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Chi ha vinto, chi ha perso…

Gabriella Saba illustra (in due articoli scritti prima del voto) i due mali – il peggio che ha perso ed il meno peggio che ha vinto – che si sono contesi il futuro del Peru

OLLANTA HUMALA

Il vero problema di Ollanta Humala, 47 anni, probabilmente il candidato più interessante alle presidenziali peruviane del 2011 (ha corso per la stessa carica nel 2006, perdendo di poco e solo, sostengono i maligni, in virtù dell’aperto ed entusiastico appoggio di Hugo Chávez) è quello di provenire da una famiglia impresentabile. Imbarazzante politicamente, quella di Humala è infatti una famiglia da realismo magico, poco indicata per un futuro presidente. La madre di Ollanta, Elena Tasso, avvocatessa e professoressa di lontane origini italiane, ha rilasciato alla stampa dichiarazioni come questa: “Tutti i miei figli sono presidenziabili. Li abbiamo educati alla spartana, all’amore per la patria e per la razza e tutti hanno respirato politica fin da bambini”.  Il padre di Ollanta, Isaac, è il fondatore di un movimento xenofobo dall’esotico nome di etnocacerista ed è impegnato da anni nel riscatto del millenario impero inca. I sei fratelli di Ollanta hanno nomi coloriti, incaici o tratti dalla mitologia greca: Ulises per amore dei classici, Pachacutek (“riformatore del mondo”, nella mitologia inca), Cusi Coyllur (“stellina allegra”, in quechua) Imasúmac (“la più bella”), Antauro (“stella cobriza”) e Ollanta (“il guerriero che vede tutto”) in omaggio agli antenati indigeni. Ulises, un ingegnere laureato alla Sorbona e ferocemente nazionalista, si è candidato anche lui alle scorse presidenziali, ha raccattato meno dell’uno per cento dei voti ma ha dichiarato che continuerà la sua battaglia in piena coerenza con le sue idee. Un altro fratello, Antauro, si è fatto un bel po’ di galera per avere partecipato all’assalto a un commissariato che è costato la vita a quattro poliziotti

Tutti i miei figli sono presidenziabili. Li abbiamo educati alla spartana, all’amore per la patria e per la razza e tutti hanno respirato politica fin da bambini – Elena Tasso

Fin dalla culla, i rampolli Humala hanno ricevuto insegnamenti politici fondati sull’esaltazione nazionalista, l’odio per il sistema ed il desiderio di riscatto indigenista mischiato al disprezzo per i politici e a vaghi e confusi sentimenti populisti. L’anziano Isaac ha creato, oltre al suo inquietante movimento (che deve il nome ad Andres Avelino Caceres, eroe della guerra che il Perù combatté contro il Cile alla fine dell’800), un Istituto per gli Studi Etnogeopolitici articolato in facoltà che cominciano per etno: etnofilosofia, etnostoria, etnobiologia. Ha una morbosa adorazione per le Forze Armate ma negli anni Cinquanta ha bazzicato il leader guerrigliero Hector Bejar, dell’Esercito di Liberazione Nazionale, e militato nel Mir.

Quel bizzarro pastrocchio educativo ha prodotto un fenomeno come Ollanta, un ex colonnello ultranazionalista dell’esercito che fino a cinque anni fa nessuno conosceva, ma oggi è al quarto posto nelle intenzioni di voto, a dieci punti dal favorito Luis Castañeda Lossio, ex sindaco di Lima, e a sette dalla soave, 34enne Keiko Fujimori del partito Fuerza 2011, figlia dell’ex presidente attualmente in carcere (sta scontando una pena di 25 anni per violazioni dei diritti umani), e seguace di un fujimorismo meno autoritario di quello del padre ma in ogni caso inquietante.

