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Florida, pronta al bis

13 luglio 2004

 

di Massimo Cavallini

 

Katherine Harris non abita più qui. Ma quel che di lei resta – quaggiù, nei luoghi che, quattro anni fa, la videro diventare d’acchito una celebrità a livello planetario – è, in realtà, ben più d’un luminoso ricordo. Di quei giorni nient’affatto lontani sono – è vero – venute meno molte cose. Non ci sono più i famosi “butterfly ballots”, le schede a farfalla che, brillantemente disegnate in quel di Palm Beach da Theresa LePore (un altro dei nomi indelebilmente entrati nella storia delle più lunghe e contrastate elezioni americane) aiutarono circa 2.000 pensionati ebrei, quasi tutti ferventi sostenitori di Al Gore, nell’ardua impresa di regalare all’antisemita Pat Buchanan il proprio voto ed a George W. Bush la Casa Bianca. Le “punch card machines”, visibilissime protagoniste dello scandalo, sono state, già da un paio d’anni, impietosamente rottamate assieme alle relative schede perforate (semi-perforate, quasi-perforate, perforabili e, in non pochi casi, imperforabili), portando con sé tutte quelle varianti di “chads” – “hanging chads” (chads pendenti), “pregnant chads” (chads incinta), “dimpled chads” (chads con la fossetta) – dalla cui opinabilissima lettura (e dall’ancor più opinabile profondità) per 36 lunghi giorni dipesero (e, per molti aspetti, ancora dipendono) i destini delle più potente nazione del mondo. Ma tutto il resto – compresa per molti aspetti la stessa Katherine, che si è trasferita, sì, a Washington D.C., ma solo per rappresentare nel Congresso uno dei più repubblicani tra i distretti della Florida – è ancora ben visibile al suo posto, implacabilmente uguale a se stesso. Sfacciatamente immutato e, quel che più conta, pronto – qualora le circostanze lo consentano – a regalare al mondo una replica dello spettacolo offerto tra il novembre ed il dicembre dell’anno 2000.

Proviamo a ricapitolare. Quando nella notte del 7 novembre del primo anno del nuovo millennio i conteggi elettorali, impantanatisi nelle paludi della Florida, spinsero alla deriva l’intero processo democratico, dalle acque del naufragio affiorarono all’istante, come impresentabili relitti, tutti gli orrori d’un sistema elettorale balcanizzato ed arcaico, ricolmo di aree tenebrose e (particolarmente nel più tropicale degli Stati dell’Unione) di pratiche decisamente “bananiere”. Una su tutti: proprio in Florida – ovvero, proprio laddove più si palesava la necessità d’un arbitro affidabile – il Segretario di Stato, primo garante “super-partes” del rispetto delle regole elettorali, era anche il capo della campagna elettorale d’uno dei due candidati in lizza. Il candidato era, come molti ricorderanno, l’attuale presidente, George W. Bush. E quel “primo garante super-partes” – nominato da Jeb Bush, governatore della Florida e fratello del candidato summenzionato – si chiamava, per l’appunto, Katherine Harris.

In che modo andò a finire è a tutti noto. Come un buon soldato – sorda ad ogni invito alle dimissioni – Katherine non abbandonò la trincea che le era stata affidata. E per 36 giorni affrontò impavida – senza arretrare d’un passo, neppure di fronte al ridicolo – la prova della pubblica indignazione. La sfida legale lanciata da Al Gore s’infranse e s’indebolì – prima di giungere alla decisiva sconfitta nella Corte Suprema – di fronte a questa prima barriera che preventivamente negava ogni diritto al riconteggio. E fu anche grazie a tanta “svergognata tenacia” – come l’ha definita in un libro il celebre avvocato Alan Dershowitz – che George W. Bush conquistò infine (per 537 voti) la presidenza, pur avendo raccolto, a livello nazionale, meno consensi del rivale. Dal paese – e nella stessa Florida – si levò in quei giorni un grido: mai più un pasticcio di questo tipo. Mai più al voto sulla base di regole tanto labili. Mai più schede a farfalla e “chads” capaci di contenere, nel minuscolo concavo d’una perforazione non riuscita, il futuro del mondo. Mai più, insomma, Katherine Harris

