quasi) proprietari di schiavi, tutti alla testa di una nuova nazione la cui economia proprio sul lavoro degli schiavi si reggeva – assediarono con un immediato embargo la nuova repubblica nera (che gli Usa non avrebbero riconosciuto che nel 1865, dopo la guerra di secessione). E lo stesso Simón Bolivar – “el libertador” che, pure, dalla “repubblica nera”, aveva, nel 1816, ricevuto ospitalità ed aiuti finanziari e militari decisivi per la sua guerra contro l’impero spagnolo – non mantenne mai la promessa, fatta al presidente haitiano Alexandre Pétion, di abolire la schiavitù nelle colonie liberate. Non lo fece perché obbligato al compromesso dalla nascente oligarchia bianca e perché – come molte delle sue lettere testimoniano -con quella oligarchia in buona parte compartiva il terrore per le possibili conseguenze della “liberazione dei neri”.
Nel 1825, regnante Carlo X, la Francia generosamente decise ch’era giunto il tempo di riconoscere la nuova repubblica nata dalla sua vecchia colonia. E, come volevano i costumi del tempo, lo fece attraverso un non del tutto cerimoniale uso delle sue cannoniere. Ovvero: presentando agli haitiani – mentre la flotta reale veleggiava al largo dell’isola – la classica offerta che non si può rifiutare. Il riconoscimento, contro il pagamento dei danni inflitti alla Francia durante l’insurrezione. In tutto, 150 milioni di franchi d’oro,non trattabili, una cifra che gli storici calcolano pari a da 10 a 30 volte il valore del prodotto interno lordo della nazione all’epoca. Dettaglio significativo: il 1825 è anche l’anno nel quale gli Stati Uniti promulgano la cosiddetta “dottrina Monroe” – l’America agli americani – che ha marcato il definitivo rifiuto d’ogni forma di imperialismo europeo sul nuovo continente. Ma nessuno (e meno di tutti gli Usa, che plaudirono all’intervento di Carlo X) s’oppose, in quell’occasione, all’intromissione francese. O anche soltanto levò una timida voce di protesta per quell’atto d’imperiale prepotenza. Sotto la minaccia di un’invasione, Haiti pagò. E, da allora, non si è più rialzata. Da allora, anzi, ha cominciato a divorare se stessa. Il primo grande disboscamento delle splendide foreste di mogano che coprivano l’isola venne effettuato proprio per pagare il balzello imposto dalla Francia. Fertilissima e verdissima, Haiti ha visto la sua agricoltura morire- aiutata dalla voracità e dall’incompetenza della sua classe dirigente – nella logica dell’isolamento, prima, ed in quella della globalizazzione poi. E, per sopravvivere i suoi poveri hanno, tagliato tutti i suoi alberi . Uno dopo l’altro, per farne carbone vegetale…
Anche la secessione della Repubblica Domenicana, nel 1844, fu, a suo modo, una conseguenza della “paura dei neri”. E fu la “paura nei neri” – o la paura d’un ritorno al potere degli schiavi liberati – che, nella Repubblica Domenicana, nata sotto questi splendidi auspici, generò un’altro dei grandi mostri i cui ritratti campeggiano nella galleria degli orrori della storia latinoamericana: Rafael Leonidas Trujillo Molina, “el generalisimo y benefactor” che proprio “mettendo al loro posto gli haitiani” (nel caso specifico gli haitiani che, come schiavi, lavoravano nelle piantagioni orientali di Santo Domingo) battezzò, nel 1937, con un classico atto di buon vicinato, il suo lungo regno del terrore. In lingua spagnola, è passato alla storia come “el corte”, il taglio. Ma ai più è noto come “il massacro del prezzemolo”. Tutto, raccontano le cronache dell’epoca, si svolse in appena quattro giorni, sulla base di un semplice meccanismo. I soldati di Trujillo mostravano ai lavoratori neri un mazzetto di prezzemolo appena tagliato e domandavano: “que es eso?, che cos’è? Tutti coloro che non sapevano pronunciare correttamente la parola “perejil” – per l’appunto, prezzemolo in spagnolo – venivano considerati haitiani e trucidati sul posto. Quanti ne ammazzarono? Non si sa con esattezza. Forse 20mila, forse 40mila…
“Tu sa ou ve, se pa sa”. Le macerie di Haiti sono molto più antiche, molto più profonde di quelle che oggi si vedono sugli schermi della televisione di tutto il mondo. E parlano di molte storie. Dei 19 anni dell’occupazione statunitense (1915-1929), che presentarono alla prima repubblica nera il conto umiliante dell’apartheid e del razzismo (fu allora -ricorda la scrittrice Edwidge Danticat – che gli haitiani conobbero il significato della parola “nigger”). Degli orrori del dopo-Duvalier, del golpe contro Artstide…Macerie sopra macerie, fino ad oggi. Che fare?
Le ultime pagine di “The Comedians”, il romanzo che Graham Greene ambientò ad Haiti nel 1966, narrano di come il protagonista, Brown, sia infine costretto a fuggire inseguito dai Tonton Macoute di Papa Doc Francois Duvalier. E di come, giunto al confine, davanti al verde delle foreste di Santo Domingo, si volga a guardare per l’ultima volta il paese che ha amato e che sta abbandonando. Quello che Brown vede è soltanto questo: una “immensa pietra bruciata da sole”, una terra che sembra destinata a non veder crescere più nulla, se non la propria disperazione. Qualcosa che assomiglia alla storia sua ed quella dell’umanità. Una terra che nella libertà – la libertà di tutti – ha trovato la sua grandezza e, insieme, la sua rovina. Entrambe senza eguali al mondo. Verso quella pietra bruciata dal sole (e dalla paura della libertà) il mondo ha un immenso debito non pagato. È tempo che, nel nome della libertà e della decenza, cominci ad onorarlo.