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“Grazie, Cason”

Lanciando la sua “guerra de los adornos” il capo Della missione diplomatica Usa all’Avana si è confermato il più affidabile alleato dei regime castrista

di Massimo Cavallini

 

3 gennaio 2006

 

James Cason è, su questo non v’è dubbio alcuno, un uomo tenace. Ed un paio di settimane fa, nell’approssimarsi del Santo Natale, era parso convinto d’avere ormai raggiunto quello che molti sospettano esser sempre stato il vero (e, per l’appunto, molto tenacemente perseguito) scopo della sua presenza all’Avana: il martirio politico. O, più banalmente: la creazione d’una crisi politica coronata dalla sua espulsione da Cuba e (nella più trionfale delle ipotesi) dalla chiusura dell’ufficio di rappresentanza di cui è, da due anni, fantasioso responsabile. “Il regime di Castro – aveva molto drammaticamente dichiarato il rappresentante dell’ufficio di Interessi degli Stati Uniti, lo scorso 15 di dicembre, nel corso d’una conferenza stampa convocata d’urgenza – sta minacciando rappresaglie contro questa missione diplomatica. E lo sta facendo a causa del nostro appoggio incondizionato alla lotta coraggiosa della società civile cubana ed all’opposizione pacifica e democratica…”. Pretesto immediato dell’ormai prossimo attacco: gli addobbi natalizi con i quali la “quasi ambasciata” americana aveva ricoperto la facciata, il giardino e la recinzione dello storico edificio che sorge lungo il Malecón. Motivo centrale d’una decorazione per altri versi assai tradizionale: un grande “75”, a memoria del numero di dissidenti condannati a mostruose pene detentive nell’aprile del 2003. E proprio questo – sosteneva con evidente ragione Cason – era il dettaglio che, in quel piuttosto ostentato sfavillio di luci natalizie, aveva spinto le autorità cubane a minacciare le suddette (ed imprecisate) “rappresaglie”. “Potrebbero espellerci – aveva affermato il diplomatico – o limitare le nostre attività, Hanno molte opzioni e questo dipende da loro. Per quanto ci riguarda, gli ornamenti resteranno, così come sono, fino alla fine delle festività natalizie…”. Insomma: “ni un paso atrás”, non un passo indietro, come anni fa usavano dire – che Dio ci perdoni il parallelo – i sandinisti in Nicaragua…

Ora il Natale è passato. E James Cason non è stato espulso. Tra le molte opzioni a loro disposizione per la “rappresaglia” alla quale il diplomatico agit-prop aveva tanto valorosamente mostrato il petto, le autorità cubane hanno, infatti, scelto quella che – pur da Cason non presa in considerazione – è per molti aspetti più consona alle circostanze: la contrapposizione di immagine ad immagine. Da un lato il “75” che rammenta i dissidenti incarcerati e, dall’altro, le foto – recentemente assurte a macabra celebrità internazionale – delle torture nel carcere di Abu Ghraib, nell’Iraq “liberato” dalle truppe degli Stati Uniti. Il tutto ad ulteriore conferma d’una verità d’ormai solare evidenza: se James Cason non esistesse, Fidel Castro ed il suo regime dovrebbero trovare un modo per inventarlo.

Proviamo a considerare i fatti. Con il suo “eroico” gesto – eroico e molto specificamente “cubano”, dato che non risulta che le sedi diplomatiche statunitensi abbiano, in altre parti del mondo afflitte da regimi autoritari, usato le decorazioni natalizie per denunciare la violazione dei diritti umani – il capo dell’Ufficio di Interessi ha offerto sul piatto d’argento al “líder máximo” due straordinarie opportunità: rammentare al mondo – con tutta l’immediatezza di immagini universalmente note, e con molto natalizia puntualità – l’evangelica massima del “chi è senza peccato scagli la prima pietra”; e – cosa ancor più importante – rinverdire a bassissimo prezzo quella che è, storicamente, la più valida (ed ancor viva, pur nel deserto del castrismo) eredità della rivoluzione cubana. Vale a dire: la sfida alle ambizioni imperiali del “potente vicino del nord”, il perenne mito dello scontro tra Davide e Golia. “ Señores los imperialistas, no le tenemos algun miedo”, signori imperialisti non ci fate nessuna paura. Per anni e anni questo cartello, innalzato nel grande spiazzo di fronte all’edificio della Sezione d’Interessi, aveva riflesso, a beneficio dei passanti, la nobiltà, le ragioni patriotico-nazionali che, ancor oggi, spiegano la sopravvivenza d’un regime diventato negli anni – come qualcuno ha scritto – il mausoleo di se stesso. E Cason ha, con il suo gesto, contribuito a ridar luce a quel riflesso ormai spento, a lucidare la memoria d’una rivoluzione nata da un impulso di libertà, a riesumare visivamente – chiamiamola così – la “parte buona” del castrismo. Al punto che la “guerra de los adornos” è diventata, in queste settimane, il primo e trionfale terreno di prova per quella “battaglia delle idee” che Fidel Castro – riapparso per la prima volta in pubblico dopo la caduta camminando con le sue gambe – ha, la scorsa settimana, preannunciato nel suo discorso di chiusura del congresso della UJC (l’unione dei giovani comunisti). Con artisti, caricaturisti e poeti pronti a dare, lungo il fronte di quella guerra d’immagini e di parole, il contributo d’una “creatività” non propriamente spontanea, forse, ma certo efficace dal punto di vista propagandistico…