Quattro anni sono passati. Katherine Harris, premiata per la sua tenacia con una candidatura in uno dei più sicuri tra i distretti a maggioranza repubblicana, è felicemente approdata a Capitol Hill. E per molti mesi il Congresso della Florida ha discusso (ed infine approvato) una nuova legge elettorale – la stessa che ha perentoriamente mandato al macero le “punch card machines” – nel cui testo definitivo è tuttavia scomparso, come in un gioco di prestigio, quello che doveva essere il punto centrale della riforma. Per l’appunto: la nomina d’un arbitro al di sopra delle parti, la trasfigurazione “bipartisan” del ruolo del Segretario di Stato. E Jeb Bush– attribuita al congresso (a maggioranza repubblicana) la responsabilità di questa perversa magía – ha da par suo perversamente provveduto a colmare il vuoto, sostituendo l’indimenticabile Katherine con un nuovo segretario di Stato in grado di non suscitare rimpianti. Cosa, questa, riuscitagli a tal punto che la nuova prescelta – Glenda Hood, ex sindaco di Orlando, la città di Disney World – è stata da molti definita “Katherine Harris II”. Stessa fedeltà a prova di ridicolo, stessa inamovibile sfrontatezza, stessa predisposizione al segreto ed alla frode. Stessa ferma volontà di perpetuare la fama di “repubblica delle banane” che la Florida si è guadagnata negli anni, elezione dopo elezione.

Carl Hiaasen, brillante e popolarissimo autore di romanzi polizieschi che proprio negli anfratti della corruzione dello Stato vanno dipanando le loro spesso surreali trame, ama distinguere in due grandi tradizioni (o “filoni” geografici) le frodi elettorali che – a partire dal 1920, secondo lo scrittore – si sono consumate nella penisola: quella della Florida del Nord dove il metodo più usato è la perdita delle urne (quasi sempre cadute incidentalmente in mare dall’auto dello sceriffo che la trasporta nei luoghi di conteggio), e quella della Florida del Sud, dove, invece, si preferisce, in genere, far votare i morti (talora anche per cinque o sei volte, come testimoniato da molti casi storicamente accertati e, in particolare, dalle elezioni che, nel 1997, portarono alla vittoria, poi revocala, di Xavier Suarez, nella corsa per la poltrona di sindaco di Miami). Con le elezioni presidenziali del 2000, Katherine Harris aveva tuttavia, con grande e ben ricompensata efficacia, introdotto una terza variante (valida, questa volta in tutto lo Stato): quella che puntava, semplicemente, a non far votare i vivi. Più nello specifico: a non far votare quei vivi che – per ragioni etniche o sociali – avevano buone probabilità statistiche di scegliere i democratici.

Elementare e, a suo modo, geniale il metodo usato. Una legge (da molti considerata incostituzionale) della Florida prevede che ogni persona penalmente condannata perda il diritto di voto. Diritto che, una volta scontata la pena, può recuperare soltanto rivolgendosi, attraverso una piuttosto complessa procedura, al “buon cuore” (inappellabile e soggettivo) d’una commissione che, chiamata a valutare la robustezza della redenzione del reo, è nominata e presieduta proprio dal governatore dello Stato. Ovvero: da Jeb Bush. Il quale – non per scarsa propensione al perdono cristiano, ma per un ovvio calcolo politico – aveva, in prossimità del voto del 2000, fatto un uso quantomeno parsimonioso di questa sua facoltà di “devoluzione”. Oltre il 50 per cento dei condannati dello Stato sono, infatti, neri. E le statistiche dicono che i neri di norma votano, con percentuali che oscillano tra il 70 e l’80 per cento, per il candidato democratico.

Partendo da questa base legale – di per sé già assai discutibile – Katherine Harris aveva fatto molto di più di ciò che la sua fede politica e le sue affinità elettive con il governatore in carica le suggerivano. Come molte ricerche successive alla debacle elettorale hanno poi inequivocabilmente dimostrato, Katherine aveva – per errore, ovviamente – inserito nelle liste dei cittadini senza diritto al voto almeno 19.000 nomi (quasi tutti di neri, casualmente) che mai, in vita loro, avevano subito alcuna condanna. E Glenda Hood non ha ora, a quanto pare, esitato a ripercorrere il medesimo cammino. Facendosi però, questa volta – non essendo lo scandalo dell’anno 2000 passato in vano – cogliere con le mani nel sacco. Può sembrare incredibile. Eppure – a conferma del fatto che in Florida l’incredibile è, politicamente parlando, il concetto più prossimo alla routine – questo è quanto è effettivamente accaduto. Glenda Hood ha ricevuto dal governatore, Jeb Bush, l’incarico di rivedere le liste dei “non aventi diritto al voto” che tanto scandalo avevano – sia pur “a posteriori” – sollevato quattro anni prima. E Glenda ha con grande zelo eseguito l’ordine ricevuto, cercando in un primo tempo – per ragioni di “privacy” – di mantenere rigorosamente segreti i frutti del suo lavoro di ricerca. Poi, costretta dalla sentenza d’un tribunale, ha dovuto cedere alla curiosità dei cronisti, mostrando liste che, già ad una prima verifica, hanno rivelato migliaia di errori. Ed errori curiosamente assai simili – statisticamente ed etnicamente – a quelli commessi, nel 2000, dalla sua celebre antecessora. Unica differenza: i neri messi arbitrariamente “fuori gioco” – come ha di recente ricordato l’ex presidente Jimmy Carter in un editoriale pubblicato dal Washington Post – sono questa volta un po’ di più: circa 22.000.

