Con una lettera al Granma – e con parole che ricordano quelle pronunciate da Lyndon Johnson nel 1968 – il “líder máximo” rinuncia alla carica di presidente del Consejo de Estado e di Comandante en Jefe – Le redini passano, o meglio, restano nelle mani di Raúl, solido controllore dei due pilastri (forze armate e partito) che sostengono il regime – Ma le riforme appaiono ormai improcrastinabili
di mc
“…les comunico che no aspiraré ni aceptaré – repito – non aspiraré ni acceptaré, el cargo de Presidente del Consejo de Estado y Comandante en Jefe…”. Vi comunico che non cercherò né accetterò – ripeto – non cercherò né accetterò l’incarico di Presidente del Consiglio di Stato e di Comandante in Capo…Questo ha scritto ieri sul Granma Fidel Castro Ruz. E subito è balzata agli occhi (o alle orecchie di quanti hanno ascoltato la notizia alla Tv) una curiosa assonanza: quella con le parole – “I shall not seek and I will not accept the nomination of my party…”, non cercherò né accetterò la nomination del mio partito…- con la quale, il 31 marzo del 1968, in un memorabile annuncio televisivo, Lyndon Johnson rese pubblica la sua rinuncia alla corsa per la rielezione alla Casa Bianca. Un effetto voluto? Forse sì, perché – avendo Fidel per tutta la vita tenuto gli occhi puntati sull’ “Impero” – certamente ben conosce quel precedente. E perché proprio all’imperial spettacolo della campagna presidenziale americana (o, più specificamente, al candidato repubblicano John McCain), l’ormai ex Comandate en Jefe ha di recente dedicato alcune delle sue “riflessioni” in forma di editoriale. O forse no, anzi, molto probabilmente no, perché assai remota appare, in effetti, la possibilità che il “líder máximo” abbia voluto associare la sua rinuncia alle più alte cariche dello Stato al ricordo d’una sconfitta consumatasi quarant’anni fa, sull’onda tragica della guerra in Vietnam, in quello che José Martí usava chiamare il “ventre del mostro”.
Resta, in ogni caso – si tratti d’una ricercata analogia o soltanto d’una curiosità – la straordinaria somiglianza degli accenti. E soprattutto resta il fatto che – ben al di là d’ogni stiracchiato parallelismo storico tra la rinuncia di Lyndon Johnson e quella di Fidel – quelle parole aprono una fase nuova nella storia di Cuba. Ed in particolare in quella essenziale parte della storia cubana che concerne le relazioni tra l’isola e gli Stati Uniti d’America. Che cosa accadrà ora? Quali nuove prospettive si aprono, per Cuba, sul piano interno e su quello internazionale? A che cosa può portare la duplice transizione aperta a Cuba dal parziale auto-pensionamento di Fidel e, negli Usa, da un processo elettorale tra i più interessanti ed incerti della storia del paese (per la prima volta un candidato apertamente contrario all’embargo e favorevole ad un apertura negoziata, Barak Obama, sta correndo con crescenti e reali possibilità di successo finale)?
Rispondere è ovviamente difficile. Ma certo è che la risposta non può che partire da alcune basiche considerazioni. La prima delle quali, inevitabilmente, concerne la natura dell’embargo. Ovvero: dell’elemento che, da ormai quasi mezzo secolo, più d’ogni altro marca la natura dei rapporti tra i due paesi e più d’ogni altro incide sulla natura del comunismo cubano. Tutti gli aggettivi – ingiusto, criminale, ripugnante, inutile, controproducente, stupido, anacronistico – fin qui usati per definire quest’aspetto della politica statunitense restano, non v’è dubbio, assolutamente validi (con crescente accento sugli ultimi quattro). Ma molto più importante è oggi considerare – oltre l’etica e la più che legittima ripulsa per quello che è stato e resta un atto di prepotenza imperiale – due diversi lati del problema. Il primo: benché ingiusto e criminale, anzi, proprio perché ingiusto e criminale, l’embargo Usa è diventato nel tempo una parte centrale, a suo modo “irrinunciabile”, della politica interna cubana. Perché ha con tutta evidenza rappresentato (e tuttora rappresenta), non solo l’essenza d’un “regime di guerra”, ma anche – e ben oltre la sua reale incidenza – il velo, la giustificazione d’ogni ritardo e d’ogni insuccesso. Ed interessante è a questo proposito rammentare come il suo ultimo deprecabile rafforzamento – la famigerata legge Helms-Burton – sia arrivata, regnante Bill Clinton, a seguito d’un incidente (l’abbattimento in acque internazionali di tre aerei civili dell’associazione Los Hermanos al Rescate) giunto (non per caso sostengono in molti) in un momento in cui le relazioni tra i due paesi sembravano avviate verso meno guerresche sponde.