James Cason espulso? Siamo seri. Nell’aprile del 2003, quando gli toccò spiegare ai cubani ed al mondo le ragioni per le quali aveva incarcerato – dopo un processo-farsa ed in base a condanne detentive mostruose – i 75 dissidenti rammentati nelle decorazioni, Fidel Castro aveva basato il suo “j’accuse” proprio sulle “attività sovversive del señor Cason”. Ma non aveva preso, nei confronti di quel medesimo signore, alcuno dei provvedimenti che qualunque paese al mondo – democratico o autoritario – avrebbe inevitabilmente assunto nei confronti d’un diplomatico che di attività sovversive è stato accusato. Né Castro – venendo in questo caso addirittura meno al pressoché automatico principio della reciprocità – aveva messo alla porta il rappresentate statunitense un mese più tardi, quando gli Usa espulsero, accusandoli di spionaggio, ben quattordici funzionari della sede diplomatica cubana a Washington. Perché? Semplicissima la risposta: perché nessuno ha, negli ultimi due anni a Cuba, meglio di Cason contribuito a dare credibilità a ciò che non è credibile né (a dispetto degli sforzi congiunti della coppia Cason-Castro) accettabile. Ovvero: alla tesi secondo la quale la repressione dei più elementari diritti di libertà a Cuba non è che la conseguenza delle rinnovate pretese “anexioniste” del medesimo paese che fu, in anni lontani ma non dimenticati, responsabile della “vittoria rubata” e della “enmienda Platt”. E che, ancor oggi – con straordinaria stupidità ed arroganza – impone un blocco commerciale condannato da tutta la comunità internazionale.

La verità è che, con il suo ostentato e talora farsesco protagonismo, Cason ha fatto il possibile – e talora anche l’impossibile, rompendo tutte le regole della diplomazia e del buon gusto – per rappresentare se stesso come il “vero” capo dell’opposizione, dando, in questo modo, un decisivo contributo al discredito di persone dal regime perseguitate in quanto “al servizio d’una potenza straniera”, anzi, della potenza straniera che, nell’ultimo secolo ha minacciato la sovranità nazionale. Ed a riprova – davvero al di la d’ogni ragionevole dubbio – della utilità dell’attivissimo diplomatico, si ergono, come monumenti, le due più recenti “pagliacciate” che quest’ultimo ha, non solo organizzato nella sua residenza dell’Avana, ma anche alacremente pubblicizzato (la prima, l’elezione simulata nella notte delle presidenziali Usa e, la seconda, la cerimonia della sepoltura dei “pensieri di libertà” nei giardini di casa Cason, alla quale, con sciagurata scelta, ha partecipato anche Oswaldo Payá). Il tutto con un indiscutibile successo come, purtroppo, testimoniano i pratici risultati (speriamo solo temporaneo) delle azioni parallele del regime cubano e dell’Ufficio di Interessi. Perché, grazie alla repressione del primo ed alle ingerenze del secondo (nonché – e questo è il dato più triste – alla spesso inspiegabile acquiescenza del dissenso) molte delle speranze sorte con il lancio del “Progetto Varela” si sono di recente andate affievolendo.

Occorre ammetterlo: per quanto decisamente deludenti rispetto alle attese di martirio del “Chief of Mission” americano, la “rappresaglia” delle autorità è davvero stata eccessiva. E ciò non tanto per la svastica collocata al lato delle foto delle torture – un gesto del quale il Dipartimento di Stato ha, con qualche ragione, detto che “si commenta da solo” – quanto per una questione, diciamo così, d’abbondanza. Per esprimere i veri sentimenti del regime bastava, in fondo, un semplice striscione con la scritta: “Grazie, Cason”. Ma la gratitudine, si sa, non è tra le più spiccate virtù delle tirannie.

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