Cambio. Adesso che è stato eletto alla presidenza di Haiti, Michael Martelly dovrà fare onore alla parola che è stata, non solo il leitmotiv della sua campagna, ma anche il motivo per cui gli haitiani l’hanno votato, preferendolo con circa il 68 per cento dei voti alla 71 enne Mirlande Manigat, ex fisrt lady e, al contrario di lui, evocativa della continuità. Martelly, non solo non ha parenti illustri al governo, ma lui stesso sa poco di politica. Fino a qualche mese fa ha fatto il cantante, lo chiamavano Sweet Micky. E’ uno dei pionieri della musica locale kompa. Nel suo video più famoso – che qui a lato riproduciamo – il cinquantenne Micky, a torso nudo e con un pareo sgargiante annodato intorno alla vita, dimena i fianchi sulle note di una canzone molto ritmata, ma la nuda pancetta tremolante nulla toglie al carismatico appeal dell’oggi presidente. “Dubitiamo sappia qualcosa di politica, però è una garanzia di buona musica caraibica”, ha commentato acidamente un giornalista, all’indomani delle elezioni, che Sweet ha vinto al secondo turno, il 4 aprile scorso. Ammesso, ovviamente, che vittoria si possa chiamare quella maturata in elezioni alle quali meno del 25 per cento degli aventi diritto ha preso parte. Comunque la si rigiri, il vero presidente di questo devastato paese (un presidente eletto a soverchiante maggioranza già al primo turno, si chiama, oggi, Astensione.
Ad haiti nulla di quel che appare e’ quel che e’
Se Martelly è stato eletto – sia pur con il voto di poco più del 15 per cento d’un elettorato che ha bocciato, non soltanto lui, ma l’intero processo elettorale marcato da ovvie irregolarità e modificato d’autorità dall’OAS – lo si deve, in ogni caso, proprio alla sua musica. Il suo consenso è enorme tra i giovani che si sbracano ai suoi concerti, ed il suo carisma politico è una diretta conseguenza di quello artistico. Il fatto che un musicista di successo abbia lasciato la sua vita di artista per le grane del governo rappresenta, dicono i suoi molti fans, è la garanzia del suo impegno. E, del resto, in questa Haiti percorsa dai quattro cavalieri dell’Apocalisse, sembra davvero che solo la musica riesca a toccare qualche cuore. Fino allo scorso autunno – prima che il Tribunale elettorale giudicasse “improponibile”, per ragioni tecniche, la sua candidatura – in testa ai sondaggi brillava il nome di un altro cantante di grido: Wyclef Jean, idolo del “hip-hop”.
Solo la musico, insomma, può vincere. La musica, o Jean-Bertrand Aristide, l’unico presidente che mai, nella storia del paese sia stato davvero democraticamente eletto (per due volte e, per due volte, militarmente cacciato). L’unico, in effetti, che può davvero rimpiazzare il presidente Astensione oggi al potere, anche se formalmente sarà Michael Martelly ad entrare nel palazzo presidenziale (o in quel che di quel palazzo resta dopo il terremoto). Aristide ha vinto per due volte, con più del 70 per cento dei voti elezioni ad ampia partecipazione popolare. E tutti sanno che tornerebbe a vincere, con analoghe percentuali, non avessero bandito lui ed il suo partito, Lavalas, dalla partecipazione al voto…
Cambio, dunque, è quello che Martelly annuncia. E cambio, in effetti, sembra l’unica parola politicamente accettabile (tanto da essere sulla bocca di tutti i candidati) in un Paese nel quale, come Haiti, nulla merita d’esser conservato. Perché è il Paese più povero di tutto il Continente americano ed uno dei più poveri al mondo. Perché l’85 per cento della popolazione si trova in condizioni di povertà assoluta e perché il Prodotto Interno Lordo è rappresentato al sessanta per cento dalle scarse rimesse degli emigrati. Dei suoi dieci milioni di abitanti, circa un milione e mezzo sono rimasti senza tetto dopo che, nel gennaio dell’anno scorso, un terremoto di magnitudo 7,3 ha distrutto la capitale Port au Prince e le zone vicine, con un bilancio catastrofico di 300.000 morti e altrettanti feriti (e danni complessivi che ammontano a 8.000 milioni di dollari, l’equivalente del 120 per cento del Pib), lasciando un Paese in briciole a cui, secondo gli esperti, occorrerà almeno un decennio per riprendersi.