Furbissimo e molto abile nel gestire la sua immagine, Ollanta ha avuto il talento di deviare dalla linea familiare quel tanto che bastava per diventare presentabile. E infatti 27 intellettuali di spicco gli hanno dichiarato, di recente, il loro appoggio. E perfino gli industriali hanno ascoltato con interesse i promettenti progetti politici dell’ex colonnello, che oscillano tra un sano realismo e una tendenza bipartisan non si sa bene se ispirata al buon senso o a calcolo. Un bel successo se si tiene conto della burrascosa e poco ortodossa traiettoria del candidato, che raggiunse il punto di non ritorno il 29 ottobre del 2000, quando, insieme al fratello Antauro, assaltò un’installazione mineraria per chiedere le dimissioni dell’allora presidente Alberto Fujimori. Poi, i due se ne andarono per un mese in giro per il Perù a fare proseliti contro il governo e infine si consegnarono alla polizia militare (nel frattempo Fujimori era stato deposto democraticamente), insieme ai 50 militari che li avevano seguiti nell’impresa. Amnistiato due mesi dopo, Ollanta venne spedito come attaché militare a Parigi e poi a Seul e in quel ritiro forzato ebbe tutto il tempo di capire cosa voleva fare da grande.

 

Quando tornò in patria, era una persona un pochino diversa da quella che ne era partita. Mentre Antauro, lasciato l’esercito e alla testa del suo gruppetto di avelinisti  (ancora da Avelino Caceres) distribuiva con militaresca ostinazione l’etnocacerista quindicinale Ollanta, l’ex colonnello già da lontano faceva discretamente sapere che lui non c’entrava più niente con quelle storie. Rientrato in patria, prendeva inoltre le distanze dalle posizioni un filino estreme del vecchio Isaac, addolcendo nei comizi gli insegnamenti etnocaceristi: lui non era affatto razzista, nossignore, era solo contrario alla “stranierizzazione” del Paese, i bianchi non andavano espulsi e non erano affatto dei peruviani falliti, e quanto alla guerra al Cile caldeggiata dai familiari (per questioni territoriali) non era necessaria, il punto era costruire “relazioni esterne e una politica della difesa”.

Noi non crediamo nel nazionalismo etnico…Crediamo in un nazionalismo culturale. Non è importante il colore della pelle ma l’impegno in un progetto. Parliamo anche di nazionalismo economico, e cioé dell’economia nazionale di mercato. Non accettiamo altri tipi di nazionalismo etnico, che abbiamo visto che fine hanno fatto in Europa – Ollanta Humala

Oggi Ulises e Isaac dicono che Ollanta li ha delusi. “E’ troppo ambizioso e ha tradito l’educazione familiare”. E infatti il secondo dichiarò, quattro anni fa, di avere votato per Ulises il quale, come lui, era seguace della teoria del Tahuantinsuyo che considera come parte di una stessa, grande nazione anche gli ecuadoreni e i boliviani. Ulises correva con il partito Avanza Pais, una versione più strutturata del Movimiento etnocacerista. Ollanta era in lizza con la lista Partido nacionalista uniendo al Perù, nato dall’alleanza tra i partiti Union por el Perù e Partido nacionalista peruano. Oggi, abbandonata quella coalizione che si è schierata con Alan García, l’attuale presidente, annuncia che si candiderà con il Partido Nacionalista, ma puntualizza che non si tratta di un nazionalismo etnico: “Noi non crediamo nel nazionalismo etnico”, tuona oggi. “Crediamo in un nazionalismo culturale. Non è importante il colore della pelle ma l’impegno in un progetto. Parliamo anche di nazionalismo economico, e cioé dell’economia nazionale di mercato. Non accettiamo altri tipi di nazionalismo etnico, che abbiamo visto che fine hanno fatto in Europa”.