Quattro anni or sono, tutti i tentativi d’accertare ogni possibile forma di dolo era finito nel nulla. Katherine Harris aveva, infatti, respinto con sdegno la tesi – maliziosamente avanzata da qualche organo di stampa d’ovvia tendenza democratica – che un fitto scambio di e-mail tra lei ed i governatore chiaramente prefigurasse un deliberato piano teso a negare ai neri l’accesso alle urne. E, per provare la propria innocenza al di là d’ogni ragionevole dubbio, Katherine aveva con solerzia provveduto a cancellare l’intero disco rigido del suo computer (il tutto a causa, fu la sua spiegazione, d’un aggiornamento del sistema operativo. Anche se – bizzarro dettaglio – il “nuovo” sistema installato era, in realtà, più vecchio del precedente). Ed anche Glenda – che comunque ha quantomeno evitato d’assumere, come la Harris, l’incarico di capo della campagna di Bush in Florida – sembra ora assai decisa a proteggere dall’indiscrezione dei media la vera natura dei suoi (pur chiarissimi)rapporti con il governatore che l’ha nominata “arbitro” del processo elettorale. Con la differenza che, questa volta lo scandalo è – dettaglio a suo modo confortante – scoppiato prima del voto. Ed ha anticipatamente rivelato – oltre l’abolizione delle antiquate ed inaffidabili “punch card machines” – anche un risvolto tecnologico di (potenzialmente) colossali proporzioni.

Tra le più inquietanti decisioni assunte negli ultimi mesi da Glenda Hood c’è infatti quella – difesa con le unghie dagli attacchi di parte dei media e di varie organizzazioni indipendenti mobilitate a difesa della credibilità del voto – d’abolire ogni traccia cartacea del suffragio elettronico. Ovvero del voto che quasi il 60 per cento degli elettori realizzerà, il prossimo 2 novembre, con le nuove “touch-screen machines”. Ed il tutto dopo che – specie nelle primarie per il voto per il governatore dello Stato, nel novembre del 2002 – le prove sul campo dei nuovi apparati (in gran parte prodotti da Diebold, un’impresa che ha ampiamente finanziato la campagna di Bush) avevano dato risultati a dir poco sconfortanti. Insomma: dovesse l’erede di Katherine Harris spuntarla – cosa se Dio vuole non scontata, visto un giudice già le ha ordinato di cambiare le regole dell’ “e-vote” e che una battaglia legale è ora, su questo tema, in pieno svolgimento – tutti coloro che, il prossimo 2 novembre, affideranno ai polpastrelli (ed alle nuove tecnologie) la propria scelta presidenziale, non avranno che una garanzia del corretto computo del loro voto: la parola del Segretario di Stato e del governatore. I quali sono entrambi – parafrasando quel che il Marco Antonio shakespeariano dice di Bruto – “uomini (e donne) d’onore”.

Nella primavera del 2001, quattro mesi dopo l’insediamento di George W. Bush, un consorzio formato dal Miami Herald e dal New York Times, concluse – esaminate tutte le schede deposte nelle urne della Florida – che in assenza di errori di computo e di inganni (ovvero, in presenza del riconteggio negato dalla Corte Suprema), Al Gore avrebbe vinto per circa 23.000 suffragi i 25 voti elettorali dello Stato. E, con essi, la corsa alla Casa Bianca. Che cosa resterebbe dopo il 2 novembre della democrazia americana se, per la seconda volta, i “pasticci” della Florida mandassero alla Casa Bianca l’uomo sbagliato?

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