Martelly si annuncia, ottimisticamente, come il profeta della ricostruzione e gli haitiani, o almeno la maggior parte dei pochissimi che sono andati alle urne, vogliono credere a quel faccione cordiale, che tanto cordiale tuttavia non era (vedi video) quando, solo qualche mese fa, vomitava contro Aristide insulti volgari anche per chi, come il Martelly cantante, della volgarità ha fatto il proprio marchio di fabbrica. Di un siffatto faccione, affermano i suoi sostenitori, non c’è traccia nella memoria recente dalla repubblica, dilaniata da lotte interne tra pasdaran dei generali golpisti e presidenti populisti e controversi oppure a tal punto moderati da apparire smosci come René Preval, il presidente uscente, l’unico nella storia di Haiti ad avere portato a termine due mandati, ma che non per questo ha risolto qualcuno dei problemi del Paese, a parte qualche sparuta vittoria come la riduzione dell’inflazione dal 13 al 5 per cento e un modesto incremento del Pib.
Del tutto estraneo alle beghe di potere, Martelly si propone – questa è l’immagine che di se stesso diffonde – come una versione casereccia del presidente nordamericano Obama quando s’atteggia a centrista pragmatico, e gioca la carta del governante di tutti che vuole conciliare le molte anime del suo Paese. Peccato che il suo passato (e in buona parte anche il suo presente) non siano esattamente – come vedremo più sotto – quelli di una verginella. E peccato che nel suo programma non vi siano che i generici impegni che hanno accompagnato tutte le campagne di tutti i candidati: la lotta alla povertà e per l’istruzione, la ristrutturazione dell’apparato di governo, la lotta alla spaventosa corruzione che affligge Haiti e la battaglia per conquistare la fiducia degli investitori internazionali…
Martelly ammette che non sarà un compito facile. Chiede la collaborazione dei suoi connazionali ed un gigantesco impegno collettivo. La gente (il 15 per cento che l’ha votato) guarda il suo viso simpatico, nemmeno un capello su quel cranio rasato molto stilé e dice: Ok, non è come gli altri. Lui riconosce la sua incompetenza politica ma la bilancia con la buona volontà. E tuttavia la sua storia personale, per quanto fondamentalmente all’insegna del disimpegno, non depone granché a favore di questo impegno. Michael non ha completato gli studi di medicina né l’Accademia Militare, da cui è stato espulso per avere messo incinta la figlia di un generale. Dopo quel fatto andò negli Stati Uniti dove sposò una gringa da cui divorziò poco dopo, lavorò nelle costruzioni e poi tornò ad Haiti per darsi alla sua passione, la musica. Si mise a cantare e si risposò, stavolta con una haitiana, Sofia, da cui ebbe quattro figli. Sofia è stata anche la sua manager fino a quando si è candidato. Benché non abbia mai fatto politica attiva, Sweet Micky ha avuto le sue amicizie, i suoi contatti, molto bipartisan, ma nel peggior senso del termine. Per esempio è amico di René Preval (da quando Preval ha cessato di essere amico di Aristide), ma anche di Michel François, ex capo della Polizia di Port au Prince, condannato per crimini di lesa umanità. Ed i suoi rapporti con gli uomini del Fraph, gli squadroni della morte che insanguinarono Haiti dopo il primo golpe contro Aristide, sono stati quantomeno ambigui.
Non sorprendentemente, Martelly è stato molto attivo nel manifestare per l’espulsione, nel 2004, dell’odiato Jean-Bertrand Aristide, (Martelly dedicò a quest’obiettivo ben due concerti). Ha però accolto con molto garbo l’ex presidente (o, più propriamente, il “vero” presidente) quando questi è tornato nel suo Paese, qualche settimana fa, acclamato dai suoi ancora molti fans e da una folla di giornalisti. Ha dichiarato perfino che potrebbe amnistiarlo, così come d’altronde potrebbe fare, ha detto, con il sanguinario ex dittatore Baby Doc, anche se prima “è necessario sensibilizzare le coscienze e valutare la sensibilità delle vittime”. Ed in questo tentativo – davvero infame – di equiparare le violazioni dei diritti umani consumatesi sotto Aristide (un’inezia se mai violazioni vi sono state) e quelle consumatesi sotto i Duvalier (o sotto i suoi amici militari che deposero Aristide), vi è tutta l’ambiguità del personaggio. Un’ambiguità che, oltre il faccione cordiale, sembra specchiarsi in tutto il peggio che la società e la politica haitiana hanno espresso nell’ultimo mezzo secolo. E chissà: è forse stato proprio per coprire questo suo legame con un passato non proprio edificante, che Sweet Micky si è dato, come si dice alle opere di bene. Ovvero: ha creato la Fondazione Rose et Blanc, che si occupa di poveri ed emarginati.