 

Il programma di Ollanta è in realtà, secondo molti, piuttosto confuso. Nei suoi discorsi punta soprattutto sulla superiorità nazionale, mentre le proposte economico-sociali si riducono a una imitazione poco convinta di quella boliviana: nazionalizzazione delle risorse, inclusione degli indigeni e (ma qui la Bolivia non c’entra) moralizzazione dell’esercito che – è un chiodo fisso di Ollanta – va ribaltato se si vogliono ottenere “Forze Armate moralmente forti e fisicamente dissuasive”. Un altro obiettivo è quello della lotta alla corruzione, che Ollanta affronta nel suo solito modo suggestivo, e cioè proponendo di internare i politici corrotti in un apposito carcere nel cuore della selva. Pur riconoscendo i successi economici del governo di Alan Garcia, che ha portato il Paese a una crescita record nel 2008 del 9,8 per cento, il candidato nazionalista lo ha definito, pubblicamente, un cabron. I candidati che non siano lui sono d’altronde, per Humala, fujimoristi senza Fujimori, dato che nessuno di loro vuole cambiare la costituzione del ’93 fatta approvare dall’ex presidente.

 

All’origine del suo nazionalismo c’è, va da sé, l’assioma che il Perù deve appartenere ai peruviani. Tra i suoi cavalli di battaglia spicca la lotta alla diseguaglianza, dato che i poveri sono, in quel Paese, circa il 54 per cento della popolazione. Secondo i sondaggi sono soprattutto i giovani, gli indigeni e gli emarginati a votare per Humala: stanchi dei politici corrotti e abulici di cui l’uscente Alan Garcia e il predecessore Alejandro Toledo (di nuovo in corsa anche per le prossime elezioni), sono solo gli ultimi esempi e fiduciosi in quell’uomo sanguigno, che promette riscatto al Paese e ai poveri una vita migliore. E infatti i consensi non calarono (o almeno non per troppo tempo) nemmeno quando il programma televisivo Panorama esibì, qualche anno fa, alcuni testimoni delle sparizioni e delle torture che un certo “capitano Carlos” (era il nome di battaglia di Ollanta) avrebbe ordinato, agli inizi degli anni Novanta in alcune località della selva, nel corso delle attività antisovversive. Ovviamente Humala ha smentito. E’ vero, ha ammesso, che ha militato in quelle zone e in quegli anni, solo non era quel Carlos ma un altro Carlos, e i testimoni si sono confusi o, peggio ancora, a montare quella messinscena sono stati i suoi nemici per screditarlo.

 

Eppure sembra che, persi consensi da una parte, Ollanta trovi il modo di guadagnarli dall’altra. Per tacitare le accuse di antisemitismo ha voluto incontrare i vertici della comunità ebraica. E’ riuscito ad accattivarsi le simpatie di una parte dell’impresariato puntando sulla difesa dell’industria nazionale e giocando sull’incertezza provocata dal frazionamento della destra (secondo una recente inchiesta, il 12 per cento degli imprenditori vedrebbe di buon occhio l’elezione di Ollanta).

 

Benché la coalizione delle forze di sinistra gli abbia assicurato il suo appoggio, ha dichiarato di non essere di destra né di sinistra e che la distinzione è obsoleta. Alle accuse di essere un burattino di Chavez ha ribattuto che il suo obiettivo è quello di instaurare rapporti di amicizia con tutti i governi latinoamericano ma senza preferenze. E a un giornalista che gli ha chiesto cosa pensasse delle limitazioni alla libertà di stampa decretate in Venezuela ha ammesso, prudentemente, di non saperne niente, ma ha garantito che, nel caso venga eletto, farà di tutto perché quel diritto venga rispettato.

 

Ollanta Humala è solo un golpista frustrato, ha scritto il quotidiano argentino Pagina/12. Sarà, però non è un fesso. Nel confuso immaginario politico di una parte dei latinoamericani Ollanta è un homo novus sulla strada dell’affrancamento dagli Usa e del riscatto dei popoli oppressi.

