11 maggio 2010
Di M.C.
Fino a quando? Fino a dove? Queste sono le due domande – interconnesse ed entrambe ancora senza risposta – che, dense ed oscure come il petrolio, galleggiano oggi sulle acque del Golfo del Messico. Fino a quando continuerà, nella profondità degli abissi, la fuoruscita di greggio provocata dall’esplosione del 20 aprile? E fino a dove può arrivare, se non bloccata all’origine, la marea nera? Per ora sono solo i numeri a parlare. E si tratta di numeri terrificanti. La perdita, lo “spill” come lo chiamano, continua senza soste ad un ritmo che è, ancor oggi, di 5000 barili al giorno, ma che potrebbe esponenzialmente moltiplicarsi – non dovesse l’emorragia essere fermata nei prossimi giorni – fino a 40.000 o, addirittura, fino a 60.000 barili al giorno. E lungo – molto lungo e devastante oltre ogni immaginazione – potrebbe diventare il viaggio di questo piatto e lento, ma mortifero tsunami.
Tutto dipende, dicono gli oceanografi, da un incontro. Quello – più che possibile – tra la marea di petrolio e quel gran fiume sottomarino che chiamano “loop current”, la corrente circolare, un poderoso flusso d’acqua che, ad oltre mille metri di profondità, si muove all’interno del golfo del Messico. Dovesse questo incontro verificarsi, la marea nera raggiungerebbe, nel giro d’una settimana, le coste orientali della Florida e, toccate le Keys – la lunga teoria di isolette che, verso sud-ovest, prolunga la penisola – entrerebbe trionfalmente nell’oceano Atlantico, congiungendosi infine alla Corrente del Golfo vera e propria ed arrivando fino a Cape Hatteras, nel North Carolina, punto nel quale la corrente piega poi verso nord-est. O, più precisamente, verso l’Irlanda, destinata anch’essa ad entrare, col tempo, nel novero delle vittime del disastro.
Ci sarà quell’incontro? Per il momento il petrolio che fuoriesce da quello che fu il Mississippi Canyon Block 252 – prima dell’esplosione considerato un sistema-gioiello capace di strappare greggio agli abissi sfidando il mito della “non rinnovabilità” dell’energia fossile – si trova ancora molte miglia a nord della “loop current”. E le condizioni atmosferiche non sembrano, allo stato, favorire quel fatale rendez-vous. Ma il tempo (quello reale se non quello meteorologico) e la inarrestabilità dello “spill” – ci vorranno almeno altri tre giorni prima che la BP provi a bloccare la falla con un “imbuto” più piccolo di quello che la settimana scorso aveva fatto cilecca – stanno, per così dire, giocando a favore dell’apocalisse. Anche perché – come sostiene il professor Robert Weisberg, oceanografo della Università del South Florida – esiste la possibilità che, in questo caso, sia la montagna ad andare a Maometto. Ovvero: che sia la “loop current” a muoversi, con alcune delle sue propaggini periferiche, verso la grande macchia nera. Nessuno, insomma, sa quando finirà. Nessuno sa se, e come finirà.
Tutti, invece sanno come e perché è cominciata. I tecnici, in verità, ancora vanno discutendo sulle cause immediate dell’esplosione. E ieri mattina, nel corso prima udienza che il Congresso ha tenuto sul disastro, i rappresentanti delle tre compagnie coinvolte – La British Petroleum, proprietaria della piattaforma, la Transocean Ltd. che la gestiva materialmente, e la Halliburton Co., che aveva avuto in appalto la costruzione dei sistemi di sicurezza – hanno prevedibilmente cominciato a puntare il dito gli uni contro gli altri. Certo è, tuttavia, che, tra tanti angosciosi ed irrisolti quesiti, almeno una domanda, già trova un’ovvia risposta. La più importante, per molti versi, tra le molte in lista d’attesa. Ed anche, di gran lunga, la meno consolante: per quale ragione è successo quel che è successo? O, più esattamente: che cosa poteva esser fatto – e non è stato fatto – per impedire che succedesse quel che è successo?
Elementare, Watson. Tutto quello che poteva (doveva) esser fatto e non è stato fatto, non è stato fatto a causa della perversa situazione di privilegio nella quale va da sempre muovendosi l’industria energetica. Meglio ancora: a causa della perversa relazione di complicità che – spesso in termini fisici – lega il potere politico al potere del petrolio. Eclatante il caso dell’assenza d’un sistema di sicurezza a controllo remoto in grado di evitare la perdita di petrolio nel caso in cui – a causa di un’esplosione, come nel caso specifico – i meccanismi operanti sulla piattaforma medesima non fossero in grado di funzionare. La piattaforma Deepwater Horizon era, a tutti gli effetti,a una “meraviglia” della tecnologia, in grado di superare, per giungere all’oro nero, due mila metri di profondità marina ed almeno un’altra decina di chilometri di dura roccia. Ma non si era mai dotata di quello che i tecnici chiamano il “blowout preventer” (o per l’appunto, d’un sistema capace, di fronte ad un’emergenza, di bloccare a distanza il flusso di petrolio). Perché? Perché la legge non l’aveva reso obbligatorio. E perché, tra il 2000 ed il 2009, tutti i molto blandi inviti rivolti alle compagnie petrolifere dal Mineral Management Service – la branca governativa, che, appendice de Interior Department, si occupa di regolare il settore energetico – erano cadute nel vuoto.
Superficialità? Distrazione? Non esattamente.E per capirlo bastano due nomi: Halliburton – impresa che già è fu, a suo tempo, parte integrante dell’ingloriosa storia della guerra in Iraq – e Dick Cheney. Due nomi che raccontano storia. Questa: Dick Cheney,già segretario della Difesa ai tempi della prima guerra del Golfo ed ex chief executive officer della Halliburton, fu vicepresidente durante l’intero regno (2000-2008) di George W. Bush. Ed in questa veste riservò a sé stesso la direzione dell’intera politica energetica del paese. Né fu il suo un caso unico. Fu, piuttosto, il più sfacciato esempio di quella che, nel politichese Usa, va sotto il nome di “revolving door”, la porta girevole, che collega il mondo della politica a quello delle grandi corporazioni. Oggi uno occupa uno scranno del Congresso, domani quello di dirigente (o di grande lobbista) d’una grande impresa. O viceversa. Stessa logica. Stessa porta.
Avremo modo di entrare in dettaglio. Per l’intanto non ci resta che guardare la nera marea che avanza. Non sappiamo dove arriverà. Ma almeno sappiamo – in tutti sensi – da dove è partita.