Su Martelly sono oggi puntati gli occhi d’una parte della comunità internazionale. La stessa che lo ha, di fatto, imposto come nuovo presidente di Haiti. La stessa, per inciso, che s’è impegnata a regalare al Paese undicimila milioni di dollari – dei quali non si sono per il momento visti che pochi spiccioli – per la ricostruzione post terremoto. Non che sia facile. Non solo c’è tutta quella gente stipata negli accampamenti, ma manca l’acqua e moltissime abitazioni e palazzi sono stati distrutti. Il trauma per René Preval è stato tale che, dopo il terremoto, ha smesso di parlare per un bel po’. E di apparire. Subito dopo il sisma, sono passati giorni senza che il presidente rilasciasse una dichiarazione ufficiale. Oggi, si giustifica dicendo: “Si dice di solito che un’emozione forte ti lasci senza parole, adesso lo capisco. Non mi usciva la voce, mi era difficile esprimere quello che sentivo”.
René Preval faceva il panettiere e il militante politico contro il regime di Jean-Claude Duvalier, quando conobbe l’ex sacerdote salesiano Aristide. Si era a metà degli anni Settanta e Aristide non era stato ancora espulso dalla chiesa per le sue dichiarazioni arroventate che, avrebbe detto più tardi la curia, “incitavano all’odio e alla violenza”. Il piccolo Aristide, o Tidit, come veniva chiamato, era dell’ala dura della Teologia della Liberazione e non faceva che tuonare che le elezioni non servono a nulla, quello che serve è la rivoluzione. La qual cosa non gli impedì, una volta spretato, di candidarsi alla presidenza, nel 1991. Era intelligente e carismatico, la sua popolarità era enorme. La sua vittoria fu travolgente e parve spalancare, finalmente, le porte della democrazia in un paese che mai aveva cessato di pagare quello che, agli occhi del civilissimo Occidente, era il suo peccato originale: essere nato da un vittoriosa ribellione di schiavi.
Le Forze Armate – le stesse che, per decenni, erano state uno dei pilastri del duvalierismo, ci misero appena sette mesi a deporlo. Aristide fuggì in Venezuela mentre alla guida del Paese saliva il generale Raoul Cédras. Fu riportato in patria dalle forze nordamericane tre anni dopo (tre anni marcati dallo scandalo di quotidiani massacri dei suoi seguaci), per terminare il suo mandato (non mancava che un anno), con l’impegno a non ripresentarsi. Il mandato successivo toccò a Preval e quello dopo ancora ad Aristide, che, di nuovo, non riuscì a terminarlo per l’opposizione cruenta dei gruppi militari e per quella di molti nuovi nemici che tali non avrebbero dovuto essere, ma che tali diventarono a causa dello stile di governo e dei molti errori di Tidit, da molte parti accusato di essere diventato un dittatore illiberale, che utilizzava squadroni paramilitari contro gli oppositori e le stampa avversa.
Finì che gli Stati Uniti, che non smisero mai di intromettersi nelle vicende haitiane – e che, regnante Bush non vedevano l’ora di disfarsi di Aristide) davanti a una situazione che stava degenerando in guerra civile, mandarono truppe ad Haiti, prelevarono di forza il piccolo prete e lo portarono in Centrafrica. Si indissero nuove elezioni e le vinse Preval (e le vinse nel nome di Aristide, anche se nel frattempo aveva avuto modo di trasformare le sue posizioni di sinistra radicale in altre più accomodanti con il Fmi e gli Usa. Lo accusarono questa volta di essere un liberista filoamericano, benché tra le altre cose avesse stretto legami con Chavez, che cedeva ad Haiti petrolio a prezzi preferenziali.
Tra le misure promesse dal nuovo presidente, la più inquietante (dato il non limpido passato di Martelly) c’è quella di ricostituire le Forze Armate per garantire la sicurezza e invogliare le aziende straniere a investire nel Paese. Per ora funzionano ad Haiti sia il Corpo di Polizia creato da Aristide, sia il cosiddetto Minsutah, istituito dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel 2004, e che lascerà il Paese nel 2012.
Certo è che ad Haiti piove sempre sul bagnato, in senso cattivo. Qualche mese fa è scoppiata perfino un’epidemia di colera, sono già morte quattromila persone. Ci sono poche medicine, poche strade, e gli ospedali non sono stati ancora ricostruiti. Ora Martelly dichiara: “Con l’aiuto di tutti, riusciremo a fare di questo Paese un luogo bello e giusto”. Come? Non si sa. Prima il terremoto, poi il colera. Ora Martelly. Ad Haiti il peggio è sempre quello che sta arrivando….