Alcuni analisti hanno affermato che è un gioco facile, per un politico come lui avere successo oggi, dato che nessuno dei candidati è esattamente nuovo né fa promesse che facciano presagire un cambio. La cosa più surreale è che nemmeno Ollanta lo è. I suoi discorsi ricordano molto quelli che faceva, nel 1990, l’allora sconosciuto Fujimori e, quando già era al governo, l’ex presidente Toledo. Oltrettutto, nel nazionalismo familiare di Humala ci sono parecchie crepe. I suoi congiunti tuonano contro gli stranieri ma i sette fratelli hanno studiato nelle università occidentali, e metà di loro sono sposati con europei.

 

E’ vero che Ollanta con la famiglia è un po’ in rotta, al momento. O meglio, la famiglia è un po’ in rotta con lui. Lo accusano, tra l’altro, di avere utilizzato il movimento etnocacerista all’inizio della campagna e di averlo scaricato quando era diventato politicamente ingombrante. Solo il fedelissimo Antauro (quello dell’assalto al commissariato) non lo rinnega.

 

E va detto che, per il momento, nemmeno Ollanta rinnega Antauro. Ha puntualizzato soltanto, con la consueta prudenza, che lui con quell’assalto non c’entra, e che condanna lo spargimento di sangue. In altre parole, ancora una volta dice e non dice e si chiama fuori.

 

 

KEIKO FUJIMORI

Keiko Sofia Fujimori non è brillante né carismatica, ma ha un cognome importante. Il padre, Alberto, ha governato il Perù dal 1990 al 2000. Molti peruviani lo ammirano, lo rimpiangono e lo eleggerebbero ancora, poco importa che  stia scontando una condanna a 25 anni per violazioni dei diritti umani nel suo Paese. O, in vece sua, eleggerebbero la figlia, che ha lanciato poco più di un anno fa il suo nuovo partito, Fuerza 2011, nato “dopo 22 mesi di gestazione” dai vivacissimi scampoli del fujimirismo.

Stando ai sondaggi, la trentacinquenne Keiko (che all’inizio del 2009 aveva annunciato la sua candidatura alle presidenziali del 2011), è la seconda nelle intenzioni di voto, con il 22 per cento, ex equo con Luís Castañeda, l’ex sindaco di Lima. In pole position, da poche settimane, il candidato di Peru Posible Alejandro Toledo, ex presidente del Paese dal 2001 al 2006.

Alberto Fujimori è il miglior presidente della Storia del Perù. E noi vogliamo che il Perù torni nella Storia… – Keiko Fujimori

Bruna e sorridente, capelli lunghi e lineamenti nipponici, la giovane candidata guarda al padre come a un modello. “E’ stato il miglior presidente che abbia avuto il Perù”, ha dichiarato, annunciando che tra le misure del suo eventuale governo ci sarà la grazia al settantatreenne Alberto. Lei non solo è convinta della sua innocenza ma lo considera il salvatore della patria: durante il suo mandato, Fujimori ha stabilizzato l’economia e debellato il movimento guerrigliero Sendero Luminoso, ma il suo governo è stato repressivo e corrotto e nel ‘92 ha realizzato un autogolpe per garantirsi la longevità. Anche il programma di Keiko è fujimorista, ma in versione ammorbidita: un miscuglio di populismo e autoritarismo, di ricette economiche che favoriscano gli investimenti stranieri e di una indefinita attenzione ai più poveri.