Secondo lato: con la caduta dell’Unione Sovietica e con la fine della Guerra Fredda, l’embargo – nato come arrogante risposta al “pericolo cubano” – è diventato una testimonianza (altrettanto arrogante, ma infinitamente più stupida) della “irrilevanza di Cuba”. Ovvero: s’è trasformato da strumento di politica internazionale, in un mediocre utensile di politica interna, una patetica esca a null’atro destinata se non a catturare i voti dell’esilio cubano, considerati decisivi in alcuni “swing States”, Stati oscillanti – il New Jersey e, soprattutto, la Florida – a loro volta ritenuti decisivi negli incertissimi equilibri elettorali americani.
Sicché questa è oggi la vera domanda: in che misura il ritiro di Fidel potrà ora modificare questo stato delle cose? Molto, ovviamente, dipende da quel che succederà a novembre, quando gli americani sceglieranno il nuovo presidente. Ed interessante sarà vedere quanto riuscirà ad emergere, nel corso della campagna elettorale, la realtà – sempre più pronunciata, ma ancora incapsulata in una preistorica dirigenza politica – d’un nuovo esilio cubano, meno ansioso di rancorose rivincite e più aperto al nuovo. Ma non v’è dubbio che la partita decisiva si giocherà – anzi, già si sta giocando da un anno e mezzo – dentro Cuba. Nell’estate del 2006, quando Fidel Castro cadde ammalato e rinunciò “temporaneamente” alla guida del paese, i più seri tra gli analisti di cose cubane, ammonirono: nessuno si aspetti cataclismi. Perché – fecero rilevare – sebbene assolutamente essenziale e “centrale” sia, per il regime, il personale carisma di Fidel, Raúl Castro è certo in grado di controllare e guidare, per un periodo ragionevolmente lungo, anche in virtù del nuovo ossigeno del petrolio venezuelano, i tre pilastri di quello stesso regime: il partito comunista – ovvero: quella che la Costituzione definisce “forza dirigente superiore della società e dello Stato” – l’esercito con tutti gli strumenti di repressione armata e, infine, l’apparato di controllo-consenso (i Comitati di Difesa della Rivoluzione, i sindacati, le varie associazioni di categoria) che rappresentano la società civile cubana (o che, come non pochi sostengono, impediscono lo sviluppo d’una vera e libera società civile).
Una facile profezia che, tuttavia, deve ora fare i conti con il tempo. O meglio: con la non più procrastinabile necessità di quelle “indispensabili riforme” economiche e politiche che Raúl Castro già ha elencato nel suo discorso (il primo da “facente funzioni”) del 26 luglio del 2007. Volendo andare al nocciolo del problema, si può affermare che ora, dopo l’auto-pensionamento forzato di Fidel – o il suo “plan pijama, come da tempo, all’Avana, lo definisce “radio bemba”, radio-labbrone, la voce della strada – Cuba si trova di fronte, senza più possibilità di dilazioni, agli stessi problemi che (mutatis mutandi) Gorbachov dovette affrontare alla fine degli anni ’80, di fronte al declino del potere sovietico ed alla crescente richiesta di democrazia e di benessere. In quegli stessi anni Fidel Castro seguì con ostentata spettacolarità la via opposta, sollevando ponti levatoi, epurando l’esercito (poiché proprio a questo servì, nell’89, il processo staliniano al generale Armando Ochoa) ed assicurando le mura della fortezza contro ogni “nefasta” influenza riformista. Fu in questo modo che salvò dalla caduta sé stesso ed un regime che, sulla sponda sovietica, s’era rivelato, alla prova dei fatti, “ non riformabile”. Ma quello che ne risultò fu un sistema di pura sopravvivenza, una realtà residuale che, ora, deve per forza fare i conti con se stessa. E proprio di questo – se si legge in trasparenza il suo discorso – ha parlato Raúl Castro lo scorso 26 di luglio, aprendo nel paese un dibattito di cui, ancora, non è facile misurare né la profondità, né la “controllabilità” da parte del regime.
Ultima domanda: quanta di questa realtà nuova traspare negli scritti dell’ “editorialista” Fidel Castro Ruz, ancora “primer segretario” del PCC, ma ormai ex presidente del Consejo de Estado y de Ministros ed ex Comandante en Jefe? Non molta per la verità. E forse proprio questa è la vera novità, la vera “sorpresa”. Leggendo le sue “riflessioni” – spesso divaganti e non di rado rivolte al passato, ma sempre incapaci di fare i conti con le vere ragioni della caduta del socialismo reale – si ha, infatti, come un’impressione di marginalità e di pronunciata irrilevanza. Tra le molte voci che, in questi mesi, hanno cercato di spiegare le ragioni che impedivano al convalescente Fidel di apparire e di parlare in pubblico (foss’anche solo per qualche minuto) una sostiene che il vecchio leader, per quanto mentalmente lucido, va soggetto – in una “impresentabile” mostra di senilità – ad irrefrenabili crisi di pianto…
Dove stia andando Cuba, nessuno può dire. Ma certo è che, dovunque vada, ci andrà senza Fidel.