C’era una volta un presidente chiamato George W. Bush. E, per la verità, ancora c’è. In qualche misura, anzi, c’è oggi più che mai. C’è, e proprio in questi giorni è spettacolarmente riemerso – come un cattivo ma incancellabile ricordo o, ancor meglio, come un mal represso senso di colpa – dalla semi-clandestinità nella quale era da cinque anni sprofondato. Ragione di questo suo molto pubblicizzato ritorno agli onori della cronaca: l’inaugurazione della faraonica biblioteca-museo a lui dedicata (tutti gli ex presidenti ne vantano una) eretta, per la modica somma d’un quarto di miliardo di dollari, nel verde del campus della Southern Methodist University di Dallas, nel suo amato Texas.
Come vogliono la tradizione ed il protocollo, alla cerimonia d’apertura hanno preso parte, insieme al meglio della politica e della diplomazia, tutti i predecessori ancora in vita del festeggiato ed il suo unico successore. Ovvero: Barack Obama, l’uomo che nel 2008 vinse la corsa per la Casa Bianca proprio perché considerato la più radicale alternativa ad una presidenza marcata da due guerre – parte, l’una e l’altra, d’una strategia globale definita della “guerra infinita” – e dalla più grave crisi economica del secondo dopoguerra. Tutti – compreso Jimmy Carter che, più d’ogni altro, di George W. Bush è oggi politicamente e filosoficamente agli antipodi – hanno, senza eccezioni, avuto buone parole per il 43esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Tutti hanno ne hanno lodato i tratti umani – “he’s certainly a good man” è sicuramente una brava persona, ha detto di lui Obama -; e tutti hanno, come pretende il cerimoniale, teso il proverbiale velo pietoso sulle ragioni che, nei suoi ultimi due anni di potere, lo trasformarono nel più impopolare tra i presidenti vissuti in epoche successive all’invenzione dei sondaggi. Solo una questione di galateo politico? Anche, ma non solo. Anzi: anche, ma non tanto. Perché sono in effetti due i termini che, molto meglio di ‘buona educazione’, spiegano i molto fragorosi silenzi consumatisi nel corso della cerimonia di presentazione della George W. Bush Presidential Library and Museum. E queste parole sono complicità e continuità.
Raccontano le cronache come la nuova biblioteca vanti ed esponga più di 43.000 reperti. Il più importante dei quali – vero e proprio centro gravitazionale della biblioteca-museo – è naturalmente “the bullhorn”, il megafono attraverso il quale, 48 ore dopo l’attentato, ‘Dubya’ parlò, il braccio virilmente posato sulle spalle d’un un anziano pompiere, dalle macerie del World Trade Center. Nessuna traccia, invece, di altri oggetti che pure – molto più del megafono e delle parole che da quel megafono uscirono -– hanno definito la storia del dopo-11 settembre 2001. Non c’è il libro “My Little Pet Goat”, la mia amica capretta, che Bush stava leggendo ai bambini d’una scuola elementare della Florida – e sul quale si soffermò per sette interminabili minuti d’attonito silenzio, preludio d’una latitanza durata più di due giorni – quando il suo chief of staff gli sussurrò all’orecchio la notizia degli attentati. Non c’è la fiala di antrax che Colin Powell, allora suo segretario di Stato, agitò di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’Onu come casus belli, ovvero, come ‘prova’ delle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein…Non ci sono molte cose in quel museo. Le più importanti e, di certo, le più durature, quelle che meglio definiscono non solo quel che è stato, ma quel che davvero resta degli ‘anni di George W. Bush’.
Lo ha spiegato molto bene, in un ‘op-ed’ per il Washington Post – significativamente intitolato ‘L’eredità di Bush’ – uno dei più stagionati e brillanti tra i columnist conservatori d’America, Charles Krauthammer. E lo ha da par suo spiegato partendo da una molto ‘bushana’ menzogna. Le eredità politiche davvero grandi, ha scritto Krauthammer citando Clare Boothe Luce, sono quelle che si possono riassumere in una sola frase. E nel caso di Bush la frase è questa: ‘He kept us safe’, ci ha protetti. Protetti, ovviamente, da nuovi attacchi analoghi a quelli dell’11 settembre.
Falso. Le guerre di Bush (e tutto quello che a queste guerre ha fatto da corollario) non hanno regalato all’America e al mondo alcuna sicurezza. Tutto il contrario. Ma vero è tuttavia – come Krauthammer fa impietosamente notare – che l’intero sistema di sicurezza che Bush ha allestito come supporto della sua politica di guerra è ancor oggi integralmente e trionfalmente al suo posto. L’uso diretto della tortura – che Bush avallò sotto l’ipocrita copertura d’una macabra riforma linguistica, chiamandola ‘enhanced interrogation techniques’, tecniche d’interrogatorio rafforzate – resta una realtà. Ed una realtà resta anche la tortura per commissione, quella che, sotto il nome di ‘extraordinary rendition’, prevede l’invio dei sospetti di terrorismo in centri specializzati allestiti in paesi – tutti buoni amici degli Usa – nei quali la tortura è praticata senza problemi o interferenze. Ed al suo posto – più che mai al suo posto – resta la prigione di Guantánamo, terra di nessuno legale, dove non esistono né stato di diritto né convenzioni di Ginevra, ma solo il puro arbitrio d’una detenzione senza limiti…Proprio mentre, in Texas, i presidenti rendevano omaggio a ‘the good man’ George W. Bush, da Guantanámo (una vergogna che Obama aveva promesso di cancellare già nei primi mesi del suo primo mandato) giungeva l’eco (per l’ennesima volta ripresa da un editoriale del New York Times) dello sciopero della fame di 133 disperati…
Volendo parafrasare un vecchio slogan che accompagnò i rivolgimenti degli anni ’60 e ’70: Bush è vivo e tortura insieme a noi. La sua vera eredità è questa: una ferita ancora ben aperta. E che continua a sanguinare…