“Restituiremo il fujimorismo al Paese”, ha annunciato da Twitter, da cui aggiorna gli amici in tempo reale su ogni aspetto della sua vita, e molti in Perù hanno tremato. Nonostante i modi misurati, c’è chi la vede infatti come l’incarnazione nefasta dell’ex presidente, e fa notare le analogie tra le circostanze storiche che avevano favorito l’avvento al potere del vecchio Fujimori e quelle del Perù di oggi: anche nel ‘90 era al governo Alan García, la cui politica disastrosa aveva portato il Paese sull’orlo del baratro economico e che ora, al suo secondo mandato, ha una popolarità di appena il 35 per cento. Questa volta le debacle del presidente non sono economiche, dato che il Perù ha registrato nel 2008 la crescita record del 9,8 per cento (e di ben l’8,7 per cento nel 2010), il problema è che quelle entrate non hanno migliorato le condizioni di vita della stragrande maggioranza dei peruviani. A far precipitare la credibilità di García ha contribuito inoltre la deriva liberista e autoritaria del presidente, formalmente di centro-sinistra: nel giugno del 2009, ha infatti ordinato la repressione delle proteste degli indigeni contro l’approvazione di una serie di decreti legge che autorizzavano lo sfruttamento di alcune zone amazzoniche senza il consenso degli abitanti. Negli scontri sono morte 34 persone, e le proteste in tutto il Paese hanno portato alle dimissioni del Primo Ministro e alla deroga di quei decreti da parte del Congresso.

Keiko è il contrario di tutto questo, almeno all’apparenza. All’autoritarismo di Garcia oppone l’immagine di una ragazza dolce e vicina al suo popolo. Madre di due figlie, dichiara di identificarsi con tutte le madri del suo Paese. Nel 2006 è stata la parlamentare più votata, con circa 600.000 voti, e da allora decine di persone ogni giorno si rivolgono a lei per le richieste più varie. “Il Parlamento deve rappresentare e non solo legiferare”, ha dichiarato, e ha aggiunto che proprio da quei suoi incontri sono nate alcune proposte di legge. Per esempio, quella che vorrebbe dotare i commissariati di una poliziotta che raccolga le denunce di violenza domestica sporte dalle donne.

Ha una parola buona per tutti, perfino per il nemico storico Alejandro Toledo che mandò in galera molti corresponsabili degli eccidi di Fujimori. “Bisogna dargli atto di una buona gestione macroeconomica, le cui basi erano state però create da mio padre”, ha ammesso soavemente.

Quanto a García, riconosce anche a lui il merito di una buona politica economica, e si è schierata al suo fianco nella controversia che ha minacciato qualche mese fa i rapporti con il Cile, accusato dal Presidente di fare spionaggio in Perù.

Eppure, molti pensano che dietro quel piglio equanime ci sia ben altro che una innocente madre di famiglia, inconsapevolmente votata al culto del padre. Tra i delitti di cui viene accusato quest’ultimo c’è infatti l’uso di fondi di Stato per pagare gli studi negli Stati Uniti di Keiko e dei suoi tre fratelli Kenyi, Hiro e Sachi. Più di un milione di dollari sulla cui provenienza né l’ex presidente né Keiko hanno dato una spiegazione credibile. La giovane congressista ha studiato negli Usa a più riprese: aveva appena compiuto 19 anni quando suo padre la richiamò in patria per ricoprire il ruolo di first lady da cui la madre era stata estromessa dopo avere accusato pubblicamente il marito di corruzione. Keiko è stata la primera dama per sei anni, ma nel 2000 l’ex presidente è tornato in Giappone, suo Paese di origine, per sfuggire a un processo per corruzione, e lei è ripartita per gli States. Si è guadagnata un business degree presso la Boston University School of Management, e nel frattempo ha conosciuto l’italoamericano Mark Vito Villanella, che poi è diventato suo marito.

Anche Mark è uno sfegatato ammiratore del vecchio presidente e anzi, dicono, ha contribuito parecchio al successo politico della moglie.

Qualche mese fa ha ottenuto la cittadinanza peruviana e le sue foto su facebook lo mostrano attivissimo nelle riunioni fujimoriste. E’ anche un marito adorante e la coppia Keiko-Mark va più forte di quelle delle soap opera. D’altro canto, la giovane Fujimori aveva dichiarato meno di due anni fa che il suo obiettivo era quello di essere una buona parlamentare e soprattutto una buona moglie e madre. Poi, però, ha deciso di buttarsi nella mischia.

 

 

 

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